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Non più extracomunitari ma concittadini (G.Gnesotto)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/08


  L’affermazione della lettera agli Efesini 2,19 è sorprendente: “Voi non siete più stranieri né ospiti”. La sorpresa nasce dal fatto che l’espressione sembra decisamente in contraddizione con tante altre frasi della Bibbia, che almeno all’apparenza dicono il contrario, perché parlano dell’uomo come di uno straniero sulla terra. è così anche nella famosa Lettera a Diogneto, in cui si dice che i cristiani “abitano ciascuno la propria patria, ma come stranieri residenti”. Oppure si prenda il termine pároikoi, che richiama un’idea che oggi abbiamo perduto, quella di “parrocchia” come di “condizione straniera”, nel senso di un gruppo di persone che qui sono straniere perché sanno che la patria vera è quella celeste, verso la quale tutta la comunità cristiana è in cammino.

In tale contesto, comprendiamo che il termine “straniero” indica una condizione esistenziale e non geografica.

Allora, di chi parla il testo della Lettera agli Efesini quando dice che adesso “non siete più stranieri, né ospiti”? Parla di tutti indistintamente, sia nei confronti di Dio che nei reciproci rapporti. Nei confronti di Dio, perché è riconosciuto come Padre; nei rapporti reciproci perché siamo tutti fratelli. Per i cristiani, in ragione della rivelazione di Dio come Padre, dovrebbe dunque aprirsi una nuova prospettiva e un nuovo stile di vita, diametralmente diverso dal tempo in cui per la natura umana eravamo “separati e nemici”, come ricorda la Lettera ai Colossesi (1,21).

è attraverso l’evento decisivo della croce di Cristo, che separa nettamente il passato dal presente, che i cristiani sono chiamati a vivere una particolare accoglienza reciproca, che va al di là della semplice ospitalità. Cristo stesso ormai oppone la comunione alla lontananza, l’accoglienza all’emarginazione, la familiarità all’estraniamento, la vicinanza all’esclusione.

Comprendiamo, dunque, che l’affermazione della lettera agli Efesini 2,19 stimola a riflettere sul significato e sul valore di temi come terra, patria e cittadinanza, soprattutto nell’ottica della vocazione del cristiano inserito in una società sempre più caratterizzata dagli spostamenti dei popoli, con la conseguente globalizzazione, che tocca l’economia mondiale, ma anche l’impegno socio–politico, la dimensione culturale e, in definitiva, i rapporti interpersonali.

Le parole di San Paolo, dunque, da cui è tratto il motto della Giornata Mondiale delle Migrazioni 2009, pur collocate in un determinato contesto storico e rivolte ad una Chiesa particolare, travalicano il tempo, perché sono una Parola sempre viva, attuale; una spada a doppio taglio che colpisce e risana non solo il corpo ecclesiale, ma anche quello sociale. In tale prospettiva le parole di San Paolo, poste come luce che illumina la grande realtà degli immigrati presenti in Italia, sono indicative sia per la Chiesa che per la società civile.

Non più extracomunitari

Prendiamo ad esempio il termine “extracomunitario” con il quale ci si riferisce spesso all’immigrato straniero che vive in Italia. Non manca articolo di giornale che non usi questa parola; la si sente nei dibattiti televisivi, nelle conferenze, nei discorsi della gente. Ed anche coloro che di fatto sono “comunitari” vengono spesso gettati indistintamente tra gli “extracomunitari”.

Niente di più stridente per i seguenti motivi, oltre a quelli su accennati.

Il termine “extracomunitario” era stato coniato quando ancora l’Europa era Comunità europea, e dunque poteva essere tecnicamente corretto per indicare lo status di cittadino di Paesi Terzi, non appartenente di fatto alla Comunità Europea. Ma quando si è passati dalla Comunità all’Unione Europea il termine ha perso inesorabilmente il suo significato, non avendo più l’oggetto di riferimento. La dizione corretta dovrebbe ora essere “Cittadino non appartenente all’Unione Europea”.

Va inoltre ricordato che nel gergo comune il termine “extracomunitario” è stato fin da subito usato in modo improprio, intercambiabile con “africano” e “vu’ cumprà”. La riprova, ormai obsoleta, è che i cittadini degli Stati Uniti o della Svizzera difficilmente vengono percepiti come “extracomunitari”.

Ma basterebbe riflettere solo un attimo per accorgersi che la parola nel suo significato letterale indica chi è posto “fuori dalla comunità”, o comunque escluso, sebbene collocato al suo interno. Suscita l’immagine di chi è estraneo alla cerchia di persone che si conoscono e di cui si ha fiducia.

In quest’ultima considerazione non è difficile scorgere un controsenso madornale quando la parola viene usata negli ambienti ecclesiali, laddove la Chiesa è una famiglia che abbraccia tutti e non esclude nessuno, e che si riconosce come Comunità di battezzati, qualsiasi sia la provenienza di chi ha abbracciato la fede di Cristo, vale a dire la maggioranza degli immigrati presenti in Italia.

Si comprende allora facilmente perché gli immigrati che sono in Italia non vogliono sentirsi chiamare “extracomunitari”: le parole, oltre che trasportare idee e concetti, suscitano sentimenti, orientano modi di percepire e costruire la realtà.

La saggezza popolare ci ha lasciato il detto che “è meglio aver buon nome, che molte ricchezze”. Rivolto al caso nostro, risulta che “extracomunitario” è un cattivo nome, che impoverisce non solo l’immigrato, ma anche la comunità civile ed ecclesiale, perché infligge un colpo pesante al cammino della piena cittadinanza civile e intorbida la chiara realtà cristiana della “cittadinanza dei figli di Dio”.

Concittadini

Ogni Regione italiana ha oggi una componente più o meno consistente di persone che provengono da altre Nazioni. Sono persone che portano altre culture e tradizioni, professano religioni diverse.

In un panorama molto variegato e differenziato, l’Italia oggi si presenta con una “vocazione” plurietnica, pluriculturale e plurireligiosa.

L’anno 1973 mostra per la prima volta il saldo positivo degli ingressi in Italia rispetto agli espatrii, sicché è da quell’anno che si parla dell’Italia come Paese di emigrazione e di immigrazione. Oggi siamo come in una sorta di “laboratorio” di pluralismo, in cui si sperimenta la possibilità della convivenza nei suoi aspetti positivi e problematici, sia nell’ambito della stabilità istituzionale che della sicurezza. Parole come “straniero”, “extracomunitario”, “irregolare”, “clandestino”, suonano sempre più inadeguate, così come appare sempre più rispondente agli attuali contesti una riforma della legge sulla cittadinanza, come abbiamo avuto modo di spiegare tante volte.

Siamo di fronte ad una scommessa che andrebbe posta tra le priorità delle cosiddette sfide del nostro tempo, quelle che determinano il futuro: la capacità di pensare e costruire una nuova “società coesa”, fondata non tanto sulla difesa di culture contrapposte, quanto piuttosto sull’incontro di culture, favorendone la relazione, lo scambio, il rapporto.

Per scongiurare lo scontro è necessario trovare o costruire le vie dell’incontro.

L’incontro di culture

L’incontro tra culture si fonda sul presupposto che nessuna cultura contiene per intero i valori che danno senso alla vita. In tal modo si rende possibile e utile il dialogo, la comune disponibilità a superare i propri limiti.

Allo stesso tempo, il valore universale della persona rinviene nel fondamento di una comune cultura e si riconosce nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (New York, 1948), espressione di valori che hanno raccolto il generale consenso.

Ci è chiesta una “disponibilità critica allo scambio”. E questo, a ben vedere, sta avvenendo in maniera alquanto pacifica, se solo si pensa che nei secoli passati l’incontro tra culture avveniva attraverso lo scontro cruento di guerre e invasioni. Oggi questo avviene attraverso la via generalmente pacifica, anche se traumatica, dell’incontro di persone portate dai flussi migratori.

è la caratteristica del nostro tempo: da società monoculturali, a pluriculturali, a interculturali.

Tenere aperto un dialogo significa costruire un modo di convivenza in cui il principio è il rispetto reciproco, la conoscenza delle diverse caratteristiche di lingua, cultura e costume. Comporta la disponibilità a conoscere e a farsi conoscere, nel rispetto dell’identità di ciascuno; comporta un’efficace azione di informazione e di formazione, l’impegno a coltivare i valori comuni, purificare la memoria dalle incomprensioni del passato, imparando anche dagli errori. Senza lasciarsi scoraggiare dal fatto che l’incontro e il confronto non è mai privo di incognite e di difficoltà.

Nelle scuole italiane questa convivenza e interazione culturale è in atto da molto tempo. I nostri ragazzi dispongono di un’esperienza diretta della multiculturalità e di una sensibilità verso i problemi degli altri, impensabili anche per chi è passato attraverso la rivoluzione culturale del ’68.

La regola d’oro

In queste dinamiche, nelle dinamiche proprie delle società plurietniche, pluriculturali e plurireligiose, il fattore religioso ha un ruolo importante, per nulla residuale. è uno dei fattori che entra nella costruzione dell’identità individuale e collettiva, e dunque fa parte delle dinamiche proprie dei percorsi di integrazione.

Tutte le religioni, quelle che possono autenticamente dirsi tali, hanno un centro che è illuminante, come un dia mante che sprigiona luce: è la cosiddetta “regola d’oro” formulata nella proposizione: “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso”, e che trova nel cristianesimo il positivo assioma: “Fa agli altri ciò che vuoi sia fatto a te stesso”. E con questo giungiamo al pieno superamento della stranierità.

  Chi è un clandestino

 Ultimamente se ne parla tanto e in maniera tanto disinvolta, che sembra superfluo domandarsi chi è un clandestino. Purtroppo però, da quando qualcuno ha innescato l’ingiusto e deleterio parallelismo tra “clandestino” e “criminale”, ci si rende conto che la parola è stata svuotata del suo significato e utilizzata più che altro per gli stati d’animo che scatena. Un po’ come succede per “extracomunitario”.

La parola “clandestino” ha l’effetto di mettere in guardia, dare un volto a paure irrazionali, dare la colpa a misfatti che si pensa non appartengano alla nostra civiltà.

Ma se un “clandestino” (più correttamente: un “immigrato senza regolare permesso di soggiorno”) lo incontri per davvero, il facile abbinamento con “criminale” non torna più.

Quello che erroneamente si chiama “clandestino” è ad esempio chi lavora in nero, perché senza regolare permesso di soggiorno, nelle case e nelle fabbriche degli italiani. Oppure è un profugo, che affronta il mare e mette in conto di rimanere in balia delle onde e perdere la vita, pur di sfuggire alla guerra e alla fame.

Vanno senz’altro trovate delle soluzioni nel rispetto della dignità delle persone, anche se il fenomeno della clandestinità ha sempre accompagnato la storia delle migrazioni. Tanti nostri italiani lo sono stati negli Stati Uniti e lo sono ancora, e questo non ha impedito loro di contribuire grandemente al Paese che li ha accolti e al Paese da cui sono partiti.