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Famiglie nella mobilitŕ (D.Licata)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/10


Premessa
Uno dei più accesi dibattiti attualmente in corso vede come protagonista il concetto di famiglia. Sicuramente la cellula originaria della società, la famiglia, è stata per lungo tempo un cardine della cultura italiana, salvo poi modificare le sue caratteristiche in relazione al cambiamento dei tempi storici e dei costumi della società italiana. Appare evidente da una serie di fenomeni sociali più che noti come il calo demografico, il ritardo nei matrimoni, l’aumento di nascite fuori del matrimonio, le convivenze, i divorzi, le separazioni, le coppie senza figli, ecc.
La Costituzione italiana riconosce, all’art. 29, la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, “ordinata sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.
Ciononostante, il dibattito si è poi ampliato e parla delle unioni di fatto e delle conseguenti famiglie di fatto, ovvero di quelle unioni che vengono sancite dalla consuetudine e non da un riconoscimento di diritto o religioso. A queste vanno aggiunte le famiglie unipersonali o monopersonali, composte da una sola persona (single o vedovi), e le famiglie ricostituite che si formano dall’unione di partners in cui almeno uno proviene da un precedente matrimonio.
Nelle nuove forme familiari il primo elemento che salta agli occhi è la complessificazione delle relazioni interpersonali, legate ai continui allontanamenti da casa di uno dei genitori per la visita dell’altro oppure dalla rotazione dei figli in case diverse per cui, a seconda del calendario stabilito dal giudice, intorno al tavolo per la cena siedono un numero sempre diverso di persone.
Famiglia e Chiesa
La famiglia è, per i cattolici, la comunità primaria nella quale si impara ad amare e adorare Dio e nella quale vengono trasmessi valori umani e morali.
Nella seconda lettera a Timoteo (1,1-5), “Paolo, apostolo di Cristo ringrazia Dio, che lui serve con coscienza pura come i suoi antenati, ricordandosi sempre di Timoteo nelle sue preghiere notte e giorno” «mi tornano alla mente le tue lacrime e sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia. Mi ricordo infatti della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te».
Il passo ci riporta alla grande importanza della discendenza della famiglia la quale, se vive in Dio, vive nella sua grazia. Di questa grazia è segno anche il ricordo degli “antenati”, persone che con la loro fede e il loro amore hanno generato le generazioni successive alla vita e alla fede; quel che abbiamo e siamo di buono lo dobbiamo ad un amore che ci ha preceduti e quel che resta a noi generazioni successive e dell’oggi consiste nel proseguire sull’onda di questo amore con il “ricordo” continuo e vicendevole nella preghiera.
Nella Lettera agli anziani Giovanni Paolo II, commentando il quarto comandamento scrive che «onorare il padre e la madre è un dovere universalmente riconosciuto e dalla sua piena e coerente applicazione non è scaturito soltanto l’amore per i genitori da parte dei figli, ma è stato anche evidenziato il forte legame che esiste fra le generazioni. Dove il precetto viene accolto e fedelmente osservato, gli anziani sanno di non correre il pericolo di essere considerati un peso inutile e ingombrante».
Ancora più importante si fa quindi il ruolo dell’anziano nelle famiglie moderne e ancora di più nella famiglia dei migranti.
La Sacra Famiglia è il primo esempio di nucleo familiare spinto ad emigrare per necessità. Gesù nasce da una famiglia forzatamente in movimento e che, fuori della propria patria, giunta a Gerusalemme non viene accettata ed è costretta a trovare riparo in una stalla. Subito dopo la sua nascita, Gesù insieme ai suoi genitori fugge precipitosamente verso l’Egitto per poi rientrare come clandestino in Giudea. L’emigrazione forzata ha, però, origini molto più remote: il libro di Rut, infatti, ci racconta di una stirpe in movimento, da cui ha origine David e da cui discende Gesù di Nazareth, oggi universalmente riconosciuto nel migrante, in chi cioè, uomo o donna, di ogni età ed estrazione sociale, fugge dal proprio paese e si rifugia, emigra, si sposta in un’altra parte del mondo.
«La famiglia di Nazareth in esilio, - scriveva Pio XII nel 1952 (Exsul Familia, incipit) - Gesù, Maria e Giuseppe emigrati in Egitto e ivi rifugiati per sottrarsi alle ire di un empio re, sono il modello, l’esempio e il sostegno di tutti gli emigranti», concetto ribadito da papa Benedetto XVI nel Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante del 2007. Il legame con il mondo dell’emigrazione ritorna in Mt 25, 34-35 quando Gesù parlando del giudizio finale dice ai suoi discepoli: «Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato (…)».
La famiglia italiana e l’emigrazione
L’emigrazione è sicuramente, all’inizio, un fenomeno individuale salvo poi trasformarsi in progetto comunitario, familiare. La storia degli italiani è, in questo senso, emblematica.
Oggi si contano fino a quattro generazioni d’emigrazione per quel che riguarda gli emigrati italiani all’estero. Non ci sono dati certi che ci dicono quante siano le famiglie di emigrati italiani residenti all’estero. Il dato è sempre più difficile da rintracciare anche in considerazione degli anni sempre più lontani in cui ha avuto inizio l’emigrazione. Molti dei componenti di queste famiglie, infatti, hanno ormai doppia cittadinanza e parlano normalmente la lingua del posto di residenza e, grazie alla convivenza con i nonni in casa, il dialetto della regione di origine.
Alcune indagini, che sono state condotte nel Rapporto Migrantes Italiani nel Mondo dal 2006 al 2009 in varie città che hanno accolto la nostra emigrazione, indicano che la prospettiva più ricorrente è quella di un insediamento definitivo nel paese in cui si è andati a risiedere, tutto sommato con una soddisfacente situazione economica.
La coppia, né troppo giovane né troppo anziana, è la realtà familiare chiamata alla testimonianza più significativa. Nel contesto attuale, nel quale sempre più si parla della mediazione culturale, la coppia deve farsi carico di questa funzione:
- assicurare continuità ai valori del passato: questo è un compito immenso e difficile e finora svolto in maniera insufficiente, come ad esempio attesta la scarsa disponibilità al volontariato come gratuità, cioè di chi sa essere vicino all’altro anche quando questo non è a rigore dovuto;
- testimoniare la validità dell’amore coniugale come realtà completa, fisica e spirituale: questa testimonianza diventa sempre più necessaria rispetto alle impostazioni “usa e getta” che si vanno affermando anche nei rapporti tra le persone;
- promuovere l’impostazione di una “famiglia aperta”, che sappia farsi carico delle esigenze interne senza chiudersi alle esigenze altrui.
In tutti questi aspetti è sempre implicato anche il fatto di essere italiano, di aver vissuto in certi contesti, di aver fatto certe esperienze culturali e religiose. All’interno di questo bagaglio, bisogna individuare quanto si ritiene più valido e metterlo a disposizione, con semplicità e con convinzione, del paese dove si vive.
Anziani, giovani, coppie: situazioni differenti e compiti differenti, ma accomunati dallo stesso impegno di dare un significato pieno alla propria esperienza migratoria e al fatto di essere italiani. Le considerazioni svolte sottolineano che da parte dei singoli deve esserci la di-sponibilità a un grande sforzo di rinnovamento, così come lo deve essere da parte dei missionari e degli altri operatori pastorali. Solo così troverà concreta validazione la tesi che il fatto di essere italiani e credenti in emigrazione costituisce un’opportunità di testimonianza privilegiata e non di emarginazione.
La famiglia immigrata in Italia
La famiglia in emigrazione è soggetta a mutamenti importanti in quanto cambiano i ruoli dei componenti in seguito alla emigrazione, ma anche a causa della trasformazione che interessa i sistemi sociali dei paesi di origine e dei paesi occidentali di accoglienza.
Nella famiglia immigrata si modificano i modelli di coniugalità e di coppia; il processo migratorio mina la sopravvivenza della famiglia allargata, determinando nuove forme, nuove dinamiche, nuove pratiche familiari.
Le famiglie tradizionali si affiancano a quelle interetniche o a quelle composte da conviventi, persone unite da un legame affettivo non codificato da un contratto matrimoniale, persone che vivono sotto lo stesso tetto spinte da motivi economici o di solidarietà.
La famiglia migrante e i suoi membri sono sottoposti all’oscillazione fra il qui e il là della società cosiddetta di accoglienza e della società di origine.
La famiglia immigrata si situa tra una famiglia che ha paura di perdere le proprie radici oppure, in una dinamica opposta, in un processo di acculturazione forzata, in un nucleo familiare che recide le proprie radici in modo violento con conseguenze nel tempo spesso dirompenti.
La presenza del nucleo familiare costringe e determina, specialmente in presenza di bambini, la rottura dell’isolamento a cui spesso è costretto lo straniero e ad utilizzare le risorse del territorio in modo differenziato da parte dei diversi membri del nucleo.
Proprio i minori possono essere considerati la realtà di raccordo tra la società di origine e la società di accoglienza.
Contestualmente però essi sono la pedina più debole del processo di integrazione in quanto vivono sulla propria pelle la spaccatura tra due culture (usi e costumi italiani versus famiglia di origine).
La difficoltà può essere affrontata in due modi:
- chi ha la possibilità di frequentare le istituzioni di socializzazione, come la scuola e il gruppo dei pari, percorre un processo lineare di integrazione che si riflette sugli altri membri della famiglia, creando un percorso di inserimento per l’intero nucleo. In tal caso quella che è la pedina più debole del processo di integrazione diviene pedina forte e di traino per tutta la famiglia. (ruolo di mediatore linguistico e risolutore di problemi quotidiani);
- chi non ha la possibilità di frequentare le istituzioni di socializzazione è destinato a non inserirsi ma ad aggravare il suo status di straniero al contesto di accoglienza.
In altri termini, la composizione della famiglia immigrata avviene attraverso il delicato e difficile processo del ricongiungimento familiare (51,5% secondo gli ultimi dati all’inizio del 2009 inclusi gli infraquattordicenni iscritti sul permesso di soggiorno dei genitori). Se, infatti, nella maggioranza dei casi la riunificazione della famiglia è un valore aggiunto in termini di benessere individuale e collettivo in quanto rappresenta la chiusura della dura fase del distacco e della separazione, esistono casi in cui il ricongiungimento diventa controproducente, generando spaccature all’interno della famiglia stessa. Basti pensare a figli e coniugi che arrivano controvoglia, il cui status si capovolge da parente del ricco emigrato a parente del povero immigrato, mariti ricongiunti il cui ruolo di capo famiglia viene messo in crisi da una moglie immigrata precedentemente e che ha sviluppato maggiori contatti con la società ospitante nonché una più alta capacità di guadagno.
La famiglia tra i marittimi
Spesso si dimentica che l’Italia appartiene al mare nel bene e nel male. Gli oltre 8 mila chilometri di costa ci parlano della sua lunga storia e tradizione marinaresca. Il Belpaese ha tanto ricevuto dal mare ma allo stesso tempo ha tanto dato in termini di lavoro, sacrifici e vite.
Non tutti sanno che più dell’80% delle merci di uso quotidiano vengono trasportate via mare, così come molti ignorano che il popolo del mare conta oltre 2 milioni di lavoratori senza considerare i pescatori.
Una nave è un microcosmo che vive di regole a sé. E come una vita parallela in cui il popolo che la anima trascorre il tempo con un altro ruolo rispetto a quella recitata quando si sta con le proprie famiglie sulla terraferma.
Le condizioni lavorative variano sostanzialmente in base alla nazionalità della nave, dell’armatore e del marittimo stesso e si passa da condizioni illegali per situazione socio-sanitaria e orario di lavoro massacranti, la cui durata non è giornaliera ma mensile se non annuale, a situazioni di benessere pieno. La sosta al porto è spesso l’unico momento in cui “il popolo del mare” può incontrare altre persone che non siano aderenti alla “famiglia nave” in cui si lavora. Una condizione davvero precaria e problematica alla quale si uniscono le difficoltà della famiglia, che resta ad attendere questi lavoratori. In Italia sono oltre 40mila i nuclei domestici che vengono letteralmente travolti dalle insostenibili assenze di uno o più dei propri cari per lunghi mesi.
Le difficoltà di una famiglia che ha al suo interno un operatore del mare sono diverse. La donna, moglie e madre, ad esempio, si ritrova a dover sostituire costantemente la figura paterna assolvendo a sé il duplice ruolo di madre e padre e di donna e uomo nei confronti dei figli e della società.
A ciò si unisce la superficialità del rapporto di coppia e la scarsa conoscenza che marito e moglie hanno di sé. I figli crescono senza figura paterna e questo li disorienta, soprattutto se la madre, durante gli anni, a causa dell’impegno stressante perde l’entusiasmo di tenere vivo il nucleo familiare e la gioia dell’attesa del ritorno del marito-padre.
«La Chiesa - scrive don Giacomo Martino (Servizio Migranti, 2006/5) - opera di fronte a questa realtà in più di 200 città attraverso i Centri di Accoglienza della “Stella Maris” in cui sacerdoti e volontari dell’Apostolato del Mare tentano iniziative di accoglienza nelle poche ore di sosta delle navi. Sono iniziative lodevoli e spesso ragione anche di sopravvivenza per alcuni presi ormai dallo sconforto o che si sentono abbandonati dai propri cari o comunque impossibilitati a condividere ogni cosa con loro come desidererebbero. La famiglia rimane, comunque, fatalmente separata, ferita nella sua essenza più profonda, ineluttabilmente segnata nel suo stesso fondamento. Manca il tempo e manca il luogo dell’esercizio degli affetti più profondi e, alla lunga, si insinua, da entrambe le parti, per il marittimo e per la sua famiglia, la rassegnazione. La Chiesa, la comunità cristiana di provenienza, da una parte e del porto di accoglienza, dall’altra, devono essere maggiormente capaci di operare con rinnovata sinergia per diventare entrambe il prolungamento dei tempi e del luogo dell’esperienza dell’affettività familiare».
La famiglia tra i Rom e i Sinti1
La popolazione romanì è costituita da circa 12 milioni di individui, distribuiti nei 5 continenti (8 milioni circa in Europa e circa 120 mila in Italia di cui l’80% di antico insediamento e con cittadinanza italiana). La popolazione romanì è una popolazione indo-ariana costituita da cinque grandi gruppi: Rom, Sinti, Manouches, Romanichals e Kalé.
In Italia ci sono diverse comunità così suddivise:
- circa 45.000 Rom di antico insediamento nelle regioni del centro sud con cittadinanza italiana (arrivo dai Balcani tra la fine del 1300 e l’inizio del 1400);
- circa 35.000 Sinti di antico insediamento (cittadini italiani) insediati nel nord Italia;
- circa 70.000 Rom stranieri di recente immigrazione, provenienti dalla Romania (a partire dagli anni ’90) e dai territori della ex Jugoslavia (a partire dagli anni ’60).
Un totale complessivo di circa 150.000 individui.
Ciascun gruppo è costituito da numerosi sotto-gruppi o comunità romanès con caratteristiche etiche, economiche, linguistiche e socio-culturali particolari che li rende differenti nettamente dalle altre comunità. E un errore presentare o considerare i Rom e i Sinti come due popoli diversi, mentre sono due comunità della stessa popolazione, in pratica come dire milanese o napoletano, sottointentendo “italiano”.
Il cardine della struttura sociale dei Rom è la famiglia patriarcale, dove il vecchio, considerato saggio, ne è rappresentante riconosciuto. La famiglia patriarcale o famìljë, che non si esaurisce nel semplice nucleo coniugale, si estende a tutti i consanguinei discendenti da un antenato comune. Appartenere ad una famìljë significa riconoscersi in un complesso di valori etici vincolanti e vivere la propria esistenza nel rispetto di essi. L’appartenenza è profondamente sentita e questo determina la volontaria esclusione da altre famìljë e da altre comunità che sono regolate da norme morali diverse. La famìljë è la sola realtà stabile al cui interno si sviluppano legami profondi che uniscono l’individuo al gruppo. Quello che assicura l’esistenza di una persona è l’attribuzione di una identità sociale riconosciuta da tutti, identità segnata dal nome che gli viene dato e dalla famiglia a cui appartiene.
I Rom distinguono nettamente i parenti “di sangue” da quelli acquisiti. Il confine dei parenti “di sangue” è dato dai cugini bilaterali di primo grado a cui ci si rivolge in caso di necessità e a cui si confidano i segreti di famiglia. Ai parenti acquisiti si deve rispetto e considerazione, ma a loro si chiede aiuto solo dopo averlo chiesto a quelli “di sangue”. Punto di forza è la solidarietà, che si manifesta nella protezione morale, nel sostegno psicologico e nell’aiuto finanziario e fisico di un individuo che vive così nella sicurezza di una piena integrazione in seno al suo gruppo familiare.
La famìljë si basa soprattutto sulla condivisione che assicura un accesso alle risorse economiche che non dipende dal grado di prestigio. Le risorse economiche, il cibo, il vestiario e quant’altro vengono divisi tra tutti i membri della famìljë e passano frequentemente da un individuo all’altro.
La sicurezza del gruppo contribuisce a quella individuale e viceversa. Tutto questo rafforza la coesione dell’intero gruppo parentale: il bambino viene accudito, il malato assistito e curato, il vecchio ascoltato, i genitori rispettati. Ogni cosa gravita attorno alla coesione familiare che catalizza la vita e l’identità di un individuo dal punto di vista sociale, economico, educativo, etico, linguistico e culturale. La coesione e la sicurezza psicologica, sottolineate dall’osservanza della tradizione e dallo specifico status sessuale, pongono i membri della famiglia solidali e compatti nei confronti di altre famìljë, così che i conflitti e i rapporti sociali sono vissuti, non individualmente, ma collettivamente. Questo rafforza, ancora una volta, la sicurezza personale e l’autostima. Un errore o un atto onorevole è sempre percepito da un punto di vista familiare, cioè collettivamente, poiché ogni membro rappresenta un’intera famìljë. I vincoli del gruppo sono particolarmente sentiti in caso di lutto e di grave difficoltà economica e sociale.
La famìljë è il luogo sicuro in cui rifugiarsi e in cui soddisfare i propri bisogni umani e culturali. Nella famìljë si possono riscontrare una marcata differenza ed una complementarietà sottesa fra i ruoli femminili e maschili. Si ritiene che gli uomini e le donne abbiano carattere, comportamento e compiti sociali differenti. L’uomo domina la sfera pubblica, la donna si occupa della vita domestica e il suo prestigio è in relazione alla sua attività di moglie e di madre.
Al Rom, specie se anziano (phuro), è affidato il compito di proteggere, sostenere e tutelare, come capofamiglia, l’onore ed il prestigio della famìljë verso l’esterno. All’interno delle famìljë, quindi, convivono più generazioni e il phuro (il vecchio patriarca) ne è il tutore morale.
E interessante sottolineare che il termine phuro ha qualcosa di religioso nel suo significato profondo: il termine infatti deriva dal pali Buddho (in lingua hindi BuÔÔha) col significato di “il vecchio, il saggio, l’illuminato, lo sveglio”.
La sua autorità non è coercitiva poiché non può imporre niente a nessuno, non impartisce ordini, ma si tratta di una autorità morale tenuta in grande considerazione per la sua esperienza e per la sua profonda conoscenza della legge romaní o kriss.
La famiglia nei Circhi e nei Luna Park
Analizzare il senso e il significato del concetto di famiglia oggi legato ai fieranti e ai circensi è problematico per una serie oggettiva di difficoltà legate alla tipologia di vita condotta. I continui viaggi, la distanza e gli impegni di un lavoro così sui generis impediscono un normale svolgimento delle relazioni dapprima di coppia e, in seguito, di matrimonio.
Ogni circo cambia piazza mediamente ogni settimana passando da una regione all’altra d’Italia e recandosi, molto spesso, all’estero. I gestori di spettacolo viaggiante seguono un itinerario prestabilito in base alle fiere, le sagre e le manifestazioni con un ciclo a cadenza annuale. Questa caratteristica non favorisce l’interscambio con la realtà sociale dei cosiddetti “stanziali”, rafforzando quelle caratteristiche che sono proprie di una società nomade.
Una delle problematiche maggiori è il livello scolare dei giovani figli dei gestori di spettacolo viaggiante. Questi da bambini e da ragazzi hanno frequentato la scuola dell’obbligo ma con una frammentarietà notevole, senza mai entrare nella dimensione di una classe con cui lavorare con continuità. La maggior parte dei ragazzi finisce di andare a scuola con il termine dell’obbligatorietà, a meno che non ci sia un legame con una parte di famiglia stanziale o con un parente che nel frattempo si è stabilito e che, di conseguenza, possa garantire la possibilità di una frequenza regolare. In questi casi si ha il proseguimento degli studi dalle scuole superiori fino all’università.
I giovani del circo e del lunapark, al contrario della maggior parte dei loro coetanei di oggi, finiscono coll’assumersi precocemente responsabilità all’interno famiglia. Essi vengono infatti coinvolti non solo nei compiti più semplici (quali il montaggio e lo smontaggio dei tendoni, la pulizia delle attrezzature, ecc.), ma sin dalla tenera età nei Circhi inizia per loro la preparazione fisica e ginnica che li impegna in molte ore della giornata proprio come accade con i ginnasti.
Il rapporto con la famiglia si fa forte e indissolubile perché tutte le sfere vengono a coesistere e ad essere condivise: il privato, il lavoro, il guadagno, la festa. Ciascuno col proprio ruolo è chiamato ad essere responsabile e a partecipare all’azienda familiare che si fonda sull’impegno, la bravura e il sacrificio di ciascun componente al di là dell’età.
Conclusioni
Nella recente pubblicazione di don Antonio Sciortino (La Famiglia Cristiana. Una risorsa ignorata, Mondadori, 2009) viene delineata, corredata di dati e documenti, la situazione della famiglia cristiana. L’autore si ispira a una immagine tratta dall’epica, ovvero quella di Enea che fuggendo da Troia in fiamme porta sulle spalle l’anziano padre Anchise e tiene per mano il figlio Ascanio. L’Enea del futuro, invece, avrà sulle spalle il peso di tutti e quattro i genitori anziani e non avrà alcun figlio da tenere per mano, come a dire che la società italiana sarà sempre più caratterizzata dall’invecchiamento e dal deficit demografico. Il problema non è tanto l’alto numero di anziani quanto il sempre più attuato modello del figlio unico con le nuove generazioni rivolte e attuanti la trasformazione dell’Italia da “Paese delle formiche”, in cui il valore del risparmio faceva da padrone, a “Paese delle cicale” che consumano e spendono tutto e subito vivendo sul principio del debito e dimenticando il valore della lungimiranza.
Anche la situazione della famiglia nella mobilità è, dunque, molto cambiata e i motivi sono diversi. Innanzitutto sono cambiate le condizioni in cui le famiglie si trovano a vivere. Poi sono cambiati i protagonisti ed oggi i compiti ai quali si è chiamati sono molteplici e differenti. I giovani, ad esempio, tornando al confronto con Enea, dovrebbero sostenere gli anziani economicamente e socialmente e non devono misconoscere la complessità di questo impegno dovuto al fatto che il numero degli anziani è triplicato. Dal canto loro però gli anziani potrebbero impegnarsi ad avere un ruolo attivo nel sostenere, per quanto sia loro possibile, la realizzazione di nuove famiglie in un momento storico in cui problemi di ordine economico si uniscono al cambiamento culturale in modo tale che il matrimonio e il mettere al mondo nuove creature spaventa soprattutto chi ormai, più che trentenne, si trova ancora a combattere con la difficoltà di trovare un lavoro o una casa.
In tutto questo l’immigrazione va considerata come un’opportunità e gli immigrati sono un forte aiuto per la società in cui si trovano a vivere in quanto nuove energie sicuramente portano a un approccio diverso verso i problemi.
Dall’unità dell’impegno si può arrivare ad essere portatori degli altri verso il bene che, nel caso delle nostre società sempre più interculturali e interetniche, si traduce nel bene comune che non distingue il cittadino dallo straniero, ma che piuttosto unisce nel vivere i giorni con dignità e felicità.
 
 
 
1 Per questo paragrafo le notizie sono state desunte da: http://www.pinonicotri.it/?p=483#more-483.