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"Voi siete nel cuore della Chiesa"(Paolo VI) (C.Dumas)
Congresso nazionale italiano pastorale dei nomadi - Udine, 28 agosto 2009

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 6/09


“Voi siete nel cuore della Chiesa”: con queste parole Papa Paolo VI accoglieva a Roma alcuni membri della comunità nomade durante il pellegrinaggio del 1965. Come ricevere queste parole, come dar loro piena dimensione, come farle vivere; ed ancora è contenuto in esse un messaggio profetico, una missione particolare…chi le utilizzerà come chiamata per la costruzione del Regno? “Siete nel cuore della Chiesa”, nel cuore stesso della missione della Chiesa, nel cuore di questa Chiesa, che il Vaticano II definiva servente e povera.
Se il cuore è l’organo che fa vivere, ciò che alimenta la vita, esso è anche la sede delle emozioni, dell’affettività, dell’intimità…
- Popolo dei viaggiatori nel cuore della tua chiesa e della nostra chiesa…per e con essa… attraverso essa imparare a celebrare la vita.
- Popolo dei viaggiatori unito in un unico cuore con il tuo Dio e con il nostro Dio per disegnare insieme, oggi e domani, il cammino della Speranza.
Se è vero che il cammino di Cristo - e di conseguenza il cammino della Chiesa - passa attraverso l’uomo (attraverso tutti gli uomini) allora voi gente nomade, popolo di ogni tempo, rifiutato e maltrattato, e noi accompagnatori pastorali, soggetti a critiche, avremo il nostro posto da prendere, per “donare la Chiesa e il Vangelo ai poveri, per restituire i poveri e il Vangelo alla Chiesa”.
Vivere nel cuore della chiesa servente e povera esige la creazione di condizioni e di luoghi dove i Viaggiatori e i Gagi possano rinascere a loro stessi e alla loro parola. Perciò voglio condividere con voi qualche traccia, fra le tante possibili, tratte da ciò che ci insegna la Via con i Viaggiatori e i valori che testimonia.
Ci rivela principalmente l’arte di vivere la fraternità: la famiglia numerosa ed unita intorno al patriarca, fondata su un modello essenzialmente comunitario, permette ai membri del nucleo familiare Tzigano di sentirsi considerati come persone, ovvero lì ci si sente qualcuno; fuori da questo ambito, non ci si sente sicuri, la miglior cosa che possa esistere è la comunità: vivere in comunione con il proprio clan, con quelli del proprio gruppo, condividere con loro gioie e dolori…arte di vivere la fraternità all’interno della comunità familiare; non è necessario un invito per partecipare, per portare un esempio, alla cerimonia del battesimo poiché ciascuno è atteso…
Un invito alla nostra Chiesa affinché non cessi mai la sua missione comunitaria di pace e d’unità fra tutti gli uomini…una Chiesa che potrà essere fedele alla sua missione solo se prenderà costantemente le distanze da chi predica l’esclusione.
“Se vado in una chiesa, tutti mi guardano, e dicono fra sé e sé: guarda uno zingaro! sicuramente è entrato a vedere se c’è qualcosa da rubare… Immaginate che vada a pregare in chiesa la Domenica, e il giorno seguente manchi qualcosa, sarò io, lo zingaro, che avrà rubato…!” (uno tzigano).
“Pur essendo di etnie diverse, di colori diversi, noi siamo come i Gagi e loro come noi. Quando piove l’acqua assume colori diversi nell’arcobaleno. Tuttavia per creare una sorgente è necessario che le gocce siano uguali pur nella diversità cromatica. La differenza è necessaria perché ci si senta migliori e più ricchi” (uno tzigano).
La missione cattolica all’interno del mondo dei viaggiatori deve conservare l’obiettivo del dialogo e della fraternità fra tutti gli uomini; la sua pastorale deve giungere a gettare ponti, a creare passerelle per permettere a tutti gli uomini - che siano sedentari o viaggiatori, ricchi o poveri, bianchi o neri - di vivere secondo i principi del rispetto reciproco e della fratellanza.
Ogni volta che una frontiera fra gli uomini retrocede è il Vangelo che avanza ed è l’umanità tutta che ritrova un po’ di quella luce originale ricevuta dal suo Creatore.
Proseguendo la nostra riflessione vorrei considerare un secondo punto: la ricerca di un’esistenza semplice, rispettosa degli stili di vita di ciascuno…la mancanza di luoghi legali dove fermarsi, i rifiuti e le espulsioni ripetute rendono i rapporti difficili e obbligano i nomadi al perpetuo errare. Al giorno d’oggi una parte considerevole della popolazione nomade è afflitta da povertà umana, culturale, economica… Nella precarietà, nel disagio, ci viene proposta una modalità più libera di pensare la vita, senza troppi bagagli, più leggeri e meno imprigionati in un mondo tecnologico apparentemente confortevole, che rischia di assopirci… una ricerca di semplicità che ci può sorprendere, ma che possiamo utilizzare come un invito da estendere alla Chiesa e a noi stessi; un sentire che si inserisce in una lunga tradizione di misericordia, dove gesti di semplice umanità (accogliere, nutrire, sognare, vestirsi, alzarsi) si sposano con aspetti sociali e spirituali che sono fondamenta di democrazia e di progetti comunitari.
“Faccio l’ambulante: busso alle porte, saluto, chiedo scusa per il disturbo e domando a chi mi apre se ha bisogno di impagliare una sedia, di affilare un coltello o un paio di forbici. A volte porto con me alcuni articoli come canovacci, rasoi, asciugamani e chiedo se vuole acquistarmeli. Se la risposta è negativa allora chiedo se ha qualcosa da regalarmi: qualche spicciolo, dei vestiti usati, o qualsiasi altra cosa voglia offrirmi. Se non ha nulla da donarmi posso condividere con lui una parola, i crucci, le miserie poiché se non hanno nulla da dare forse non possiedono molto. Quando si ha pagato tutto non resta molto - una realtà che accomuna sedentari e nomadi - non si è più ricchi. Ragion per cui quando vado di casa in casa e scherzo io condivido molto” (Toutoune).
Affranto per la morte dell’amico Lazzaro, Cristo ci offre nel Vangelo di San Giovanni (11, 38-44) tre parole che possono aiutare il nostro cammino: “Spostate la pietra”, “Lazzaro esci”, “Sfasciatelo e lasciatelo andare”.
“Spostate la pietra”, è l’invito imperioso a prendere misure concrete, necessarie per modificare il contesto, per liberarsi da ciò che blocca, da ciò che pesa… togliere la pietra, è fare insieme uno squarcio sull’avvenire, non restare bloccati nello status quo di una relazione, di un avvenimento, di una situazione.
“Sono andato a vedere su Internet. Sul forum i nomadi sono dei arnaqueurs; non vedono che non è come presso i gagi, mescolati, ci sono buoni e cattivi. Ovunque c’è il bene e il male, c’è del marcio. I nomadi sono sempre dipinti come un flagello per la società” (Chavo).
“Esci”, è l’invito rivolto ad ognuno per uscire da sé…l’invito a rivivere incessantemente l’esodo interiore per lasciare la nostra schiavitù e raggiungere la terra promessa dell’alleanza.
“La Parola di Dio, non è qualcosa che si deve criticare, ma è Qualcuno che vive in noi, Qualcuno che ci anima, Qualcuno che si vuole conoscere per condividerlo con i fratelli. Si va più facilmente verso gli altri; non si ha più vergogna! Si ha il coraggio di parlare di Gesù!” (un nomade al termine di una scuola di fede).
“Sfasciatelo e lasciatelo andare”, è la migliore educazione alla libertà, è la parola autorevole che aiuta a crescere, a divenire noi stessi; è ciò che ci permette di rinascere a vita nuova, alla nostra vita senza che ci asserviamo.
Jeanjean, Manouche, si prepara al diaconato. Vive in roulotte condividendo un terreno con alcune famiglie molto povere: “Vedi è là che è necessario che io sia! Il diaconato lo devo vivere vicino ai poveri; con coloro che nessuno vuole. Spesso, la sera, vengono per conversare, per pregare nella roulotte…Se nessuno è con loro, chi parlerà loro di Dio? Il Diaconato, se non verrà da me vissuto presso i poveri, farà di me un servitore inutile!”.
“Ciò che sarà sciolto sulla terra, sarà sciolto nei cieli…”. Solo l’ascolto e il dialogo incessantemente rinnovato possono permettere alla Chiesa di trovare le parole giuste per dire la fede in un linguaggio comprensibile. Solo una vera comunione con un popolo che possiede una sensibilità particolare può dare alla Chiesa la possibilità di scegliere i buoni gesti e i buoni segni per fare della liturgia una vera celebrazione della vita e della fede.
Un’altra traccia: il senso innato della Festa…o una vera Speranza da celebrare.
La festa è per eccellenza lo spazio che permette la reintegrazione sociale, il luogo della riconciliazione; il nomade porta questo gusto profondo della festa dentro di lui, e questo piacere viene a manifestarsi in numerose occasioni, la visita ad un parente, oppure ad un amico, un anniversario, una nascita, un battesimo, uno sposalizio… sgorga spontaneamente, quasi dal nulla, senza essere preparata o calendarizzata, forse perché per gli tzigani la vita è festa: è tutta la vita che aspira ad essere festa.
Per la festa, si farà molto, per dimostrare che non si è in miseria… sì, la festa veste di luce la memoria del passato e la prospettiva del futuro, fortifica relazioni sociali e ridona coraggio alla comunità; tiene testa alla solitudine e all’abbandono, si inscrive deliberatamente in una pedagogia ottimistica della realtà… invita la Chiesa a ridere con i poveri, a cantare con gli emarginati, a giocare con i delinquenti… chi non ha compreso che invitare alla tavola della festa è più importante che dare da mangiare, chi non ha recepito che il tempo delle condivisioni, della gratitudine del sorriso è più importante che il dono di beni di consumo, allora sì, ciò è molto triste.
Nel libro “Ciò che i miei occhi hanno visto” (Cefal, edizioni Ouvrières), un sacerdote dell’America Latina ha scritto del suo popolo: “Un popolo sempre festoso… Ha il ritmo nel sangue. Tutto inizia e termina con una festa. Tutto diventa pretesto per una festa, anche le riunioni politiche! La festa è un po’ come la proiezione nel presente di un sogno collettivo dove tutte le differenze saranno abolite, colore della pelle, sesso, religione, classe sociale, dove l’ingiustizia, la schiavitù, la discriminazione, la sofferenza e la stessa morte saranno al fine definitivamente vinte: ecco il senso profondo e il grande messaggio che ci dona periodicamente il Carnevale. In occasione della festa i poveri danno una risposta a domande lancinanti quali la miseria, l’oppressione, l’esclusione: a che cosa serve la mia vita di fronte a tutto ciò? …La festa… è una forma di resistenza attiva, è un alto grido di vitalità, di fede nella vita (malgrado tutto), è un sogno ad occhi aperti”.
Quando per la felicità la festa si fa liturgia, azione comune, celebrazione della Via, allora tutto si illumina, zampilla la Speranza.
La cultura del Pellegrinaggio
Nella Bibbia il popolo di Dio è un popolo di viaggiatori, è la prima chiesa cristiana a sviluppare nel cuore dei discepoli questa identità di pellegrini di Dio. Ogni uomo sulla terra è un pellegrino, e i Nomadi ne sono i primi testimoni.
I pellegrinaggi ritmano la via cristiana dei Viaggiatori quasi come le feste liturgiche…La relazione con il sacro, dove il toccare acquista enorme importanza (le rocce di Lourdes, le statue, i mantelli a Sara, la medaglietta indossata), traduce il loro credo in un Dio che vuol bene, che parla al cuore della storia di ciascuno e con il quale la vita continua dopo la morte.
“Quale grande gioia nel mio cuore! Due anni fa feci voto di venire a Saintes Maries de la Mer a mettere un mantello a Sara. Ora sto facendo ciò…ho potuto avvicinarmi, toccare e la Papusha ha deposto il mantello. è meraviglioso! Vieni con noi, vieni a vedere!” (Favé).
Il viaggio, e tutto ciò che esso comporta in termini di modalità di vita, è da leggere come un segno di verità in un mondo che si chiude e blocca in sicurezze immobili e sterili.
“Fortunatamente ci sono ancora i pellegrinaggi per uscire dai campi, diversamente ci staremmo 24 ore su 24. Il pellegrinaggio è gioia, è viaggio. Certamente, la nostra grande gioia è ritrovarsi tutti uniti durante i pellegrinaggi, 500 campeggiatori o anche più come è accaduto a Lourdes, a Paray le Monial, a Saintes Maries. Durante queste occasioni troviamo molti fratelli e sorelle che non vedevamo da anni. Insieme, in un’adunanza, abbiamo più calore, siamo più forti” (Dédé).
“La società che fa pellegrinaggio è una società in marcia verso una meta migliore. I nomadi sono perennemente in viaggio e ci dicono che il mondo dei sedentari è effimero. Ci svelano la fragilità della nostra vita e nello stesso tempo la forza della nostra vita. Ciò presenta aspetti positivi, poiché lascia spazio ad altre cose” (Padre Jouham).
Questo sguardo sulla Via, sul mondo, sulla creazione, sulla morte e sull’aldilà della morte conserva un’autentica referenza a Dio anche se i nomadi non sanno sempre dirlo a parole…questa espressione religiosa, semplice e fondamentale, rappresenta per la Chiesa una possibilità di pastorale, perché è invito a raggiungere i più piccoli e i meno istruiti cosicché possano scoprire dentro loro stessi una vera sorgente di Speranza.
è nella nostra società degradata che la fede deve essere proposta, non come rassegnazione, ma come chiamata alla speranza: un appello che ha il suo prezzo nel coraggio e nell’iniziativa” (Mgr Claude Dagens).
Ecco alcuni spunti per riflettere… Per concludere direi che mettere i poveri al centro della missione significa per la Chiesa saper:
- fare posto allo straniero,
- osare la condivisione del savoir faire,
- essere una voce per chi non ha voce.
Fare posto allo straniero
Il posto concesso allo straniero risulta essere, a parer mio, una delle componenti fondamentali della vocazione cristiana; essa si declina in termini di attitudine alla condivisione, all’ospitalità, alla riconoscenza dell’altro come altro; non può essere chiusura all’umiltà del cuore e all’intelligenza, al desiderio d’accogliere a mani nude colui che domanda uno sguardo, un atteggiamento di adeguata compassione, e di fratellanza; non può in alcun caso lasciare che il razzismo e la xenofobia penetrino nelle relazioni umane e facciano crescere nella società il germoglio della diffidenza, della paura e dell’odio.
La vocazione cristiana s’apre dunque naturalmente alla solidarietà internazionale, ed attesta la possibilità di vivere insieme.
Osare la condivisione del savoir faire
Come Maria a Cana, la Chiesa è invitata ad essere attenta a tutto ciò che potrebbe compromettere il progetto di alleanza universale che Dio vuole celebrare con tutta l’umanità.
I gesti più concreti, i più profani compiuti nell’umiltà del servizio, divengono i più indispensabili per manifestare la gloria di Dio.
Ogni uomo ha qualcosa da donare, da condividere… tutti gli uomini ricevono una chiamata, una missione personale da realizzare per il bene di tutti, anche se la posizione sociale può lasciare credere che non abbia importanza.
Essere voce per chi non ha voce
“Per gli sfruttati, per i sofferenti io mi alzo, dice il Signore, ed offro il mio saluto a coloro che hanno sete” (Salmo 12).
Osare parole pubbliche che siano interpellanze alle coscienze, inviti a cambiare sguardo, proposizioni che tentano una condivisione e uno scambio anche con coloro la cui opinione non viene considerata.
Con Cristo, è anche imparare nuovamente a scrivere come abitare la terra e restituire la parola a coloro che non parlano, dando spazio a chi mai viene ascoltato e che può divenire l’esperto dei progetti di sviluppo.
Voi siete al centro della Chiesa
Popolo di viaggiatori per il tuo modo di abitare il mondo, tu vieni a rivelarci che esiste un’altra modalità di vivere, una via senza nulla possedere… tu ci inviti ad un’esperienza di libertà.
In questi tempi di ricerca spirituale, ma anche di dubbio, testimoni che una via di fede semplice, spontanea e gioiosa è possibile.
In questo tempo, segnato dal desiderio del potere, la tua relativa spensieratezza che tende a lasciare il futuro nelle mani della provvidenza diviene segno di una chiamata al “non dominio”, alla libertà.
In questi tempi individualisti il tuo modo di vita comunitaria ci risveglia e ci invita al rispetto e alla condivisione.
La tua ricerca amorevole, inconsueta di Dio rimanda alla nostra condizione cristiana, quella dell’uomo che cammina verso il suo Dio, viaggiatore nella fede…
E il domani?
Come la nostra Chiesa manterrà il legame, fragile e prezioso, con il popolo nomade?
Bisognerà che nuove forze si alzino facendosi portatrici di una parola di fede diretta, capace di una empatia profonda e di una grande fedeltà, in grado di lasciare che il grano cresca fra gli stessi nomadi…
Non vogliamo velarci il volto, c’è un’urgenza: le sirene della secolarizzazione sono sempre più seducenti…
Ma questa sfida missionaria è alla portata della nostra Chiesa… lanciando ponti inediti fra cristiani sedentari e nomadi, noi capiremo le parole della preghiera eucaristica: “Popoli che si contrastano accettano di percorrere insieme una parte del cammino. Sì è a te, Signore, che dobbiamo ciò!”.
Già numerosi cristiani sono impegnati nelle associazioni che lavorano a fianco dei nomadi, ma altri, per mancanza d’informazione, ingessati in vecchi stereotipi o bloccati in atavici pregiudizi, continuano a rifiutarli oppure ad ignorarli. Abbiamo già perso troppo tempo! Ora, accanto a loro, ciascuno è chiamato a divenire un po’ nomade nel cuore, a mettersi in strada dirigendosi verso loro, a spostare lo sguardo, a cercare le occasioni per poterli conoscere meglio, a scoprire i loro talenti (capacità di adattamento, di sopportazione, i doni artistici, il senso della festa, la creatività…), ad immaginare mezzi concreti per un incontro, per fare Chiesa e società insieme.
Ed infine, osiamo dire, senza idealismi: questo popolo sconcertante è un dono di Dio per la nostra Chiesa!
 
Bibliografia:
La foi des Gitanes, Claire-Visions éditions
Solidarités au risque de l’Evangile, la diaconie di Var
Paroles des Gitans.