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Un mare di figli (G.Martino)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/09


La scelta di andare per mare comporta un grande sacrificio non solo per chi parte ma anche, e a volte soprattutto, per chi resta. Essere un marittimo o un pescatore d’altura significa accettare di lavorare in condizioni estreme, senza alcun riposo settimanale o altro motivo di sbarco se non il lavoro stesso. La lontananza da casa si stima, secondo l’ultima ricerca dell’Apostolato del Mare sul mondo marittimo del 2009, in cinque mesi consecutivi per i cittadini europei e da otto a 24 mesi per quelli non comunitari. Mesi in cui non solo si è lontani da casa ma è ugualmente difficile fare una semplice telefonata, mandare o ricevere un’e-mail o, peggio ancora, avere le notizie del proprio paese. Da un’indagine sul mondo marittimo si rileva che queste persone a causa dell’assenza prolungata siano sempre più in difficoltà nel formare una famiglia e comunque abbiano problemi per il reinserimento a terra.
I marittimi non sono capaci di partecipazione sociale neppure con la iscrizione a una semplice associazione e, nel tempo perdono la pratica religiosa fatta a “singhiozzo”.
L’ambiente di bordo non è una vera comunità che accoglie, ma principalmente uno spazio lavorativo in cui le relazioni che si intrecciano sono professionali o di amicizia superficiale, nella consapevolezza che non potranno mai avere radici profonde proprio a causa della continua mobilità.
La mancanza di un “luogo”, di un ambito in cui esprimere quotidianamente i propri sentimenti, distorce la stessa affettività con effetti di chiusura, col cercare un’autosufficienza di autodifesa rispetto al mondo, di diffidenza ma anche di estrema ingenuità anche nei rapporti con quanti incontrano nei vari porti del mondo.
I marittimi relegati in porto ai margini delle nostre città non si presentano per quanti li accolgono, neppure come un vero “problema migratorio” in quanto non hanno fisicamente il tempo di “dare fastidio”, di farsi sentire nelle loro necessità, nelle loro urgenze.
Essi sono:
-          Fratelli che vivono in prima persona il dramma della migrazione in ogni porto che toccano.
-          Fratelli ovunque stranieri nel perenne peregrinare lontano dalle famiglie, dagli affetti più cari, dalla vita sociale ed anche dalle proprie comunità ecclesiali.
-          Fratelli, ultimi fra gli ultimi, sparsi sulle acque del globo senza potersi incontrare mai per gridare la propria sete di giustizia, per un trattamento più equo e dignitoso.
-          Fratelli imbarcati ed a volte sfruttati in un gioco di bandiere “ombra” di paesi senza leggi sul lavoro e sulla sicurezza della navigazione.
-          Fratelli spesso dimenticati anche da una Chiesa solitamente viva ed attenta alle molteplici realtà sociali che la circondano, ma che rivela un deprecabile oblio per quanti si muovono sugli altri due terzi della superficie terrestre costituiti dal mare.
A questa descrizione così deprimente della vita del marittimo, corrisponde, purtroppo, l’altra metà di una verità che prosegue sullo stesso filone di una famiglia incompleta, di un’unità spezzata, del sole e della luna che si inseguono continuamente senza quasi mai incontrarsi.
Anche le famiglie dei marittimi vivono particolari disagi: le mogli, spesso chiamate “vedove bianche”, hanno la responsabilità della conduzione familiare e della educazione dei figli. Questo fatto mette in crisi il marittimo da una parte e lascia “monca” la famiglia dall’altra.
Queste donne devono portare avanti da sole le responsabilità dei genitori, incoraggiare e sostenere i figli e rapportarsi con un perfetto equilibrio con i mariti lontani e la prole cercando di non dare a nessuno la priorità sull’altro. A questa figura si accompagna, evidentemente, quella, per rimanere in tema, che potremmo chiamare dei “figli bianchi”. Si tratta di bambini che spesso nascono quando il papà è assente o che, quando questi torna dai lunghi imbarchi, non li riconoscono e piangono tra le loro braccia.
Nel 2003 l’Apostolato del Mare organizzò un tour in 25 porti italiani per sensibilizzare la gente delle città portuali al tema del mondo marittimo con dei concorsi specifici. In alcune sedi oltre al porto erano presenti molte famiglie di marittimi. Abbiamo letto centinaia di temi svolti in cui questi bimbi ci raccontavano la dialetticità del rapporto con il papà spesso lontano. Riportiamo alcuni stralci di uno di questi svolgimenti: “mio papà quando torna non sono molto contento perché lui arriva e si mette a guardare la televisione e poi alza la voce e si lamenta con tutti. Mio papà è sempre nervoso e non esce mai di casa e anche la mamma diventa nervosa. Io sono contento quando viene il mio papà dalla nave perché mi porta tanti regali però quando parte stiamo tutti più in pace”. Spesso ricorrono proprio questi temi nei quali si evidenzia tutta l’incapacità del marittimo di inserirsi in un trend quotidiano di una vita che è completamente diversa da quella che lui vive a bordo. Bisognerebbe essere capaci di dimenticarsi subito dei gradi che uno porta sulla nave, del ruolo e degli orari stressanti e mettersi immediatamente in ascolto per capire come e quanto i figli sono cresciuti e le regole di casa sono cambiate. Si lamentano i piccoli perché il genitore non sa dare affetto, sono disturbati gli adolescenti perché nel momento in cui il papà è sbarcato cambiano le regole che erano giuste sino al giorno prima e ritorneranno giuste dal giorno in cui egli imbarcherà su un’altra nave. Questa discontinuità di regole, di affetti e di crescita porta a tutti i soggetti coinvolti una profonda tristezza per ciò che potrebbero avere ma non riescono.
Ad Augusta, sempre durante questo tour di sensibilizzazione delle città di mare, una signora ormai madre di famiglia ricordava in una testimonianza pubblica, piangendo, come lei abbia finalmente conosciuto il suo papà soltanto dal momento in cui era andato in pensione. Ricordava con amarezza le incomprensioni di quando era piccolina e con altrettanta grande dolcezza la concretezza di un affettività finalmente espressa negli ultimi anni di vita del suo papà. Ecco perché l’Apostolato del Mare, nel mondo, guarda con uguale intensità a chi è lontano da casa ma ugualmente a chi a casa rimane come “incompleto” e non solo nel periodo dell’imbarco ma, forse, per tutta la vita. Da questo nasce l’esigenza di una particolare attenzione verso le famiglie dei naviganti quasi a colmare questa distanza, questo vuoto o, peggio ancora, di brevi momenti di incontro-scontro che si concludono, spesso con sollievo di tutti, con l’ennesimo allontanamento fisico del problema ma senza tentare mai di risolverlo.
A questi bimbi che hanno entrambi i genitori ma vivono come piccoli orfani, almeno da parte di uno dei due, va rivolta tutta l’attenzione della comunità cristiana residente. Deve farsi carico di una accoglienza completa comprendente anche la fase del ritorno a casa del papà che deve sentirsi ugualmente amato e pensato, deve essere accolto come uno di famiglia anche nella propria Chiesa e come tale essere aiutato, a sua volta, ad accogliere ed ascoltare la sua famiglia che continua ad attenderlo ma, anche se, è spesso incapace di farlo sentire come uno di loro. E il ruolo del “ponte” che si propone a quanti si avvicinano ora alla famiglia e ora al navigante; un ponte capace di collegare la terra al mare ove nessuno si senta più straniero né ospite, ma veramente parte della stessa famiglia, la famiglia di Dio.