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Le “nuove famiglie” dei marittimi(G.Martino)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/10


Mentre il marittimo è da sempre stato l’uomo che ha vissuto e, per certi aspetti, ha portato gli effetti della globalizzazione in giro per il mondo rimane anche quello maggiormente colpito dal cambiamento dello stile di vita familiare. Sino a pochi anni fa erano solo gli uomini che partivano per portare a casa il pane alle famiglie che rimanevano “abbandonate” tanto che spesso le mogli dei marittimi venivano chiamate le “vedove bianche”. I figli crescevano sotto la guida e l’educazione della madre che portava, spesso, il padre come l’esempio di colui che si sacrificava per dare loro una vita migliore.
Crisi dei rapporti familiari tradizionali
Da un’indagine sul mondo marittimo si rileva che queste persone a causa dell’assenza prolungata siano sempre più in difficoltà nel formare una famiglia e che comunque abbiano problemi per il reinserimento a terra.
I marittimi non sono capaci di partecipazione sociale neppure con una semplice iscrizione ad un’associazione e, nel tempo perdono la pratica religiosa fatta a “singhiozzo”.
L’ambiente di bordo non è una vera comunità che accoglie ma principalmente uno spazio lavorativo in cui le relazioni che si intrecciano sono professionali o di amicizia superficiale nella consapevolezza che non potranno mai avere radici profonde proprio a causa della continua mobilità.
La mancanza di un “luogo”, di un ambito in cui esprimere quotidianamente i propri sentimenti distorce la stessa affettività con effetti di chiusura, col cercare un’autosufficienza di autodifesa rispetto al mondo, di diffidenza, ma anche di estrema ingenuità, anche nei rapporti con quanti incontrano nei vari porti del mondo.
I marittimi relegati in porto ai margini delle nostre città non si presentano a quanti li accolgono neppure come un vero “problema migratorio” in quanto non hanno fisicamente il tempo di “dare fastidio”, di farsi sentire nelle loro necessità, nelle loro urgenze.
Essi sono:
- fratelli che vivono in prima persona il dramma della migrazione in ogni porto che toccano;
- fratelli ovunque stranieri nel perenne peregrinare lontano dalle famiglie, dagli affetti più cari, dalla vita sociale ed anche dalle proprie comunità ecclesiali;
- fratelli, ultimi fra gli ultimi, sparsi sulle acque del globo senza potersi incontrare mai per gridare la propria sete di giustizia per un trattamento più equo e dignitoso;
- fratelli imbarcati ed a volte sfruttati in un gioco di bandiere “ombra” di paesi senza leggi sul lavoro e sulla sicurezza della navigazione;
- fratelli spesso dimenticati anche da una Chiesa solitamente viva ed attenta alle molteplici realtà sociali che la circondano ma che rivela un deprecabile oblio per quanti si muovono sugli altri due terzi della superficie terrestre costituiti dal mare.
Mentre l’evoluzione del ruolo della donna, almeno nei paesi occidentali, ha portato il mondo femminile sulle navi, il mondo di bordo difficilmente si è adattato alle nuove necessità delle famiglie lasciate a terra.
Ai marittimi è, comunque, richiesto un periodo d’imbarco che dura lunghi mesi. Questo significa una forzata lontananza dalla famiglia ma soprattutto una lontananza reiterata e difficilmente raggiungibile: reiterata in quanto non si tratta di una esperienza limitata nel tempo ma di una vera e propria professione che coinvolge tutta la vita e che alterna lunghi imbarchi a rarefatti periodi a terra impedendo, ancora oggi, una continuità di presenza fisica, psicologica e affettiva all’interno delle famiglie; difficile da raggiungere perché il marinaio è sempre in movimento e in movimento sugli oceani. Senza un punto di riferimento per la sua vita anch’egli non può esserlo per quanti lo amano e che possono comunicare con lui solo quando si trova nei porti e neppure sempre.
Nuove situazioni
Le donne a bordo, in special modo estremamente numerose sulle navi da passeggeri nel settore dell’accoglienza, sono mediamente molto giovani e spesso sono anche madri di famiglia. Se possibile, questo distacco, è ancora più grande di prima quando solo gli uomini navigavano. Ora si affida la prole alle “famiglie allargate” dei nonni o degli zii per i lunghi periodi dell’imbarco.
A terra ci sono i telefoni, c’è internet, ci sono i social network ma anche la televisione e i giornali. A bordo, sulle navi da carico specialmente, mancano tutti questi “luoghi virtuali” d’incontro e confronto.
Lo stesso stile di vita, a terra, ha modificato la cultura familiare e il modo di vivere questo ambiente primario per la crescita e l’educazione dei figli, ma anche per la maturazione del rapporto di coppia. Sposare un marittimo, qualche anno fa, rappresentava una certa speranza di agiatezza economica e i membri della famiglia accettavano più facilmente il sacrificio del padre crescendo un po’ orfani e un po’ vedove, ma accettando questa assenza come un ineluttabile male minore.
Oggi le fidanzate e le mogli non accettano di ritrovarsi sole a gestire il fardello di una famiglia. L’agiatezza economica non è un “prezzo sufficiente” a far vivere una famiglia “monca” di un componente importante come il padre e, ancor peggio, come la madre. Insomma maggiormente crescono le altre opportunità di agiatezza economica e sempre meno si accetta una vita tanto piena di privazioni.
Non tutti, però, possono facilmente operare questa scelta. Molte famiglie devono fare a meno del padre o della madre o di entrambi. Si deve, pertanto, provare a ripensare un “rapporto nuovo” per crescere insieme, oltre alle distanze, in un’affettività familiare, in un disegno unico da sempre pensato e amato.
Alla ricerca di un riferimento sicuro
Bisogna trovare, quindi, un luogo, un ambito, una base solida sulla quale poter dare sfogo ai bisogni interiori ed accogliere relazioni e sentimenti altrui. Bisogna trovare un modello capace di dare continuità alla propria storia nell’interpretazione del presente perché le affettività di chi si muove non dimentichino quelli da cui è partito e si concretizzino con quelli che lo accolgono.
Questo ambito o “luogo” dell’esercizio della propria affettività, in particolare per il cristiano, può essere una persona a sua volta capace di immutabilità e di itineranza, segno di profonde radici ma sempre in cammino, profondamente innamorato dell’umanità ma insieme capace di trascendere gli aspetti spaziali e temporali per essere: “sempre con noi fino alla fine del mondo”.
Dio ci ha creati uomini e donne. Non isolati, ma in relazione reciproca o sponsale, rispettando l’uguaglianza delle persone e la differenza dei sessi, senza nessun tipo di subordinazione o livellamento. Egli stesso, Dio, ci dice inoltre che l’uguaglianza delle persone e le differenze sessuali tra l’uomo e la donna, rimandano al mistero della Trinità. Nella Trinità, si dà la sostanziale differenza al cuore di una identità assoluta. Siamo stati creati a immagine di questo unico Dio Trinitario.
Gesù, è il vero luogo di incontro in cui il tempo e lo spazio si concentrano permettendo il perfetto esercizio dell’affettività di cuori lontani, di amori rinviati, di comunicazioni complicate e distanze incolmabili diversamente. Modello di chi vive la caducità dell’itineranza ma anche pedagogo e “luogo-ambito” per l’esercizio di un’affettività che superi i limiti di lingua, cultura, spazio e tempo.
Gli avvenimenti sin dalla sua infanzia sono connotati dalla mancanza fisica di radici perché “non vi era posto per loro” (“Le volpi hanno tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”, Lc 9,58).
L’itineranza può guardare con fiducia il cammino messianico del Verbo che era, stava, risiedeva presso il Padre il quale esercita la propria affettività inviando il Figlio: “E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità” (Gv 1,14). Maria, appena accoglie Gesù parte in viaggio per aiutare Elisabetta. Il Vangelo ci mostra l’esercizio perfetto dell’affettività a cominciare dalla sacra famiglia nella grotta di Betlemme.
I suoi discepoli “mollate le reti” lo seguono e in questo cammino Gesù li precede sempre, perchè è il cammino del Figlio diletto che compie incondizionatamente la volontà del Padre ed è il cammino del Discepolo attento e docile alla Sapienza e alla Parola.
L’itineranza diventa, per Gesù, il luogo per eccellenza per l’esercizio della sua affettività. Nel girare da città in città sente l’urgenza di “arrivare a tutti”. La condizione dell’itineranza ha un fondamento teologico-biblico. Si tratta di conoscere con obiettività il fenomeno, così come si presenta nella sua imponenza, e trovare quelle soluzioni pastorali che aprano ad una nuova cultura della carità. La risposta non è solo filantropica e nemmeno un’accoglienza dello straniero dal punto strettamente materiale, ma nel modo come vivere la nuova dimensione proclamata nella Pentecoste: riconoscerci tutti fratelli nell’unico Spirito anche se appartenenti a culture diverse. La Pentecoste diventa così un ritorno all’ordine spezzato, ricomposto nell’unico Dio e Signore della storia.
Nella Chiesa nessuno è straniero e la Chiesa non è straniera a nessun uomo e in nessun luogo perché sacramento d’unità. La Chiesa è il luogo in cui anche i 5 milioni di transiti di marittimi nei porti italiani, marittimi per lo più invisibili ai molti, sono riconosciuti ed accolti come fratelli. E compito delle diverse diocesi mobilitarsi perché queste persone, costrette a vivere fuori della rete di protezione della società civile, trovino un senso di fraternità nella comunità cristiana.