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Intervista a don Giorgio Celora, missionario di emigrazione in Australia (A.Paganoni)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 4/10


“Missionario di emigrazione” è un sacerdote che si rende disponibile, d’intesa con il proprio Vescovo, a raggiungere e servire pastoralmente una comunità “italiana” all’estero, là dove se ne presenta la esigenza. La Chiesa italiana tramite la Migrantes lo affida a quella Chiesa locale che ne aveva fatto richiesta.
Può anche succedere che sul posto quel sacerdote maturi poi la decisione di non potervi rimanere più a lungo dopo i primi anni di esperienza e di prova.
è il caso di don Giorgio Celora, missionario di emigrazione in Australia, che lucidamente e responsabilmente è arrivato a questa conclusione di cambiare Paese e cultura per un suo ulteriore impegno sacerdotale in emigrazione. Ed è indicativo constatare il sereno, forse anche in parte discutibile, ma indubbiamente sincero e responsabile, giudizio sulla propria posizione e servizio pastorale valutando le proprie capacità e la situazione locale.
L’intervistato, don Giorgio Celora, si presenta da solo. E l’intervistatore è un navigato missionario di emigrazione in terra di Australia, lo scalabriniano p. Antonio Paganoni.
Alcuni dettagli sul tuo curriculum vitae e tirocinio formativo
Sono un sacerdote della diocesi di Siena e ho conseguito la licenza e poi il dottorato di ricerca in Sacra Teologia Spirituale presso il Pontificio Istituto di Spiritualita’ “Teresianum” di Roma nel 1993. Nel marzo del 2007 ho ottenuto la Licenza in Filosofia nell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma con una tesi ispirata alla Enciclica di Giovanni Paolo II Fides et Ratio, dal titolo: “Come lo specchio della cultura dei popoli”.
Quando e come è nata l’idea di prestare la tua opera sacerdotale a comunità di emigrati italiani all’estero?
Mentre ero parroco di Bellavista e Lecchi, vicino a Poggibonsi, nella mia diocesi di Siena, ho visto un’inserzione sul quotidiano Avvenire, dove si cercava un sacerdote per la missione italiana di Liegi, in Belgio. Da qui è seguito un contatto con la Migrantes. Il mio Arcivescovo di allora, Mons. Gaetano Bonicelli, uno dei pionieri nella sua stessa gioventù della Migrantes, non ha potuto dire di no. Questo accadeva nel 1996 dopo 10 anni di esperienza pastorale (sono stato, infatti, ordinato nel 1986). Cosi anche il mio Vescovo, dopo un’iniziale sorpresa, ha dato il suo benestare. In seguito mi sono recato in Belgio ed ho incontrato il delegato di allora, don Elia Ferro… E lì sono rimasto per 11 anni.
Quali sono state le tue reazioni iniziali e convinzioni maturate durante il tuo servizio pastorale in Belgio prima di venire in Australia?
In Belgio, a Liegi, mi sono trovato in una zona ad alta emigrazione: 20.000 connazionali a quel tempo.
Io ero cappellano degli italiani di Liegi mentre vi era un’altra missione nella vicina città di Seraing. Le due missioni erano distinte, ma ci sono state diverse iniziative comuni con don Battista Bettoni e don Giuseppe Zambelli in un primo tempo e, in seguito, con don Gigi Carrera, tutti sacerdoti della diocesi di Bergamo.
Al mio arrivo venni accolto ed ospitato fraternamente nella missione di Seraing da don Giambattista Bettoni, don Giuseppe Zambelli e dalle gentilissime suore Poverelle di Bergamo.
Io credo che ogni Missione Cattolica risenta giustamente… ma anche ingiustamente del clima locale.
Giustamente, perché non può essere che così, perché si vive in una realtà concreta precisa. Così gli italiani che vivono a Liegi risentono delle realtà specifiche del contesto francofono-belga. Inoltre, si deve tener conto anche della specificità della Chiesa locale, delle sue tradizioni e sensibilità. Ma la specificità italiana resta e, grazie a Dio, deve sempre restare!
Dal mio arrivo in Belgio fino al giorno della mia partenza, nel corso di 11 anni, sono avvenuti molti cambiamenti nella realtà ecclesiale locale, cambiamenti che al mio arrivo erano solo accennati. Questi problemi sono nel frattempo esplosi. Fra tutti, di primaria importanza vi è stato quello legato alla carenza, sempre più grande, di preti. Questo ha generato la tentazione di inglobare sempre più il missionario nella Chiesa locale e di assorbire, per carenza di fedeli, le comunità italiane nella realtà locale. In Belgio, come normalmente in Europa, vige la modalità pastorale denominata cura animarum. Il sacerdote missionario viene con questa equiparato ad un parroco territoriale, ma con competenze personali in un determinato territorio.
Nelle Americhe e in Australia, invece, questo tipo di base e di garanzia giuridica, per quanto mi consta, non è mai esistita.
La citata situazione giuridico-pastorale, che in Europa era un fatto pacifico ed assodato, ha conosciuto negli ultimi anni un’evoluzione: quasi un volersi un po’ rimangiare tutto ciò che era stato fatto in passato. Un voler far dipendere sempre più il missionario dalla Chiesa locale, con un ruolo di semplice parroco o vicario parrocchiale diocesano, tout-court.
In questo contesto, con una emigrazione italiana che aveva determinate esigenze che venivano in parte soddisfatte dalla Chiesa locale, ma che in parte forse restavano insoddisfatte, devo dire che io ho fatto una scelta che ritengo cruciale.
Il cuore della Missione di Liegi era il Centro Sociale di Rocourt, a 5 chilometri dal centro di Liegi, anche se la mia sede era Liegi centro, di fronte al Consolato Italiano. Al mio arrivo questo Centro era soprattutto di “paste-asciutte” ed economicamente aveva grossi problemi. Il lavoro principale e più impegnativo per me è stato quello di renderlo un centro sociale e culturale, non nel senso intellettualistico del termine, ma piuttosto nel tentativo di farlo diventare luogo di riflessione sull’attuale stato dell’emigrazione italiana a Liegi, in Belgio.
Si è trattato di un grande impegno formativo che si è concretizzato nell’organizzazione di conferenze, sia in italiano come in francese, in rapporto alle diverse tematiche legate all’attualità o alle emergenze che il missionario riteneva tali, in dialogo con la comunità italiana e le componenti locali significative. La risposta è stata abbastanza soddisfacente e queste attività sono durate per circa 8/9 anni.
A distanza di anni, ritengo che questa sia stata una mossa nella giusta direzione. Si deve sempre, infatti, tentare qualche cosa di nuovo, non ci si deve semplicemente accontentare. Il nostro lavoro non deve consistere solo nel rispondere alle domande attuali ed immediate. Noi dobbiamo cercare di suscitare domande e le domande le suscitiamo anche con l’inventiva, con il tentare, con l’osare: osare, sempre e comunque. Ma questo, del resto, non è stato forse lo stesso stile di Gesù di Nazaret? Lui stesso non ci chiede, forse, nelle condizioni della mobilità di oggi, di rifuggire dal declinare gli stessi metodi ed approcci, ma di avere un occhio attento alle novità del domani, di quella novità gia presente in germoglio, nei solchi del nostro oggi?
Come è partita l’idea di aprire il capitolo australiano nella tua vita sacerdotale? Qual è stato il ruolo della Migrantes e della Chiesa locale?
Tutto è partito così. Il Direttore per la pastorale degli italiani all’estero presso la Migrantes era, allora, don Domenico Locatelli ed io, dopo otto anni che ero in Belgio, una estate sono andato a Roma da lui e gli ho detto: “Senti, guarda che io sto bene dove sono, però, siccome sono un po’ contrario alle permanenze eterne, nel senso che la mia attuale esperienza potrà continuare ancora per due, tre, quattro anni, anche fino a 12 anni, poi penserei di rientrare in diocesi”. Ed allora don Locatelli mi disse: “Ma tu vorresti proprio rientrare in diocesi o penseresti, per esempio, ad una esperienza anglosassone?”. Io risposi: “Non so… perché no?” Io però pensavo all’Inghilterra, agli Stati Uniti, al massimo al Canada, anche perché paese bilingue, francese e inglese, ed il passaggio sarebbe stato perciò più semplice.
E solo dopo un anno di silenzio, durante l’estate successiva, è venuta fuori la destinazione Australia. Io veramente non lo avrei mai pensato, anche perché sono sempre stato uno che non ama viaggiare. L’idea di fare viaggi lunghi mi stanca solo al pensiero. Non sono mai stato un turista. è stato ben raro che mi sia mosso solo per fare un viaggio. Viaggio solo da quando sono nella Migrantes. Sono, infatti, un animale stanziale, come diresti tu.
Ancor prima del tuo arrivo in Australia, quali aspettative e speranze nutrivi riguardo della tua futura destinazione?
A quell’epoca vi era in ballo l’organizzazione della Giornata Mondiale della Gioventù. Perciò tutto era in effervescenza. Don Locatelli, che collaborava molto con l’Ufficio della Pastorale Giovanile della CEI, aveva progettato di fare con loro un viaggio in Australia. Vi era già una commissione mista, Migrantes-Pastorale giovanile formata da sacerdoti e laici, che aveva preventivato un viaggio di tre settimane dal 10 gennaio ai primi di febbraio del 2006 in Australia. Don Locatelli mi propose di unirmi ad essa con lo scopo di decidere successivamente alla domanda che l’Arcivescovo di Adelaide aveva inoltrato di avere un prete italiano. La mia risposta fu che io non mi sarei mai mosso e che non avrei fatto nessun viaggio se il mio Arcivescovo non avesse sostenuto la proposta. Nel frattempo avevo un nuovo Arcivescovo, Mons. Antonio Buoncristiani.
Locatelli si rivolse allora al mio Arcivescovo: “Avrei bisogno di un prete, Eccellenza”. E l’Arcivescovo: “Non ne ho più da darti”. Locatelli riprese: “Ma il prete che Le chiedo Lei ce l’ha già, perché attualmente è missionario in Belgio”. Allora l’Arcivescovo capì che si trattava di me. E con questo piccolo stratagemma don Locatelli ottenne un primo, ma significativo assenso informale. Quindi con la benedizione del mio Arcivescovo partimmo per tre settimane verso l’Australia, dal 10 gennaio fino ai primi di febbraio del 2006.
Tentiamo di tracciare una specie di consuntivo sulla tua permanenza ad Adelaide. Come ti sei trovato con le collettività di emigranti, con la Chiesa locale, con i sacerdoti coinvolti nella pastorale di emigranti…?
Con le persone mi sono trovato benissimo. Forse anche per una mia facilità naturale di rapporti. Io sono molto semplice, vado alla ricerca delle persone; non è tanto questione di virtù. è che io sono fatto così. Per cui con gli italiani, immediatamente, ma anche con altre persone l’impatto è stato molto buono. Con gli australiani stessi, man mano che almeno i rudimenti della lingua di Shakespeare mi entravano in testa, le barriere sono progressivamente cadute ed il rapporto è stato ottimo.
Mi hanno meravigliato molto questi italiani che vivono in Adelaide, per la loro generosità e il grande cuore; e poi anche per la gioia, sempre profonda, che dimostravano verso chi veniva dall’Italia. Chiunque viene dall’Italia è come se fosse un ambasciatore per loro. Questo in Belgio non c’e… almeno non l’ho provato. Forse perché gli emigranti italiani in Belgio hanno numerosi contatti con l’Italia. Qui invece, anche se ritornano di tanto in tanto, il loro mondo è ormai qui.
La maggioranza di questi italiani viene dai paesi più piccoli, e dunque, ha mantenuto quella semplicità dell’origine. Mi riferisco ovviamente a quelli di una certa età. Anche la loro idea del prete, ma questo l’avrai constatato anche tu, è quella che hanno lasciato nei loro paesi, in Italia, del loro vecchio parroco. C’è un atteggiamento singolare di manifestazione verso il prete, anche concretamente, con un aiuto materiale, gli si è vicini, lui è come uno della famiglia.
Quindi mi sono trovato benissimo. E gli emigrati, in un certo senso, mi hanno aiutato nella mia grande difficoltà a vivere nel mondo anglosassone, dovendo parlare in una lingua con la quale facevo fatica ad esprimermi e ad essere capito.
Ma, soprattutto, mi hanno aiutato a vivere e ad orientare quell’inevitabile sofferenza di un… analfabeta, di uno che non conosce la lingua. Con la loro sofferenza così antica ed ancora tanto viva nella loro memoria attuale - una sofferenza che è stata centomila volte peggiore della mia - io ho trovato una motivazione, una possibilità d’offerta e mi sono sentito aiutato da un sentimento tanto grande di accompagnamento della comunità italiana nei miei riguardi.
Quando sono arrivato la prima volta ad Adelaide, il vicario Generale, Mons. David Cappo, in sintonia con don Locatelli, ha pensato e proposto un progetto, a partire dalla parrocchia di Hectorville, per un lavoro di contatto, non con la prima e seconda, ma con la terza e quarta generazione di oriundi italiani.
Forse questo progetto ha peccato, fin dal suo inizio, di un eccesso di idealismo da una parte, e di pressappochismo dall’altra. Inoltre, non teneva conto della mia difficoltà nell’apprendimento della lingua inglese, quale veicolo necessario per contattare le persone, di origine italiana, ormai senza più dimestichezza con l’italiano e quindi più propense a parlare inglese. L’identità di queste persone è, direi, un “frammezzo” tra Italia e Australia. Dunque rischiano di non identificarsi più con l’italianità e di vivere con sofferenza il rapporto con l’australianità. Così, questo progetto alla fine si è rivelato poco realistico perché la Chiesa locale avvertiva in modo vago questo bisogno e soffriva la difficoltà di attivare le strategie necessarie affinché dal piano teorico si potesse veramente passare a quello pratico.
Platone diceva che non si era mai pentito di contemplare l’ideale; ma io aggiungerei che l’ideale va anche voluto, perseguito e concretizzato. Occorrono delle scelte politiche precise e delle strategie adeguate e non si deve avere paura di cambiare lo status quo. Per quel che ho capito io, l’indole anglosassone non ha quell’elemento comunitario, anche di socialità che noi italiani abbiamo, anche senza accorgercene… quell’elemento, direi, di cattolicità… Il mondo anglosassone è molto più individualistico.
Se si può paragonare la tua esperienza in Belgio e in Australia, quali osservazioni puoi offrire in riferimento al ruolo dei diversi attori coinvolti nella cura pastorale degli emigranti?
In rapporto alla Chiesa locale, in Belgio ho avuto dei rapporti molto forti, anche conflittuali, soprattutto all’inizio. Questo era dovuto alla mia cattiva abitudine di portare stabilmente, tranne quando vado a letto, il collarino romano e allora ero visto sin dall’inizio come un “romano”, in poche parole. Ma io non mi facevo tanti complessi. Sapevo che questo faceva parte dell’anticlericalismo clericale. Alla gente queste cose non interessavano, non si adombrava per questi problemi. Ho trovato, però, tutto sommato, anche nel conflitto, una disponibilità al dialogo. Anzi, ho messo subito le carte in tavola, e questo ha aperto, paradossalmente, un corridoio al dialogo. Per cui, io direi che il mondo belga è aperto al dialogo, quello anglosassone, invece, meno. Ognuno vive a casa propria, manca, generalmente, la disponibilità a mettersi in discussione, a dialogare… regnano l’indifferenza e le porte chiuse. Non c’è molta curiosità di conoscere l’ altro, di mettersi intorno ad un tavolo per dialogare.
C’è sempre bisogno di un “team”; c’è sempre bisogno di super specializzazione, vere o presunte; c’è sempre bisogno di iper-competenti. Per esempio, se si parla del futuro della Chiesa, mica si ascoltano gli umili operai che lavorano nella vigna del Signore, ma bisogna fare un progetto, sinceramente molto teorico ed astratto, con persone pagate profumatamente. La fase preliminare dello status quaestionis di tomistica memoria non rientra come fase precedente ed obbligata.
Dove si coltiva una sensibilità italiana, per esempio dai Cappuccini o dagli Scalabriniani, è possibile un nostro discorso, un nostro stile, più aperto alla condivisione. Con le autorità ed uffici della Chiesa locale questo non l’ho molto sperimentato. Direi una menzogna se dicessi il contrario. Se dovessi servirmi di un’immagine filosofica per descrivere la struttura mentale del mondo anglosassone che ho conosciuto, penserei alla “monade” di Spinosa, senza né porte, né finestre… Purtroppo è stato così, anche se sicuramente le mie ali sono state tarpate dal fattore lingua. Ma è proprio quando si misura la propria povertà e il proprio profondo limite che ci si attacca maggiormente all’essenziale.
Per te questo “essenziale” dove risiede e in che consiste?
Io adesso ho usato il termine “essenziale”, tecnicamente. Faccio un esempio per meglio essere compreso. Mi riferisco alle famose Chiese del silenzio, nei Paesi dell’Est. Tutti avremmo voluto fare catechismo, offrire le ragioni profonde della nostra fede, prendere delle iniziative. Quando in Russia, ad esempio, si poteva solo celebrare la Santa Messa, per gli Ortodossi quello diventava l’essenziale. Non è l’essenziale perché lo hai scelto tu, ma diventa l’essenziale perché è così e non puoi, nella situazione in cui ti trovi, fare in modo diverso.
Così anche nella mia esperienza, non potevo fare di più perché ero legato al fattore lingua. In Belgio con la cura animarum un prete ha un ruolo ed un campo di lavoro ben preciso. Ha una base giuridica ben garantita. In Australia, invece, essendo prete assistente, il rischio era quello di essere solo un celebratore di Messe, un mago dei sacramenti, perché la pastorale era veramente ridotta al minimo e comunque non dipendeva da te. è difficile per la nostra mentalità italiana e la nostra tradizione pastorale di Chiesa capire questo, ma le cose stanno veramente così.
Bisogna allora stare attenti quando si fanno le nomine perché le nomine dei missionari, destinati a Chiese locali non siano troppo “aeree”. E la Migrantes deve stare attenta affinché al missionario venga garantita una base giuridica per lavorare con la Chiesa.
Esiste una documentazione abbastanza ampia della Chiesa australiana che di fronte alle diversità che i vari gruppi di emigranti portano nel suo interno ha mantenuto, e tuttora mantiene, un atteggiamento piuttosto freddo e distante. Ora, comunque, tu vai in Svizzera, e si apre un nuovo capitolo per te. Questo nuovo impegno futuro cosa rappresenta?
Io ho messo innanzitutto come condizione basilare la volontà di andare in un posto in cui ci sia del lavoro pastorale e non solo dove si debbano celebrare delle Messe. La Santa Messa è l’essenziale nella vita di ogni prete e nella vita di ogni credente ed io sono aggrappato a questo essenziale con tutte le mie forze, però non voglio ridurmi a dire solo Messa.
Per me è stata una sofferenza tremenda, spirituale e morale, sentirmi ridotto al ruolo di “mago dei sacramenti”. Infatti, con la forte diminuzione del numero dei sacerdoti invece di ripensare e pianificare diversamente la pastorale si è abbracciata una visione “magica” del prete. Non più il prete come buon pastore, che è anche capo e servo della comunità, ma una specie di jolly, che va solo a coprire servizi religiosi. Una specie di grillo delle messe. Questa visione è pericolosissima e, tra l’altro, tradisce la spiritualità e la teologia del prete cattolico.
Al termine del tuo triennio ad Adelaide, quali sentimenti si agitano nella tua mente e quali “lezioni” puoi trarre dalla tua permanenza ad Adelaide?
Quello che mi resta dell’esperienza australiana è di aver imparato un po’ d’inglese, e alla gente poi, qualcosa ho dato, e il mio feedback dice che la gente si sia sentita compresa. Non è solo una mia idea, la gente me lo esprime, specialmente nei momenti prima della mia partenza, sia italiani che anglosassoni. Qualcuno ha commentato positivamente le mie celebrazioni, anche se a me sembravano normalissime.
Non ho mai fatto miracoli, non ho le piaghe, non volo come San Giuseppe da Copertino… A volte l’essenziale del prete - ciò che non sempre consideriamo - comunica molto di più di quello che pensiamo.
In vista del tuo futuro impegno nella Confederazione Elvetica, quali desideri nutri e quali traguardi speri di raggiungere?
Io vado volentieri in Svizzera. Mi sembra una comunità molto vivace quella di Losanna, dove i sacerdoti, sia gli scalabriniani come i diocesani, hanno lavorato molto bene. Io nutro il desiderio di portare avanti questa integrazione tra fede ed umanità.
Anche i diversi studi, che ho sempre coltivato in questi miei 24 anni di sacerdozio, li ho sempre considerati fortemente legati alla mia vita ed esperienza concreta di prete. Sono sempre stato contrario alle formule astratte, agli intellettualoidi, alle persone che usano dei linguaggi strani… Chiaramente, a livello accademico a volte è necessario utilizzare un linguaggio specifico e specialistico, però con le persone, il segreto della vita per noi preti, ma anche per il medico che spiega al malato i suoi malanni, è di comunicare nel modo più semplice possibile, con il più grande affetto possibile, le cose più difficili. Non è un compito per nulla facile, ma il nostro lavoro sta tutto lì. Negli studi di filosofia e di teologia mi sono lasciato guidare da una sola intenzione: non rompermi la testa, non complicarmi la vita, ma andare all’essenziale e diventare il più semplice possibile.
Per finire penso che quando la Migrantes organizza un nuovo progetto pastorale all’estero non debba sentire solo la Chiesa locale, ma debba ascoltare anche i missionari che lavorano ed hanno lavorato per anni, sul territorio. è molto importante che ci siano queste due orecchie, questa duplice attenzione e sensibilità alla Chiesa locale e ai missionari che lavorano già da tempo sul posto.