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Il tempo opportuno (S.Ridolfi)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 6/09


Il “tempo opportuno” ha una specifica e robusta valenza in senso biblico. E ne parla in questo numero della nostra rivista una persona competente (S.E. Mons. Carlo Ghidelli, biblista, pg. 485).
Avendo presente questa riflessione biblica, che riveste ovviamente valenza universale e paradigmatica, dobbiamo qui farne una attualizzazione, su cosa ossia tutto questo comporti nel mondo della mobilità umana.
Credo si debba partire da un richiamo sulla serietà e necessità di una riflessione attenta e permanente su questo aspetto del tempo opportuno. Perché nel Vangelo leggiamo di Gesù che piange sulla città di Gerusalemme che verrà distrutta per non avere riconosciuto, e quindi non approfittato, della opportunità che le veniva offerta con la “visita” del Cristo (Lc 19,44), che come una chioccia aveva tentato, purtroppo inutilmente, di raccogliere attorno a Sé i suoi figli (Mt 23,37-39).
Le opportunità mancate sono di fatto tempi opportuni trascurati o non riconosciuti che poi sempre lasciano rammarico e conseguenze negative. Sono quei “se” che avrebbero fatto storia, ma su cui poi non si può costruire. Possono bensì aiutare ad una sana riflessione per salvare il salvabile nella situazione che si è determinata e per evitare di ricadere in simili successive disattenzioni o rifiuti.
Ma di queste una, ed anche macroscopica, è quella lamentata dal beato G.B. Scalabrini,Vescovo di Piacenza, quando annotava che la Chiesa cattolica (siamo alla fine dell’ottocento) aveva perso più fedeli trascurando le migrazioni di quanti ne avesse guadagnato inviando missionari. La conclusione era di impegnarsi quindi al massimo per il recupero del tempo e delle persone perdute organizzando una adeguata azione pastorale. E lui per questo ha, tra l’altro, fondato una società religiosa, quella che oggi si chiama “Congregazione scalabriniana”.
Successivamente ci sono state altre opportunità perdute, anche di recente, come quella che attualmente occupa e preoccupa i responsabili, di non avere cioè curato sufficientemente nella emigrazione del dopoguerra la formazione di leaders, di capi per una specifica, responsabile ed originale presenza attiva dei nostri emigrati nella società civile e religiosa dei Paesi di accoglienza.
Sottolineo: insufficienza, non mancanza perché si potrebbero facilmente ricordare risultati molto positivi. Per la verità, ed anche questo fa riflettere, più nel campo della società civile che in quella ecclesiale.
Ed oggi stiamo ancora vivendo una stagione di miopia culturale, e possiamo dire anche di insufficiente sensibilità profetica, non vedendo (o non volendo vedere? il che sarebbe ancora più grave) e trascurando il passaggio epocale in atto con le migrazioni internazionali che interessano appieno anche il nostro paese. Una evidenza che appare anche dal fatto che si criminalizza il clandestino, cioè il forzato della fame e della oppressione, invece di aggredire le cause, ignorando che probabilmente in un domani non molto lontano verrà eretto un monumento a questi eroi della speranza oltre ogni speranza e del coraggio contro immani contrarietà naturali e culturali.
Ben altro ci vorrebbe, anche a giustamente evitare frange di criminalità connaturali al sistema ed aggravate da atteggiamenti di persone e gruppi.
Comunque per non bloccarsi in considerazioni sul versante della negatività ad opportunità non riconosciute o rifiutate, è bene anche aprirsi a doverose riflessioni e/o proposte a proposito della realtà attuale e delle prospettive che vi sono connesse.
Già a noi emigrati dal Governo italiano, ed ora ripetutamente anche dalle Regioni, veniva detto di essere “ambasciatori” od avamposti di italianità. Al di là di almeno un pizzico di retorica, c’è però un fondo di vero in quella qualifica. La gente del posto viene sovente in concreto a conoscere l’Italia dalle relazioni di vita (lavoro, scuola, alloggio, divertimento, chiesa…) con gli immigrati che con questo creano un clima di consenso o di rifiuto nei confronti della cultura del loro paese di provenienza. Del resto la storia del cristianesimo non registra forse una forte diffusione con le peregrinazioni, libere o forzate, dei fedeli? E non è stata anche vista e detta una certa provvidenzialità dell’emigrazione italiana che portava spesso cattolici in paesi protestanti o agnostici?
Un altro aspetto a noi più connaturale e che ha rapporto con le migrazioni (dei nostri italiani all’estero e degli immigrati in Italia), è la nota di cattolicità. La quale non è uniformità né di lingua né di rito né di espressioni religiose, ma tipica unità di fede e di guida nelle diversità culturali e religiose, vissuta nella comunione (Gal 3,27-28 e 1Cr 12,12-13). E in questa grande cornice si inseriscono importanti e più specifiche opportunità da vedere e da attivare, l’ecumenismo con i fratelli di altre confessioni cristiane e il dialogo interreligioso con i non cristiani (la missione è venuta a noi, è stato detto).
E non è forse vero che il rinnovamento sociale e culturale e la ricchezza religiosa vengono in grande parte dal dialogo tra culturalmente diversi e tra cristiani di diverse esperienze?
Fu scritto “nessuno è un’isola” (T. Merton), tanto meno oggi in epoca di globalizzazione di una società cibernetica.
Ma tutto questo concorre (o almeno è opportunità!) a raggiungere il traguardo della grande e diversificata famiglia dell’umanità in una fratellanza universale, tipica del cristianesimo.
Il nostro discorso, come si vede, pur nella sua limitatezza presenta molteplici prospettive, conseguenze ed applicazioni. A noi, a tutti gli operatori pastorali tocca rifletterci su con lucidità ed onestà senza rigidismi né autoreferenzialità, ma con grande rispetto della libertà in Cristo (Gal 5,13) e nella tensione di raggiungere quel “tutto in tutti” (1Cr 15,28) che è prospettiva escatologica.