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Primo Rapporto EMN Italia (Redazione Idos)
Politiche migratorie, lavoratori qualificati, settore sanitario - Cnel, Roma 18 dicembre 2009

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 6/09


Il Primo Rapporto EMN Italia
La direttiva dell’Unione Europea sui lavoratori altamente qualificati, nota come “Carta blu UE” (direttiva 2009/50/ CE del Consiglio), si propone di favorirne l’accesso per rendere l’Unione maggiormente competitiva in attuazione della strategia di Lisbona.
Questa materia costituisce l’oggetto del Primo Rapporto EMN (European Migration Network) Italia, iniziativa inserita in un programma europeo che in Italia fa capo al Ministero dell’Interno con il supporto tecnico del Centro Studi e Ricerche Idos/Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes.
La prima parte del Rapporto si sofferma sulle politiche e strutture riguardanti l’immigrazione, fornendo i più recenti aggiornamenti normativi e sottolineando le possibili prospettive a livello giuridico e sociale, con particolare riferimento all’inserimento nel mondo del lavoro nelle sue varie forme.
Le altre due parti riguardano il rapporto tra mercato occupazionale e flussi qualificati e, quindi, l’apporto di medici e infermieri stranieri nel settore sanitario. Le annotazioni giuridiche, completate con i dati socio-statistici, prima fanno il punto sulla situazione riscontrata a metà degli anni ‘2000 e, quindi, forniscono l’aggiornamento al 2008. Si entra nel merito delle carenze di questo personale, del suo reclutamento, delle esperienze di formazione all’estero, della necessità delle reti formative in Italia e dei possibili sviluppi.
L’introduzione del prefetto Angelo Malandrino pone in risalto, tra le competenze del Ministero dell’Interno, l’integrazione da perseguire tanto a livello nazionale che a livello decentrato tramite i Consigli territoriali per l’immigrazione. Sussiste “l’esigenza di non confinare l’immigrato in condizioni di marginalità sociale e di precarietà economica” nella convinzione che “forme di esclusione e chiusura determinano l’insorgere di conflitti sociali” e che “l’inclusione sociale è un elemento indispensabile per la governabilità del fenomeno”. Si spiega, così, la grande importanza assunta dal Fondo europeo per l’integrazione, che fa capo allo stesso Ministero ed è stato sovvenzionato nel 2009 con più di 21 milioni di euro, tra contributi comunitari e nazionali.
Nel Rapporto, la prefazione del prefetto Mario Morcone propone una visione strategica dell’immigrazione: “E necessario offrire significati chiari e spunti sostenibili e riferirli alla realtà complessa del fenomeno migratorio quali affidabili elementi per nuove politiche di più ampie prospettive, nazionali ed europee, superando l’angusta visione dei nostri giorni…in cui i termini sicurezza ed immigrazione vengono collegati, quando invece il vero grande problema da affrontare è quello dello sviluppo e del cambiamento in atto…Vi sono anche preziose risorse che possono svolgere da subito un ruolo strategico nei processi di globalizzazione della nostra economia”.
Per Giorgio Alessandrini, responsabile dell’Organismo Nazionale di Coordinamento delle politiche di integrazione presso il CNEL, del quale il Rapporto riprende alcuni approfondimenti, “l’immigrazione, nonostante il suo carico di problemi e seppure sovente inquadrata sotto un’ottica negativa, costituisce uno strumento indispensabile di composizione tra i bisogni della società italiana e le potenzialità della forza lavoro immigrata”.
Secondo Mario Sepi, presidente del Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE), per essere paladini della società civile in Europa bisogna farsi carico anche dell’integrazione degli immigrati, evitando che diventino vittime dell’esclusione sociale, della xenofobia e delle derive razziste e attuando un collegamento tra l’economico e il sociale: “è tempo di sviluppare una politica di integrazione che non sia solo quella della ‘carta blu’, ma che inizi a pensare alla cittadinanza”.
Il “sistema Italia” e il bisogno di immigrati qualificati
La forza lavoro immigrata, circa 2 milioni di unità e in continua crescita, si propone come una dimensione strutturale del sistema produttivo italiano con un capitale formativo funzionale anche alle esigenze dei comparti più innovativi del sistema e invita a coniugare la programmazione quantitativa con gli aspetti qualitativi.
Gli immigrati, per la complessità del riconoscimento dei titoli e le carenze del sistema di formazione e riqualificazione professionale, si inseriscono attualmente ai livelli più bassi con scarse possibilità di essere valorizzati in ruoli per i quali è necessaria l’istruzione secondaria e terziaria. Secondo i dati di Unioncamere relativi alle entrate lavorative nel 2008, a fronte del 56,5% degli italiani richiesti per mansioni qualificate, per gli immigrati da assumere in provenienza dall’estero, l’incidenza è stata solo del 30,2%, peraltro in aumento rispetto al biennio precedente (22,8% nel 2006 e 23,9% del 2007).
Si tratta in larga misura di uno spreco di risorse e di una mortificazione delle persone coinvolte. Le indagini dell’Istat sulla forza lavoro immigrata nel 2008 hanno sottolineato che tra gli immigrati, il 54,1% possiede la laurea o il diploma e il 73,4% svolge una professione non qualificata, mentre tra gli italiani i valori sono, rispettivamente, il 62,3% e il 32,9%. E evidente il sottoutilizzo professionale in lavori a bassa qualificazione, per i quali è richiesta nella maggior parte dei casi capacità di forza fisica e resistenza. Le mansioni più ricorrenti sono manovale edile, bracciante agricolo, operaio nelle imprese di pulizia, collaboratore domestico, assistente familiare, portantino nei servizi sanitari. Condizioni disagiati sono attestate anche dagli orari di impiego: il 19% lavora la sera, il 12% la notte e il 15% la domenica.
Il VI Rapporto CNEL sugli indici di integrazione degli immigrati, pubblicato nel 2009, ha calcolato la diversa incidenza dei lavoratori altamente qualificati (dirigenti e impiegati) sul totale degli occupati presso le aziende: 4.905.473 tra gli italiani, pari al 37,4% degli occupati e solo 87.983 tra gli extracomunitari, pari al 7,5% (cinque volte di meno). L’analisi territoriale mostra che nel Nord e nel Centro, le regioni economicamente forti dove l’occupazione tira maggiormente, continua a essere elevato il fabbisogno anche di forza lavoro a bassa qualifica, ma non solo di essa.
Nel “Rapporto Excelsior 2008” di Unioncamere, che ha fatto il punto sulle previsioni di assunzione in Italia prima delle perturbazioni legate alla crisi economico-finanziaria mondiale, si delinea la tendenza a un crescente e diversificato inserimento a livelli di maggiore qualificazione.
Iniziano a essere significative le percentuali degli immigrati tra le nuove assunzioni di personale qualificato: il 4,1% ogni 100 assunti italiani tra i dirigenti, l’8,5% ogni 100 italiani richiesti nelle professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione (con un particolare bisogno di specialisti in scienze matematiche, fisiche, naturali ed assimilate) e il 9,9% ogni 100 italiani richiesti come impiegati. Il fabbisogno totale di manodopera qualificata straniera è superiore a diverse decine di migliaia di lavoratori, per giunta con un bagaglio di competenze già maturate o da perfezionare con la formazione, specialmente presso le grandi aziende.
Nel “Rapporto Excelsior 2009” di Unioncamere risulta pressoché dimezzato il fabbisogno di nuovi lavoratori dall’estero (89.140, pari a un sesto anziché a un quarto delle nuove assunzioni), sempre con la concentrazione del 60% nel Nord, e, comunque con una accresciuta necessità di formazione (79,5% dei casi) e maggiore richiesta di esperienza specifica (53,2% dei casi). Il fabbisogno del comparto “sanità e servizi sanitari privati”, con la previsione di massima di 12.500 unità uguaglia il settore delle costruzioni. In questo comparto l’incidenza dei lavoratori stranieri registra l’incidenza più alta (37,6% nella previsione di massima e 16,6% in quella di minima) e ciò a seguito della ben nota carenza di infermieri e di altre figure professionalizzate. Il comparto sanitario si distingue anche per il fatto che il 30% delle aziende intervistate (rispetto alla media del 24,9%) segnalano difficoltà di reperimento del personale.
L’indagine IDOS/Fondazione Ethnoland condotta per l’EMN
A supporto degli approfondimenti giuridici e socio-statistici e giuridici condotti nell’ambito dell’EMN, nei mesi di maggio-giugno 2009 un’indagine dal Centro Studi Idos e dalla Fondazione Ethnoland ha scandagliato 37 storie di immigrati che si sono affermati in diversi settori.
Sono 22 i loro Paesi di provenienza e coinvolgono tutti i continenti eccetto l’Australia: Albania, Bielorussia, Bolivia, Bosnia, Brasile, Colombia, Congo (Repubblica Democratica), Croazia, Guinea Bissau, India, Libano, Libia, Marocco, Moldova, Pakistan, Perù, Romania, Serbia, Somalia, Tanzania, Tunisia, Yemen.
Anche i 20 contesti provinciali di residenza abbracciano l’intera Penisola, dal Nord fino alle Isole: Ancona, Bari, Bologna, Bolzano, Cremona, Latina, Messina, Milano, Napoli, Potenza, Ragusa, Reggio Emilia. Roma, Torino, Trieste, Udine e Venezia.
Sono svariati gli inserimenti professionali presi in considerazione, dei quali alcuni sono abbastanza conosciuti, come nel caso degli infermieri, dei medici (che si incontrano spesso nei reparti di pronto soccorso e nei loro studi specialistici e iniziano a essere scelti anche come medici di famiglia), dei mediatori culturali e degli imprenditori. Ricorrenti sono anche i casi di lavoratori dipendenti diventati imprenditori, secondo un ritmo di crescita che neppure la recente crisi ha interrotto (187.466 nel mese di maggio 2009), talvolta con iniziative pensate per soddisfare le esigenze dei propri connazionali (traduzioni, consulenza professionale, cooperative di lavoro). Troviamo anche artigiani raffinati (di maschere artistiche con sede in Italia e una succursale in Albania, di liuti nella sede storica di Cremona per questi strumenti musicali, di mosaici di tale pregio da essere esposti nelle mostre internazionali), consulenti commerciali, coreografi, docenti ricercatori, formatori, giornalisti e autori di programmi televisivi, montatori di video, musicisti compositori o concertisti, psicologi e musicoterapeuti, responsabili di associazioni, realizzatori di progetti per sviluppo da realizzare nei Paesi di origine.
I loro percorsi verso l’affermazione imprenditoriale e la tranquillità economica si sono scontrati con numerose difficoltà. Tutti hanno dovuto fare i conti con le lungaggini burocratiche e inizialmente si sono dovuti arrangiare a svolgere un lavoro qualsiasi per sopravvivere e mettere da parte i risparmi: sono ricorrenti i casi di donne che hanno iniziato presso una famiglia (da colf, badanti o baby sitter) o un’impresa di pulizie e di uomini che si sono adattati a fare gli operai, i camerieri, i portieri e lavori simili, anche se laureati. Spesso, ancora oggi, al lavoro “formale” di livello basso si unisce uno status più elevato acquisito a livello sociale come mediatori interculturali, sindacalisti, attivisti di partito, giornalisti, scrittori, responsabili di associazione o di cooperative, esperti di progetti, consiglieri aggiunti e anche assessori comunali (se nel frattempo è stata acquisita la cittadinanza italiana).
Si sottolinea, nelle interviste raccolte da Idos e da Ethnoland, che alla difficoltà del sistema italiano di valorizzare le qualifiche si accompagnano a livello socio-giuridico il precario diritto di residenza, le differenze linguistiche, le difficoltà burocratiche per il riconoscimento dei titoli, l’esame di stato per l’accesso a determinate professioni e il divieto di accedere ai posti pubblici (superato solo con l’acquisizione della cittadinanza o con il possesso di quella comunitaria), i pregiudizi di una consistente parte della popolazione abituata a inquadrare gli stranieri come bassa manovalanza anche in considerazione delle differenze culturali e dello stesso aspetto fisico.
Questo scenario, anche se attenuato dalla riuscita personale, continua a essere caratterizzato da diverse ombre: i riconoscimenti tardivi e i premi - come ha sottolineato un intervistato - assomigliano ai salvagente che vengono gettati ai naufraghi quando questi sono arrivati sulla costa e non fanno dimenticare le difficoltà iniziali. E fondamentale, per questi nuovi cittadini, che gli episodi di razzismo non si traducano in politica, che si pervenga collettivamente a idee più chiare sugli immigrati e che migliori il “sistema paese” quanto all’inquadramento socioculturale della presenza immigrata, la quale è ben predisposta nei confronti del Paese di accoglienza: altrimenti, come qualcuno ha affermato, potendo ricominciare da capo, non si sceglierebbe più l’Italia.
Gli infermieri stranieri, un fabbisogno immediato
In Italia, gli infermieri (italiani e stranieri) iscritti all’Ipasvi (Federazione Nazionale dei Collegi Infermieri) sono risultati 354.436 a fine 2008 così ripartiti: 70% all’interno del Servizio Sanitario Nazionale, il 20% presso strutture private e il 10% come liberi professionisti. Vi sono solo 6 infermieri ogni 1.000 abitanti nel 2008 (erano 5,4 nel 2001): il rapporto dovrebbe essere di un medico ogni 5 infermieri e invece attualmente medici e infermieri pressoché si equivalgono. La media Ocse è di 8,9 infermieri ogni 1.000 abitanti e sale a 14-15 ogni mille abitanti in Olanda e Irlanda. Se si aggiungono agli infermieri 6.292 assistenti sanitari e 9.913 vigilatrici d’infanzia/infermieri pediatrici si ha un totale di 370.641 iscritti all’Ipasvi: erano 83.277 nel 1980, 183.734 nel 1990 (il decennio caratterizzato dal più forte dinamismo), 319.123 nel 2000, 342.000 nel 2004 e, quindi, negli anni successivi il ritmo d’aumento è stato più vicace. L’età media è di 42,2 anni e il 20% ha più di 50 anni.
Sussiste uno squilibrio tra pensionamenti (17.000 l’anno) e nuove assunzioni di infermieri (la metà): nel 2008 sono state registrate 9.168 iscrizioni nuove iscrizioni. Il turn over degli infermieri che lasciano (tra l’altro, non sono infrequenti i casi di abbandono precoce di questa difficile professione) è di gran lunga superiore ai nuovi infermieri, che sono diventati tali al termine di una preparazione senz’altro impegnativa, e la carenza viene resa più acuta dal fatto che la popolazione italiana invecchia in maniera accelerata. Secondo l’Ipasvi l’attuale fabbisogno complessivo è di altri 71 mila infermieri. A parte la Spagna, che registra un esubero, il deficit di infermieri (dati Oms) riguarda molti altri paesi industrializzati: ne servirebbero 250 mila in Gran Bretagna, 78 mila il Canada, 40 mila in Australia e, entro il 2020, 1 milione gli Stati Uniti.
Nel 2008 gli infermieri stranieri hanno inciso per il 28,4% sulle nuove iscrizioni. Per l’anno accademico 2008-2009 nelle università italiane sono stati programmati 14.849 accessi ai corsi di laurea in infermieristica, mentre secondo l’Ipasvi e le Regioni ne servirebbero 18.000 a fronte, peraltro, di 30.000 domande di immatricolazione presentate. La carriera di studio e la prospettiva occupazionale non attira molto anche se tra gli infermieri, a un anno di distanza dal conseguimento della laurea, risulta occupato il 97% del totale (20% percentuali in più rispetto ai laureati in medicina). Per rimediare a questa carenza agli infermieri professionali stranieri è consentito l’ingresso in Italia al di fuori delle quote previste nel decreto flussi, anche con un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Non avendo la cittadinanza italiana, essi non possono accedere a un posto pubblico (a meno che non siano comunitari) ma possono essere assunti da una società di lavoro interinale o da una cooperativa, che applicano contratti differenziati con conseguenti inconvenienti a livello retributivo e contrattuali che incidono sui livelli di tutela.
Gli infermieri stranieri sono risultati 34.043 nel 2008, per l’86,5% donne e per il 57,8% comunitari. La provenienza maggioritaria è quella europea (UE a 27 55,5 e altri Paesi europei 17,4%); seguono America 15,7%, Asia 5,3%, Africa 5,4%, Oceania 0,8%. Quanto ai Paesi di origine prevale, con un quinto delle presenze, la Romania (8.497 infermieri), seguita da Polonia (3.557), Svizzera (2.386) e, con più di 1.000 infermieri, Germania, Perù, Albania, Francia, India e Spagna. La loro ripartizione territoriale vede prevalere il Nord (19.212 infermieri, pari al 56,4%); seguono 8.594 infermieri (29,2%) nel Centro, 3.674 (10,8%) nel Sud e 2.463 (7,2%) nelle Isole. Gli infermieri stranieri sono 1 ogni 10 operanti nel Paese ma con forti differenze territoriali. Ad esempio, è straniero il 40% dei nuovi iscritti all’Ipasvi a Torino, un terzo degli infermieri operanti presso il grande ospedale delle Molinette e un quinto di tutti gli stranieri della Regione. Gli infermieri stranieri sono un terzo del totale negli ospedali privati di Milano, il 18% nell’ospedale San Raffaele e il 12% nell’Istituto Don Gnocchi. Le richieste più pressanti di nuovi infermieri provengono dalle cliniche private, dalle case di riposto e dagli istituti per anziani e disabili non autosufficienti.
La figura professionale dell’infermiere è di difficile reperimento e impone il perfezionamento delle strategie di reclutamento, di formazione e anche la fluidificazione delle procedure burocratiche. Pur guadagnando gli interessati molto di più rispetto ai livelli retributivi praticati in patria (ad esempio, 10 volte di più rispetto alla Romania), il loro reperimento sta diventando più difficoltoso ed è stato necessario allargare le aree di reclutamento. La loro carenza inizia a farsi sentire anche nei Paesi di origine, motivo per cui gli infermieri romeni venuti in Italia sono stati sostituiti in Romania dai moldavi, così come i polacchi andati in Germania lo sono stati in Polonia dagli ucraini. Tra l’altro, i livelli salariali italiani non esercitano più l’attrazione di alcuni anni fa e non è un caso che dall’Italia si sia è registrata una seconda emigrazione di infermieri stranieri verso la Svizzera. Ciò porta a sottolineare che l’immigrazione concorre ad alleggerire temporaneamente i problemi occupazionali del settore ma non costituisce la soluzione definitiva, che richiede la promozione di meccanismi intrinseci al Paese di accoglienza.
I medici stranieri, un bisogno annunciato
I medici stranieri, una volta riconosciuto il loro titolo, possono operare solo in forma autonoma, a meno che non abbiano la cittadinanza comunitaria o acquisiscano nel frattempo quella italiana: questi limiti sono generalizzati, nonostante le decisioni più aperte adottate da alcuni giudici di merito per la soluzione di singoli casi.
A differenza di quanto avviene per gli infermieri, dei medici stranieri non si sente al momento bisogno salvo in alcuni settori (anestesia, radiodiagnostica e radioterapia), essendo l’Italia, in proporzione alla sua popolazione, il primo Paese al mondo per numero di medici: 354.000, pari a 4 ogni 1.000 cittadini, contro la media mondiale di 3 ogni mille.
I medici stranieri iscritti all’Ordine dei medici chirurgi e odontoiatri sono risultati 14.548 nel 2008, di cui il 42,3% donne erano 12.527 nel 2004, quindi l’aumento è stato di 500 unità l’anno). La ripartizione territoriale è abbastanza equilibrata: 52,2% nel Nord, 26,0% nel Centro, 18,3% nel Mezzogiorno e 2,7% in temporanea attività all’estero. La maggiore concentrazione avviene in quattro regioni: più di 2.000 sia in nel Lazio che in Lombardia (operanti per lo più nei Comuni di Roma e di Milano) e più di 1.200 sia nel Veneto e in Emilia Romagna.
La legge 39/1990 ha reso più agevole l’ iscrizione all’Ordine, previo riconoscimento del titolo conseguito all’estero (è, invece, automatico il riconoscimento della laurea presso una università italiana). I Paesi con un maggior numero di medici operanti in Italia sono: Germania (1.276), Svizzera (869), Grecia (851), Iran (752), Francia (686), Venezuela (626), Usa (618), Argentina (564), Romania (555) e Albania (451). La ripartizione per continenti vede l’Europa totalizzare quasi la metà del totale, l’America e l’Asia circa un quinto ciascuna e l’Africa il 12%.
La prevalenza degli Stati membri dell’UE a 15, o di Paesi che nel passato furono sbocco della nostra emigrazione o di altri dai quali si originarono diversi decenni fa flussi di richiedenti asilo, lasciano intendere che la forte presenza immigrata, che è andata radicandosi in Italia dalla seconda metà degli anni ‘90, non ha ancora avuto un corrispettivo in termini di iscrizioni al corso di laurea in medicina: sono pochi i medici figli di immigrati, così come avviene per gli infermieri.
Va anche ricordato che i medici originari di diversi Paesi dell’Est, considerato l’esubero esistente in Italia e l’impossibilità di inserirsi nelle strutture pubbliche, preferiscono altri Paesi comunitari, più bisognosi del loro apporto e più soddisfacenti dal punto di vista normativo e retributivo. Inoltre, sono andati diminuendo quelli che vengono a studiare medicina in Italia a causa del numero chiuso previsto per le iscrizioni e dell’alto costo della vita per mantenersi agli studi, mentre continuano a essere ridotte le possibilità di ottenere una borsa di studio. Attualmente sono poco meno di 500 gli studenti stranieri (inclusi quelli che vengono direttamente dall’estero) e neppure 400 i nuovi immatricolati.
La situazione attuale di sufficiente disponibilità non è destinata a perdurare e nel futuro si determinerà una forte carenza di medici in diversi settori, come già avviene in anestesia e radiologia. Secondo l’Ordine dei medici, se le possibilità di iscrizioni annuali alla facoltà di medicina continueranno a esser 6.200 come nell’ultimo ventennio, nel 2029 i medici diminuiranno a 280.000 (74 mila in meno nel corso di due decenni) e la loro età media salirà a 54 anni.
Bisogna iniziare a farsi carico dei limiti derivanti dalla vigente normativa. I medici stranieri attualmente operanti in Italia non possono operare presso il Servizio sanitario nazionale, non essendo prevista l’assunzione di cittadini stranieri presso strutture pubbliche. Diversi di essi sono lo stesso impegnati presso gli ospedali pubblici, specialmente nei reparti di pronto soccorso, ma solo come liberi professionisti retribuiti come collaboratori occasionali. Questa formula contrattuale è anche quella più ricorrente presso gli ospedali privati, che peraltro sono autorizzati ad assumerli con contratto a tempo indeterminato. Come si vede, di diritto o di fatto, la cittadinanza costituisce un ostacolo e in prospettiva sono necessari opportuni rimedi.
Che si parli di medici (in prospettiva), di infermieri (in misura accentuata già attualmente) o di altre figure professionali (in misura crescente), l’immigrazione in Italia sarà sempre più caratterizzata da figure qualificate: per far fronte a queste prospettive, il nostro mercato occupazionale abbisogna di aggiustamenti e gli stessi vanno accompagnati, a livello culturale, con un più adeguato inquadramento socioculturale che sia in grado di considerare gli immigrati come coprotagonisti dello sviluppo del Paese.