» Chiesa Cattolica Italiana » Documenti »  Documentazione
Minori, speranza solo per il futuro? (PG.Saviola)
Spunti di riflessione sul tema della Giornata

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/09


L’età in fiore fa spingere lo sguardo verso l’età matura ed anche oltre, perché l’uomo maturo di oggi, quello in età lavorativa, vede nei suoi figli il bastone della sua vecchiaia. Così ragionava l’Istat lo scorso anno: se oggi oltre i 65 anni, inizio dell’età pensionabile, si contano 11 milioni di italiani, fra una generazione essi saranno probabilmente 28 milioni. Chi farà da bastone della vecchiaia per tanti anziani? Non bastano i figli degli italiani che scarseggiano sempre di più; per fortuna c’è un supplemento di forze, i figli degli immigrati, età ancora in fiore, ma che non tarderà a maturare ed entrare nella fase lavorativa. Anche sotto questo profilo i minori stranieri sono risorsa e speranza per il futuro non soltanto dei loro genitori, ma della intera società italiana.
Essi però sono speranza e risorsa anche per l’oggi in cui viviamo. Un qualche esempio? Più di una scuola o almeno più di una classe sarebbe destinata a chiudere e a licenziare gli insegnanti se non vi si inserissero figli di immigrati; non pochi adolescenti stranieri prima dei 18 anni diventano colleghi di lavoro dei loro papà nei cantieri edili o nelle campagne; l’oratorio S. Luigi di Torino stava per chiudere quando è stato scoperto da gruppi di ragazzi multietnici, grazie ai quali l’oratorio ha ripreso vita a beneficio anche dei ragazzi torinesi.
Sono risorsa e speranza soprattutto all’interno delle loro famiglie, hanno infatti un influsso determinante nel dare stabilità alla famiglia e al suo progetto migratorio. Un terzo dei ricongiungimenti è costituito da minori; il che vuol dire che oltre trentamila famiglie ogni anno cessano di fare il conteggio alla rovescia per raggiungere in patria i loro figli lasciati in custodia a zii e nonni e si orientano sempre più a stabilirsi definitivamente in Italia. Anche le 72.472 nascite nel 2008 da genitori stranieri dicono chiaramente che queste famiglie hanno ormai deciso di piantare la tenda, probabilmente in via definitiva, nel nostro Paese, tanto più che questa tenda non è smontabile come quella dei beduini del deserto e prende forma di una casetta o un appartamento dignitoso, acquistato accendendo un mutuo che si estinguerà nel giro di vent’anni o qualcosa di più.
Ad essi si sono aggiunti altri 40.000 minori venuti a seguito di ricongiungimento. Tra nati in Italia e ricongiunti, il 2008 è stato l’anno in cui i minori, per la prima volta, sono aumentati di oltre 100 mila unità.
Gli alunni figli di genitori stranieri, nell’anno scolastico 2008/2009, sono saliti a 628.937 su un totale di 8.943.796 iscritti, con un’incidenza del 7%. L’aumento annuale è stato di 54.800 unità, pari a circa il 10%.
L’incidenza più elevata si registra nelle scuole elementari (8,3%) e, a livello regionale, in Emilia Romagna e in Umbria, dove viene superato il 12%. Di questi studenti, 1 ogni 6 è romeno, 1 ogni 7 albanese e 1 ogni 8 marocchino, ma si rileva di fatto una miriade di nazionalità, veramente un “mondo in classe”, come mettono in evidenza i progetti interculturali.
Inoltre questi figli in casa sollecitano con la loro stessa presenza tutta la famiglia ad aprirsi al resto del mondo; essi vivono il più della vita quotidiana fuori delle pareti domestiche, vi raccontano quanto succede per le strade, in piazza, a scuola. Portano in casa loro amici e compagni di scuola anche italiani, fanno i compiti e giocano assieme sotto gli occhi dei loro genitori, per i quali il mondo si allarga al di fuori dei pochi metri delle pareti domestiche; cominciano a tessere qualche relazione col mondo esterno, diventa più agevole per loro entrare in qualche negozio, presentarsi a qualche ufficio. Senza esserne consapevoli questi ragazzi aprono ai loro familiari la via maestra per l’integrazione, da percorrere a passo forse un po’ lento ma sicuro. Non troppo lento se si tiene conto che i genitori partecipano ai periodici incontri a scuola, prendono contatto con gli insegnanti, non temono di rompere il ghiaccio con i genitori italiani perché ormai a tavola l’ora di pranzo è diventata una lezione di italiano; mentre infatti essi parlano ai figli nella lingua di origine, i figli, veri mediatori culturali e linguistici, rispondono non di rado in italiano con una venatura del dialetto locale.
Cosa curiosa: è capitato che il catechismo bilingue albanese-italiano, stampato in migliaia di copie a cura della Fondazione Migrantes, sia andato in mano a un alunno albanese non cattolico e di nessun altra religione, lo ha mostrato quasi con orgoglio in classe al suo catechista (è infatti d’accordo con i suoi genitori di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica), e ha chiesto a lui una qualche spiegazione supplementare su qualche parola o argomento. A casa si sedeva fra mamma e papà per spiegare che cosa diceva quello strano libretto che a sinistra era scritto, domanda e risposta, in albanese, a destra in italiano. Quel ragazzino di prima media era diventato il primo catechista dei genitori.
Ma c’è di più. E difficile che su creature di quell’età si sfoghi il bollore di un’antipatia e pregiudizio, di un poco eroico furore che certi italiani di poca genuina italianità riversano purtroppo con una certa frequenza in questa stagione sugli stranieri. Sto per dire che bambini, ragazzi e adolescenti che dal colore della pelle o da altri tratti del volto o del linguaggio mostrano di venire da lontano, ma per il resto in tutto simili ai nostri, hanno la capacità di sgonfiare queste montature, diventano - per così dire - invitanti ad assumere atteggiamenti meno prevenuti e acidi, più comprensivi e benevoli anche verso gli adulti. Diventano anche su questo piano benefici mediatori.
Naturalmente molto dipende dal tatto pedagogico, dalla finezza di interventi dei nostri operatori pastorali e socio-pastorali. Interventi nei confronti di questi piccoli stranieri, non tanto a parole con rimproveri e raccomandazioni a comportarsi bene (anche questi al momento giusto possono essere utili), quanto con gesti manifesti di simpatia e di accoglienza quando si incontrano per strada, quando per un qualunque motivo bussano ai nostri ambienti, quando vengono a giocare in oratorio. Egli avrà cura che non manchi a questi minori l’amicizia e il sostegno dei coetanei italiani, non solo i compagni di scuola e i vicini di casa, ma pure qualche gruppo parrocchiale impegnato, come il gruppo scout o di Azione cattolica.
Qualche anno fa è apparsa sul settimanale Migranti-press la simpatica notizia di un gruppo di ragazze di Pordenone che al sabato pomeriggio erano solite incontrarsi in una sala con le finestre che davano sulla strada; c’erano oltre ai momenti seri di formazione anche momenti di canto, di ballo, di risa e clamori ad alta quota, che rimanevano chiusi tra le quattro mura. Passa una ragazza albanese, rimane incuriosita, spia dalla finestra e da dentro viene intravista. Escono in due e non sono occorsi troppi complimenti perché l’albanese seguisse le due italiane che la introdussero nella sala. Ci volle poco perché nascesse un’amicizia vera, tanto che il sabato seguente la ragazza non si fermò alla finestra, ma infilò la porta e da quel momento si sentì a suo agio nel gruppo come se ne avesse da sempre fatto parte. Seguiva con interesse anche la catechesi, novità assoluta per lei e talvolta anche un po’ oscura, ma qualcuna le stava sempre vicino per bisbigliarle qualche spiegazione. Dopo qualche mese al termine della lezione sul battesimo confidò alla catechista: “Voglio battezzarmi anch’io, lo dirò ai genitori” e intanto più o meno sotto segreto lo confidò a tutte le amiche. Fu memorabile la veglia pasquale dell’anno seguente, quando la giovanissima catecumena si accostò al fonte battesimale. Tripudio dei fedeli e ancor più delle amiche che, a partire dal loro chiasso indiavolato di quel sabato pomeriggio, le erano state tanto vicino e in qualche modo le avevano trasmesso la loro fede.
Nulla di eccezionale, solo vita autentica e autentica manifestazione della propria fede, possibile anche all’età spensierata di quindici anni; possibile anche prima. E non dimenticherò mai il compiacimento di quei due genitori che avevano suggerito al loro bambino, compagno di scuola di un latino-americano orfano di papà, di invitarlo alla festa della sua prima comunione, pranzo compreso. Il compiacimento di vedere il loro figlioletto sedersi a fianco del piccolo amico e dirgli: “Ora ti spiego che cos’è la prima comunione”. Anche in questo modo si può essere piccoli apostoli.
Viene spontaneo pensare alla preghiera di Gesù: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascoste queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25).
Il piccolo crescente esercito dei minori stranieri può suscitare la fantasia e l’entusiasmo per chi prende sul serio questa preghiera-sfogo del Signore e, se è un po’ avanti con l’età, ricorda la lamentazione che si cantava con una certa solennità al “Mattutino delle tenebre” del Venerdì Santo: “Parvuli petierunt panem et non erat qui frangeret eis - I bambini chiedevano il pane e non c’era chi lo spezzasse loro” (Lam 4, 4). Non il solo pane da masticare con i denti. E poi inquietante il pensiero che se manca chi dovrebbe dare il pane vero a questi piccoli, non mancherà chi al posto del pane gli darà loro una pietra o, peggio ancora, una serpe (cf. Mt 7, 9-10), mentre è esaltante il pensiero che anche Gesù da piccolo subì, come milioni di piccoli dei nostri tempi, la fuga in terra straniera e la sorte del rifugiato. La spada di Erode non è stata ancora rimessa nel fodero.
Coniugando la predilezione di Gesù per i piccoli con la sua promessa “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25, 35), non c’è dubbio che preferisca anche chi prende a cuore la sorte dei minori in condizione di migranti e di rifugiati.