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"E' tanto piccolo, Signore" (C.Simonelli)
Traccia di riflessione biblica

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/09


«Io dissi: Signore Dio, perdona!
Come potrà resistere Giacobbe?
è tanto piccolo» (Amos 7, 2.5)
Un profeta focoso e appassionato della giustizia quale è Amos ci offre un testo particolare, riportato qui in esergo, in cui la piccolezza di Giacobbe viene sottolineata dopo la visione di due “flagelli” che stanno per abbattersi sul popolo, quello di cavallette che tutto divorano e quello di un “fuoco” - probabilmente da intendersi come una tremenda siccità - che brucia i campi e prelude dunque alla carestia ed alla fame. Questo testo in cui sono evidenti le reminiscenze delle “piaghe” sull’Egitto descritte nel libro dell’Esodo, non è forse non tra i più noti: ci permette tuttavia di iniziare una riflessione sull’idea di “piccolo”, mettendoci di fronte alla tenerezza che si prova davanti ai “cuccioli della specie”. Non sempre, non a tutte le condizioni, non in modo uguale le donne e gli uomini, ma comunque in modo tale che “se ne può parlare”.
Quello che è singolare nel piccolo brano è che le parti in un certo senso si mescolano. Il profeta si fa infatti intercessore presso Dio, recuperando un ruolo già ricoperto da Abramo (Gen 18,17-32) e da Mosè (Es 32, 11-14; cfr. Sal 99,6: 106,23) e Dio “accetta” la sua preghiera, dicendosi disposto a perdonare, anche per amore di un solo giusto (cfr. Ger 5,1 e Ez 22,30, più i “Canti del Servo del Signore”). In realtà si potrebbe dire che sono gli “intercessori” che fanno propria l’attenzione mostrata da Dio lungo tutta la storia di salvezza e lentamente e difficoltosamente compresa dagli esseri umani: è Dio che ascolta il grido del povero e degli schiavi, che rivendica a sé la causa dell’orfano e della vedova, che conta lacrime e passi del vagare di ognuno (cfr. Sal 56, 9), che cerca Giobbe fino negli inferi (cfr Gb 14,1-15), che si dà pena anche per gli animali (Giona 4,11).
Lungo tutta la Scrittura si può seguire questa “preferenza” mostrata da Dio per ciò che è piccolo e disprezzato, rappresentato da un popolo esiguo ed ulteriormente dal suo resto, dal piccolo David di fronte al gigante e, sempre, dallo straniero e dalle donne sole. Questa dimensione assume poi importanza capitale nella tradizione evangelica in cui alla ripresa dei temi della tradizione ebraica si unisce la convinzione che in Gesù - nato tra gente impura come erano i pastori, vissuto a contatto ed in comunione di mensa con poveri e pubblici peccatori, morto fuori delle mura della città con il supplizio infamante della crocifissione, “rialzato” da Dio - il Figlio di Dio stesso mostra nella carne la sua opzione “per noi”, per sempre.
Di fronte alla restituzione sintetica della nostra fede, espressa nei termini appena riportati, è difficile obiettare e dire, in via teorica, qualcosa di diverso. Ma, allora come oggi, è quando siamo di fronte alle concrete situazioni della vita che, come il povero profeta Giona, non riusciamo più a riconoscere quello che noi stessi riteniamo di credere e forse sinceramente annunciamo: come lui può capitarci di annunciare “il Dio dell’Esodo” e poi di adontarci ed irritarci quando vediamo che il Signore “sceglie” la via della com-passione, trascrizione nella storia del Nome proclamato nel roveto e “aperto” sul Sinai - «uterino, misericordioso, lento all’ira e ricco di tenerezza e stabile fedeltà» (cfr. Es 3,14; 34,6-7; Giona 4,2). La Scrittura, comunque, non fa sconti e senza mezzi termini ci confronta con le pulsioni omicide e spietate che non ci sono estranee, mettendo in scena conflitti sanguinari che innescano cruente risposte: «Babilonia devastatrice (...) beato chi afferra i tuoi piccoli e li sfracella contro la pietra» (Sal 137,9). Noi siamo lì in mezzo, tra la convinzione di un buon messaggio da portare e la grettezza che, con l’indifferenza autorizzata dall’opulenza - «l’uomo nel benessere non capisce, è come l’animale senza ragione» (Sal 49,13) - permette che tante piccole vite siano sfracellate o perse nelle onde, il che è poi lo stesso.
Eppure anche per la nostra durezza di cuore e rigidità di cervice la metafora materna con cui viene indicato Dio che si prende cura dei piccoli “funziona” più di molte altre ed è particolarmente indicata nei luoghi in cui la vita è fragile e minacciata: «le madri, infatti, detestano le guerre» scriveva, rappresentando il comune sentire, anche il poeta latino Orazio. Così dalla radice materna del nome di Dio, sopra già ricordata (rahum) all’idea della madre (carcerata, magari?) che si tatua il nome del figlio sulle mani e non dimentica, almeno con la pelle; dalla figura che in Osea 11 accosta a sé il piccolo (guancia... ma una versione del versetto recita “seno”) per dargli da mangiare (allattarlo?) alla orsa madre che si mostra terribile quando le toccano i cuccioli (Osea 13,8), fino all’espressione che indica le contrazioni del ventre di Gesù di fronte alla madre vedova di Naim che accompagna il figlio morto (Lc 7,13: esplanchnistê) o all’idea della chioccia che raccoglie presso di sé i pulcini (Lc 13,34), tutto sta ad indicare la cura visceralmente appassionata di Dio verso ognuno.
Chi è infatti “tanto piccolo”? Certo bambini e bambine, i minori, come si esprimono i testi giuridici e le scienze sociali, non solo bisognosi di cure immediate ma anche soggetti di diritti, tra i quali stanno anche quelli ad una abitazione decente ed allo studio, ad esempio. La comune o almeno diffusa disposizione a sentirsi commuovere di fronte ai fanciulli aiuta a comprendere questo aspetto. In questo atteggiamento può però nascondersi un’insidia: è la propensione romantica ed estetizzante - anche ad Auschwitz, si sa, ci si commuoveva, a certe condizioni - ad isolare i “bambini” dal loro ambito familiare e dal contesto sociale, il che, oltre ad essere evidentemente irrazionale ed ingiusto, porta al risultato paradossale di preparare il disprezzo e l’esclusione che colpiranno gli stessi, ex-minori nel giro di pochi anni. Gli esempi, che vanno dal sud del mondo a “questo mondo”, dai nuclei familiari migranti ai piccoli Rom, sono innumerevoli ed ognuno li può facilmente fare. La Scrittura fornisce tuttavia importanti chiavi di interpretazione che impediscono l’identificazione della categoria dei “piccoli” con una nursery: come si diceva, anche quella dell’infanzia è metafora per ogni forma di fragilità di cui Dio sostiene la causa, dagli schiavi ai defraudati, dagli stranieri ad un intero popolo di deportati.
In questo senso e senza derive sentimentalistiche, mantenendone pervia e concretamente eloquente la dimensione legata alla società ed alla polis, i “piccoli” comprendono i minori senza isolarli dal più largo contesto, e possono essere anche cifra adatta a rappresentare ognuno ed ognuna, preziosi davanti a Dio «più di molti passeri», con i capelli contati uno ad uno ed i gesti portati nella memoria che non conosce oblio: quella di Dio, sicuramente, ma anche nel memoriale della eucarestia offerto alla chiesa e dalla chiesa. Anche per questo l’appello rappresentato dai “piccoli” è insieme esigenza di giustizia ed annuncio di speranza: ogni piccola vita, ci ricordava il poeta Tagore, è segno che Dio non si stanca né si dimentica di noi.
Si può a questo proposito ricordare una singolare e gustosa riflessione patristica, scritta da Romano detto il Melode, un compositore di inni del VI secolo - nato a Emesa (Homs) in Siria, vissuto in gioventù a Berito (Beirut), infine, diacono, trasferito a Costantinopoli: anche la geografia ha un suo peso! In un kontakion (specie di commento lirico alla Scrittura) dedicato al profeta Elia appare il contrasto tra un uomo dedicato alle cose sacre e consumato da zelo religioso e la più grande ed avvolgente misericordia di Dio, «amico degli uomini». Vale la pena lasciare la parola a Romano:
«Considerando la grande iniquità degli uomini e l’immenso amore di Dio per loro, il profeta Elia, sconvolto dal rancore, rivolse al Dio della misericordia queste parole impietose, senza misericordia: “Schiaccia con la tua collera quanti oggi ti disprezzano, o giudice di giustizia”. Ma Elia non riusciva assolutamente a mutare i sentimenti del misericordioso, solo amico degli uomini».
L’inno prosegue narrando tutta la vicenda in questa prospettiva, in un modo quasi comico, se non fosse fin troppo verosimile e sempre attuale: Dio non si decide a distruggere, allora il profeta opera al posto di Dio, parla in suo nome, decreta lo sterminio di quelli che a lui sembrano empi. Addirittura si ingegna con una formula sacra: se giuro su di Lui, pensa, non permetterà che la mia parola vada a vuoto. E così, al posto di Dio, decreta carestia e siccità. Ma Dio gli obietta:
«Quando vedo il pentimento, non posso non aprire il cuore agli uomini…il tuo grande amore di Dio non ti ispiri sentimenti di odio verso gli uomini… imita, profeta, la docilità degli animali…come potrò, da creatore, non compatire ognuno, io, amico degli uomini?».
Elia stenta veramente, è troppo desideroso di far rispettare i decreti che crede di conoscere, non riesce ad accedere al decreto a cui Dio si è vincolato: aver misericordia degli uomini. Ad un certo punto, con la mediazione dell’ira e delle lacrime della donna vedova di Zarepta, sembra capire qualcosa di più, ma poi una sacra (secondo lui, naturalmente) ira prende ancora il sopravvento e “l’uomo del sacro” torna a tuonare minacce e giuramenti in nome di Dio. Allora, a mali estremi, estremi rimedi:
«In seguito, quando Dio rilevò l’umore acre di lui nei confronti degli uomini, il Signore fece propria la sorte di quelli e allontanò Elia dalla terra, che essi abitavano, dicendo: «Allontanati, amico, dalla terra degli uomini, io stesso scenderò presso di loro nella mia misericordia. Tu lascia la terra e sali quassù, dal momento che non riesci a tollerare gli errori degli uomini. Ma io, che sono del cielo, vivrò tra i peccatori e li salverò, io amico degli uomini» (Inno 7/45).
Inserendo così anche la conclusione del ciclo di Elia rappresentata dal suo rapimento in cielo in carro di fuoco (cfr. 2Re 1), Romano legge cristologicamente l’intera vicenda. Diacono nella chiesa detta melkita (del re, esito dei concili del V secolo,) uomo di migrazioni e di confini, di mediazioni e di meditazioni, di predicazione e di poesia, porta nella sua opera una profonda meditazione della storia e della Scrittura. La sua Vita, di cui resta una sintesi nella raccolta di informazioni redatta da Simeone Metafraste, attribuisce ad un evento particolare il sorgere della sua vena poetica, e, nelle versioni più tardive della notizia, addirittura della guarigione dalla balbuzie o dall’incapacità di parlare. Si sarebbe trattato di una visione: nella chiesa di Ciro, tra le due cinte murarie della città nella zona dei Siri, la Madonna gli avrebbe ingiunto di mangiare un kontos, un rotolo appunto. L’episodio, che certo “rilegge Apocalisse che rilegge Ezechiele”, ha una forte valenza simbolica: la diaconia della poesia è grazia, in questo caso diventa visione potenziata dal confine della mura, parola profetica che prorompe nella “chiesa del re”, tentata di irrigidirsi e di non avere volatili notturni per vegliare né cicale per cantare.
La speranza è dunque continuamente testimoniata da tante voci, di piccoli e di testimoni, o forse meglio detto di “piccoli testimoni”, cui saremmo in realtà chiamati ad unirci, anche se molte volte non ci riusciamo. Ma, ci attesta la Scrittura, non rimarremo senza quell’annuncio, dai tratti di giudizio e di agape: possiamo a questo proposito leggere in modo congiunto i passi paralleli di Mt 21,14-16 e Lc 39,40, che all’ingresso di Gesù in Gerusalemme ed all’osanna del riconoscimento messianico, accostano rispettivamente il Sal 8,3, che mette l’accento sui piccoli e porta dunque l’idea che insieme alla folla siano i fanciulli ad acclamare, e Abacuc 2,11, secondo cui gridano le pietre delle case e delle città costruite sul sangue e l’ingiustizia.
Non rimarremo dunque senza quell’annuncio: perché se non parliamo noi gridano “i piccoli” e se li facciamo tacere grideranno le pietre.