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L’esperienza di “Essere Chiesa insieme” (L. Caffagnini)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/11


Il contesto italiano
Il fenomeno migratorio interpella da anni la società italiana e mai come negli ultimi decenni si è manifestato il rapporto stretto tra immigrazione e religioni. Chi lascia il proprio Paese per motivi economici o perché vittima di discriminazioni, violenza e guerra, esprime una cultura così come un’opzione religiosa, sia essa confessionale o personale, o una forma di convinzione filosofica. Nell’incontro tra i popoli avviene perciò il confronto e il dialogo tra queste diverse espressioni, una dialettica da cui nessuna chiesa o altra organizzazione religiosa può dirsi esente.
Mentre fino al secolo scorso l’Italia era caratterizzata da una maggioranza cristiana di denominazione cattolica, una minoranza di confessione evangelica, e un’antica presenza ebraica, oggi, con l’immigrazione dall’Est europeo e dai Paesi dall’Africa e dal Medio Oriente, l’Islam e l’Ortodossia si contendono il secondo posto nelle statistiche sulle fedi.
Tralasciando la questione dell’impatto delle altre religioni e rimanendo nell’ambito del cristianesimo, i cristiani italiani autoctoni sempre più spesso si trovano a fianco nuove presenze che mutano il volto delle chiese: ci sono filippini, ghanesi, brasiliani, rumeni, congolesi, nigeriani - l’elenco potrebbe continuare - che portano con sé la loro lingua, il modo di vivere lo spazio liturgico, cantare, pregare, ascoltare e rispondere alla Parola. E anche i loro cibi e abiti. Da subito, quindi, si pone l’interrogativo su come affrontare questo incontro, che può essere ignorato, addirittura negato o, se accolto, diventare una benedizione.
Tendenzialmente si assiste a un doppio scenario: da un lato la creazione di gruppi di preghiera nazionali e di comunità “etniche” all’interno di confessioni storiche che rispondono alle esigenze degli immigrati creando cappellanie dedicate, come nel caso della Chiesa cattolica, con preti e religiosi stranieri incardinati o no nelle diocesi; oppure chiese “etniche” che si formano nell’alveo delle chiese storiche protestanti, con pastori dello stesso gruppo nazionale dei fedeli, che mantengono la lingua, la liturgia e le tradizioni dei Paesi di provenienza; o nuove congregazioni, solitamente francofone o anglofone, che alternano come lingua del culto quella coloniale con quella nazionale, create da persone che non hanno legami con chiese preesistenti.
Dall’altro lato si osserva la ricerca, con alterni risultati, di un inserimento nelle chiese “italiane”, che forse non sono ancora attrezzate ad accogliere i nuovi fratelli e sorelle come soggetti alla pari, non come persone da assistere o a cui destinare le nostre liturgie, come partner che possono svecchiare il modo occidentale di celebrare e possono assumersi delle responsabilità all’interno delle parrocchie, a livello biblico, liturgico, sociale.
è difficile fare una valutazione serena sulle chiese etniche che si rischia di pensare come “ghetti” che non favoriscono l’apprendimento della lingua italiana e che limitano la circolazione delle diverse sensibilità e approcci al religioso la cui condivisione costituisce senz’altro una ricchezza e un completamento. Certo il ritrovarsi in un Paese europeo di cui si conosce poco la lingua, e l’esperienza di una liturgia spesso un po’ spenta rispetto alle entusiastiche celebrazioni africane o sudamericane, oltre al senso di estraneità che facilmente si respira nelle nostre città, fa desiderare un luogo e delle presenze che garantiscano l’espressione del rapporto con il divino ancora nelle forme avvolgenti della propria infanzia. Il pensiero di molti degli operatori cattolici e protestanti è che quella delle chiese etniche potrebbe essere una fase intermedia per facilitare i primi anni d’inserimento in Italia e fare da ponte alla formazione di chiese miste consapevoli, e c’è chi registra, da parte dei figli d’immigrati nati in Italia, un timido avvicinamento a questa forma d’interazione, favorita dal fatto che i figli e i nipoti vivono maggiormente la dimensione interculturale. Probabilmente occorrerà ancora del tempo per vedere evoluzioni significative.
Le chiese evangeliche hanno risentito come le altre del profondo mutamento del panorama civile e religioso italiano. Dal 1984 il loro impegno in campo sociale si è allargato - in seno alla Federazione delle chiese evangeliche in Italia - con la creazione del Servizio rifugiati e migranti, che si occupa di informare e sensibilizzare la società e le chiese sui temi immigrazione, asilo e razzismo, discriminazione e interculturalità; tutela i diritti dei migranti e dei rifugiati e li sostiene nel processo di integrazione sociale e culturale. In collaborazione con la Commissione delle Chiese per i migranti in Europa (CCME), il Servizio elabora progetti su temi sensibili, in particolare sulla tratta degli esseri umani. Alla FCEI non è sfuggito certo l’ambito religioso, che oggi segue anche attraverso il progetto “Essere chiesa insieme” (ECI) ideato nel 2000 e tuttora operante attraverso un comitato misto per denominazione e nazionalità.
Massimo Aquilante, oggi presidente della Federazione, pastore della Chiesa metodista di Parma-Mezzano dal 1988 al 2000, è stato testimone dell’avvio del primo “laboratorio” sostenuto da ECI, nel luogo di culto di Mezzano, a diciassette chilometri da Parma: «L’esperienza iniziò negli anni ’90 del Novecento con l’arrivo dei primi gruppi di immigrati ghanesi di fede evangelica. Mezzano è stato, a metà Ottocento, uno dei luoghi della prima evangelizzazione metodista wesleyana in Italia. Ancora un secolo dopo, la chiesa era composta solo da italiani e negli ultimi anni la presenza stava declinando, mentre era maggiore nella chiesa di Parma. Ci si era posto il problema di come convivere, come ridisegnare la chiesa considerando che accanto agli italiani erano arrivati dei fratelli africani. Questa è stata l’origine dell’iniziativa poi denominata “Essere chiesa insieme”, un progetto pilota per le nostre comunità in Italia. Non si tratta semplicemente di una somma di diverse spiritualità: ECI vuole essere un laboratorio in cui effettivamente l’essere insieme realizza un prodotto unitario. Ogni domenica si sperimenta che è possibile vivere insieme la fede, condividere spiritualità e sensibilità diverse. E vorremmo dirlo anche ai nostri governanti. Ecco perché ci teniamo al progetto: è una testimonianza forte e vera».
Solomon Dwamenah, predicatore ghanese della chiesa di Mezzano lo definisce «un piccolo seme a cui non tutti credevano all’inizio. Vide la luce con sole quattro persone, poi tutte le altre nostre Chiese hanno imparato da qui». I ghanesi di Mezzano, oltre dai pastori della chiesa evangelica metodista di Parma, che con Mezzani costituisce un’unica entità, sono stati accompagnati dal 2002 al 2009 dal pastore ghanese George Ennin, oggi responsabile della chiesa di Pordenone, inviato dalla Chiesa metodista del Ghana, i cui vescovi fanno visite pastorali periodiche in Italia.
In questo periodo a Mezzani opera il pastore ghanese Elymas Newell, presentato al Sinodo valdese 2010 di Torre Pellice, che ha anche l’incarico, come il suo predecessore, di seguire i fratelli e le sorelle evangelici dell’Italia del nord nelle chiese che aderiscono al progetto “Essere chiesa insieme”. La presenza di questi pastori in Italia è possibile grazie al contributo e al sostegno della CEVAA - la Comunità di Chiese in missione, rete di trentotto chiese evangeliche di Europa, Africa, America e Oceania - che favorisce lo scambio di pastori tra l’Africa e l’Europa e partecipa alla realizzazione dei progetti.
Nelle parole del pastore Aquilante, i fratelli e le sorelle africani hanno portato alle chiese evangeliche italiane «una sensibilità spirituale più marcata di quanto non sia oggi tra gli italiani o gli europei secolarizzati. In origine le nostre chiese erano come loro. Poi però c’è stata la storia di mezzo: nel nostro continente è la storia della secolarizzazione che non è un male in sé, le cose sono andate così. Vedere questi giovani riportare all’interno delle nostre chiese, con la loro specificità africana, il canto, la preghiera, lo stare insieme, il condividere, che in fondo è a fondamento della nostra storia, è bello. Però la vita va avanti, non si può vivere solo del momento cultuale, loro stessi hanno bisogno di cose per la vita quotidiana. E allora ecco che anche la parte italiana da questo punto di vista ha un suo ruolo, e l’integrazione la costruisci su queste cose. Sono persone che hanno avuto bisogno del lavoro, dei documenti, di capire il nuovo ambiente di vita. Dal punto di vista del versante legislativo sta facendo molto il nostro Servizio rifugiati migranti che segue tutta la complessa legislazione in materia d’immigrazione, e ha costruito una rete di collaborazione ecumenica e interdenominazionale tra chi è impegnato a seguire gli immigrati e a costruire una società più integrata, più umana, più dignitosa».
  
Un progetto in evoluzione
Segretario del comitato di ministri di culto e laici di ECI, il pastore valdese Eric Noffke specifica che il progetto ideato da Annemarie Dupré e promosso dalle chiese della Federazione delle chiese evangeliche in Italia collabora concretamente sul territorio anche con la Federazione delle Chiese pentecostali, con l’Unione delle Chiese avventiste e con la Facoltà di teologia di Aversa delle Chiese pentecostali. «Il progetto è nato in alternativa al modello delle chiese etniche, che è stato il primo modo con cui le chiese hanno affrontato il fenomeno dell’immigrazione. Per esempio alcune chiese metodiste presbiteriane coreane, pur rimanendo relativamente autonome, sono state inserite negli ordinamenti delle chiese valdesi metodiste. C’è chi ha lavorato sempre per costruire una chiesa di stranieri e di italiani insieme, cercando di costruire un’unica chiesa. Il problema è che non c’è un modello perché ogni chiesa è una realtà a sé: al nord ci sono chiese composte soprattutto da ghanesi, nella mia, a Roma, c’è un compatto gruppo di filippini, si potrebbero fare altri esempi». Le differenze sono anche all’interno dei gruppi di immigrati secondo l’età: «Gli immigrati della prima generazione non s’integreranno mai veramente, mentre quelli della seconda spesso sono prigionieri tra la mentalità e i costumi dei genitori e quelli degli italiani dei quali condividono cultura, gestualità, lingua, perché ci sono cresciuti. La grande sfida è trovare uno spazio loro nella chiesa perché saranno loro, di fatto, la chiesa di domani».
Il politologo valdese Paolo Naso, coordinatore del comitato di ECI, pone l’accento sull’evoluzione del progetto: «Per lungo tempo “Essere chiesa insieme” ha portato avanti un lavoro di mediazione culturale e liturgica; oggi siamo entrati in una fase del tutto nuova; si sperimenta una coscienza della comunità interculturale dentro le chiese: questo è un patrimonio che si mette a disposizione della società civile. “Essere chiesa insieme” non è semplicemente la scoperta della gioia dell’incontro comunitario, ma è anche l’impegno comune di italiani e immigrati per promuovere percorsi virtuosi d’integrazione e d’inclusione sociale. La presidenza Aquilante della FCEI ha rafforzato questa linea di lavoro, certamente oggi una parte importante del lavoro di ECI non si svolge più solo all’interno delle chiese della rete. Oggi 300.000 evangelici immigrati sono presenti in questo Paese, attivi in chiese di matrice evangelico-pentecostale, o carismatica di evangelismo libero. Noi non possiamo essere disattenti di fronte a questa presenza, ma abbiamo il dovere di gettare ponti di collaborazione e di comunicazione. Da un anno stiamo lavorando con le chiese africane etniche di Castelvolturno, che sono una risorsa per la collettività. Lo scorso ottobre ECI ha organizzato un’iniziativa pubblica promossa dalla Federazione delle chiese pentecostali e dall’Unione cristiana evangelica battista, con un dibattito con esponenti della società civile e un culto multiculturale. Italiani e immigrati hanno pregato, ragionato sull’inclusione sociale e sull’integrazione. Ora abbiamo appena terminato un percorso di formazione per predicatori locali di chiesa».
Corinne Lanoir, biblista, già direttrice del centro ecumenico di Agape, nelle Valli valdesi, con il pastore Yann Redalié ha seguito la quarantina di persone del percorso. «Gli iscritti venivano da quindici luoghi diversi, soprattutto nel nord est dell’Italia, per la maggior parte ghanesi, alcuni francofoni di altri Paesi, otto filippini e due italiani, di confessione metodista e presbiteriana. Abbiamo lavorato molto sulla Bibbia, la predicazione, la storia delle chiese e l’ecclesiologia, ma anche la cittadinanza e l’interculturalità. Un gruppo di tutor localmente ha accompagnato i candidati in una dimensione di educazione popolare. Tra i temi che abbiamo affrontato ci sono la fiducia, la gestione del potere, la pastorale». Entrando in una valutazione dell’esperienza di “Essere chiesa insieme”, Lanoir la vede nella cifra dell’evoluzione: «Un’idea molto forte che avevamo all’inizio, era che non si dovessero fare chiese “etniche”. Adesso invece diciamo: “Dipende dalle situazioni, dai momenti, dalle comunità”. Non tutte le situazioni sono uguali, a volte si profila l’esigenza di un gruppo più interno, che ha bisogno di un proprio locale per ritrovarsi. Gli si offre del tempo e si resta a guardare come evolverà. I modelli non sono tutti uguali, dipendono anche dai diversi inserimenti dei gruppi stranieri nelle varie città. Certo, il progetto ha permesso alla compagine straniera delle comunità di avere maggiore visibilità e di stimolare tra i suoi membri più partecipazione. Vedere un fratello ghanese predicare aiuta gli altri ghanesi a sentirsi maggiormente parte della comunità; si notano le ricadute positive. Questo fatto rassicura gli immigrati anche nel loro percorso all’interno della società».
“Essere chiesa insieme” non è un processo unilaterale: «offre un contributo anche ai fratelli e alle sorelle italiani che a volte, a causa del grande numero d’inserimenti di cristiani stranieri, si sentono in esilio nelle loro comunità. Occorre accompagnare tutti in questo importante processo. Infine, tutti questi fenomeni sono molto interessanti; devo dire che abbiamo fatto finora una bella esperienza».