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Il tempo: libero? (C.Simonelli)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 4/08


   

Questa nostra “cosa” nasce dall’idea di perlustrare il pianeta “tempo libero” come possibile luogo di incontro, di scambio, di vita buona. Questa prospettiva ci sembra una cosa reale: e tuttavia ci rendiamo conto che per trattare dignitosamente quel particolare aspetto, necessitiamo almeno di una mappa concettuale più ampia, che indichi i principali nodi ad essa connessi. Si tratterà solo di aprire delle finestre sui singoli aspetti, ma questo, riteniamo, può permetterci poi di trattare un singolo punto di vista senza confonderlo con l’insieme.

Un tempo, due tempi, la metà di un tempo

Un frutto del Concilio è certamente una maggiore familiarità di tutti con la Scrittura e con i principali temi che l’attraversano. Per questo iniziamo da una prospettiva biblica che rappresenta certo una piattaforma largamente condivisa, che volentieri ripercorriamo ora sinteticamente. Nella Scrittura, sia ebraica che neotestamentaria, ci sono diverse parole per indicare il “tempo” ed anche orizzonti diversi nella sua comprensione: non è uguale certo il modulo storico/profetico, interessato ai fatti della storia, il modulo sapienziale, attento alla creazione e alla vita degli individui, e il modulo apocalittico, teso a mostrare che Dio ha in serbo e alla fine manifesterà una diversa declinazione della storia.

Ma su una cosa c’è una fondamentale consonanza: il “tempo opportuno”, l’ora decisiva è una qualità dell’incontro, è una densità dello scorrere continuo che rende quel momento diverso da tutti gli altri, proprio perché è “il momento opportuno”, il “tempo della salvezza”.  Questa densità, che in ebraico è resa dal termine ‘et, è espressa in greco da kairós: su basi diverse da quelle delle lingue semitiche, questo tempo propizio per qualcosa si staglia sul continuum indifferenziato del chronos. Questo vocabolario è a tutti familiare e ben a ragione: forse infatti, ancora di più della differenza fra un “tempo ciclico” di perpetuo ritorno ed un “tempo lineare” contrassegnato dall’esito salvifico offerto da Dio, è questa idea di un kairós come luogo dell’incontro con Dio a rappresentare una costante biblica, capace di raccogliere gli schemi diversificati già menzionati. Ed è questa nozione la più significativa per affrontare anche la riflessione filosofica ed antropologico culturale sul tempo come fenomeno umano. Ed è sempre questa concezione che consente un suo ricordo “puntuale”, una altra “contrazione” del tempo continuo che è quella della preghiera, sia essa espressa nella forma “ciclica” della settimana (sabato/ domenica) e dell’anno (pesach/pasqua), sia nella forma interiore e personale, come ben mostra Heschel: «Buio è il mondo per me, nonostante tutte le sue città e stelle. Se non ci fosse la certezza che Dio ascolta il nostro pianto, chi potrebbe resistere a tanta miseria, a così grande insensibilità? Il mistero e la grandezza della premura di Dio infinito per l’uomo finito è la prospettiva fondamentale della tradizione biblica (...). La preghiera è più di un’implorazione della misericordia di Dio. É più di un’improvvisazione spirituale. La preghiera è la condensazione dell’anima»1.

Il tempo e l’animo

É frequente iniziare una riflessione sul tempo citando S. Agostino, che nelle Confessioni (XI,14,37) afferma. «cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so. Se volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so». Altrettanto famosa è l’altra sua espressione, tratta dallo stesso contesto, che parla del tempo come di una distentio animi, una misura realizzata dall’animo umano. Agostino, che rilegge così Aristotele e Plotino2, è giustamente anche da questo punto di vista indicato come “padre dell’Occidente”. Infatti molti suoi temi, rimasti un po’ sottotono, sono vicini a quanto si sviluppa poi soprattutto nella modernità, in cui l’emergere del soggetto viene esplicitato in tutti i campi del sapere, comprese le scienze biofisiche. Ciò che risulta con forza, per quanto attiene al nostro tema, è l’idea di un tempo come connotato dall’umano: da Kant, per il quale tempo e spazio sono schematismi sulla base dei quali ordiniamo quanto conosciamo, a Bergson che distingue un tempo spazializzato della meccanica (come quello delle lancette dell’orologio) e un tempo vissuto come “durata”, al pensiero neoebraico per il quale, come in Levinas, il tempo è spazio di relazione: «il tempo è la relazione stessa del soggetto con altri»3.

In questo orizzonte si colloca senza forzatura ogni ulteriore specificazione: sia quella che, con la sociologia e la scienza delle religioni, vede nel gioco, nella festa e nel rito la possibilità stessa di significazione del tempo4, sia quella che, con l’antropologia culturale, rivendica per diverse “culture”, altrettanto diversificate concezioni del tempo, dei ritmi e dei riti.

I tempi e le culture

L’aspetto culturale della questione è particolarmente importante nel contesto pluriculturale in cui di fatto viviamo e di particolare significato in riferimento all’aspetto migratorio di tale multiculturalità, che è interesse peculiare della rivista. In qualche modo, le modalità bibliche e la perlustrazione della filosofia occidentale ci segnalavano già modi diversi di concepire il tempo. Oggi tuttavia, mentre ci troviamo di fatto inseriti, nostro malgrado, in un contesto dai tempi estremamente regolati e tecnicizzati, vediamo come in quella stretta griglia si inseriscano giocoforza anche uomini e donne con concezione del tempo profondamente diverse.

Detto così, è tanto ovvio quanto banale. E tuttavia, siamo tutti, purtroppo, facili testimoni di come modi diversi di considerare, ad esempio, i ritmi lavoro/riposo o anche cibo/lavoro vengano spesso bollati semplicemente come “pigri”, fannulloni, e via dicendo. Consideriamo, solo come minima esemplificazione, il caso delle culture Bantu e Rom.

Mi riferisco, quanto alla prima, ad un contributo di alcuni anni fa, di recente ripresentato attraverso un lavoro di tesi in Scienze Religiose: «Tipica della cultura Bantu è anche la concezione del tempo (...) Il tempo vero e proprio, per la mentalità Bantu, è il passato, chiamato zamami (macrotempo) e infatti questo passato include al suo interno il presente. Il futuro invece è quasi inesistente, per il semplice fatto che non è ancora avvenuto. Gli avvenimenti che non si verificano non possono costituire il tempo. Tuttavia certi fatti del futuro sono prevedibili ed inevitabili, ad esempio quelli che fanno parte del ritmo della natura, come la previsione del periodo delle piogge; questi costituiscono un tempo potenziale, contrapposto al reale, trattandosi di un tempo breve, che è la semplice estensione del tempo presente. Quello invece che non è ancora accaduto, ed è molto improbabile che accada - o quanto meno non prevedibile -, entra nella categoria di non-tempo.

La concezione Bantu conosce anche il microtempo, chiamata sasa; questo è in sé una dimensione completa del tempo, e indica un presente breve e dinamico più un passato vissuto o esperimentato. Lo zamani rimane però il vero tempo, al centro del quale gravita il tempo attuale, quello storico, che ha in sé il proprio passato, il proprio presente ed il proprio futuro. Inoltre zamani e sasa sono inseparabili, il secondo è inglobato nel primo ed in esso acquisisce il suo significato»5.

Per quanto riguarda le culture Rom, al di là dell’esperienza, facciamo riferimento ad un contributo in merito di Reyners, direttore di Etude Tziganes, pubblicato su tale rivista ma presentato anche in forma sintetica ad un Convegno del CCCT6, cui facciamo riferimento:

«La nozione di tempo è molto  spesso fonte di ambiguità e di quiproquo, anzi di conflitto tra Rom e Gagè. Per riflesso atavico o per etnocentrismo, questi ultimi generalmente non sono distanti dal pensare che i Rom, i Manousches, i Gitani, i Camminanti non rispettino assolutamente il tempo e, pertanto, i doveri e gli obblighi che vi sono connessi. A partire da questa posizione, non è molta la distanza, purtroppo spesso varcata, dal denunciare il carattere rudimentale della percezione culturale del tempo presso gli Zingari.

Ora, come ogni società umana, i Rom non conoscono il - o almeno - un tempo la cui percezione individuale e collettiva non sia fondata su una lunga esperienza vissuta e condivisa. (...) Sul piano antropologico, riconosciamo che la nozione di tempo è legata a una percezione della durata, alle rappresentazioni di cui è fatta oggetto ed alla sua gestione. La percezione del tempo è legata ad una triplice capacità di collocare gli eventi uno in rapporto all’altro, di valutare la durata che intercorre tra due momenti, di prevedere un futuro rispetto ad un presente. Tale capacità può esprimersi sia nella forma di una concezione lineare e cumulativa della durata (le tappe di una vita), sia nella forma di una concezione ciclica e non cumulativa (la successione delle stagioni ad esempio). Queste due concezioni possono combinarsi.

Così noi possiamo evidenziare presso questi ultimi innanzitutto una concezione lineare del tempo, legata ad una percezione culturalmente orientata della vita degli individui: il neonato, il bambino, l’adulto, il vecchio, il defunto. La concezione ciclica del tempo si sostiene diversamente. L’anno è punteggiato di avvenimenti che lo regolano. Gli uni sono ricorrenti (Ognissanti, le Palme, ma anche San Giorgio, i pellegrinaggi, i tempi dei convegni, ecc, secondo i gruppi). Gli altri sono inevitabili, benché sottoposti all’incertezza (le feste di matrimonio, i battesimi, i decessi).

La concezione ciclica del tempo è legata ad un’organizzazione della vita quotidiana (il momento di alzarsi al mattino, il momento delle attività domestiche della donna, il momento della ricerca del sostentamento, il momento del pasto, il momento della socialità, il momento del riposo) che varia secondo le età ed il sesso, in funzione di una divisione del lavoro e delle responsabilità».

Ma questo tempo ciclico dell’organizzazione del lavoro e in tensione costante con un tempo che potremmo chiamare dell’attesa, in cui si coltiva uno stato di prontezza per quanto può inaspettatamente presentarsi. Questo tempo dell’attesa connota in modo forte l’appartenenza culturale, predomina sul tempo ciclico del sostentamento e “manda fuori dai gangheri” chi appartiene ad altra cultura, che interpreta quel tempo come “vuoto” invece che come “concavo”. è l’esperienza frequente, ad esempio, del doloroso conflitto che si crea attorno al funerale fra Rom che svolgono un’attività lavorativa alla maniera non-Rom e Rom che si organizzano autonomamente. L’impossibilità o comunque la difficoltà dei primi a partecipare appieno alla sospensione di ogni attività che accompagna “i giorni del funerale” fa soffrire questi stessi e li fa giudicare sinceramente barbari dagli altri. Diamo ancora la parola a Reyners: «In generale, Rom/Sinti privilegiano le esigenze della loro società (sul piano familiare ed economico, prima di tutto) rispetto a quelle della società maggioritaria. Ed è a questo riguardo che il disprezzo, anzi il conflitto fra le due culture è maggiore e più evidente».

Il tempo è galantuomo. E il lavoro?

Non è dunque scontato che il “tempo libero” e la sua relazione con il resto del tempo, potenzialmente quello “occupato” o lavorativo, siano compresi in modo sufficientemente condivisibile. Non è scontato, ma certo non un dialogo, una comunicazione sono possibili e sono tanto migliori quanto più c’è consapevolezza che non sono immediati, che è opportuno realizzarli con qualche accortezza.

Ma non è questo l’unico punto da considerare: uguali, simili o diverse che siano le concezioni del lavoro e del riposo, resta da considerare quale lavoro di fatto una persona, specie se immigrata, può esercitare, a che condizioni e in che condizioni, ad esempio, di salario e di sicurezza. Su questo aspetto chiunque sia presente al fenomeno migratorio è sicuramente avvertito ed esperto, per cui non è necessario dilungarsi molto. Iniziando dalla difficoltà rappresentata dagli orari di lavoro ed anche dai tempi necessari per gli spostamenti, alle condizioni ingiuste ed agli impieghi “in nero”, che emergono drammaticamente, come epifenomeno di un iceberg sommerso dalle vaste proporzioni, in occasione di incidenti sul lavoro, purtroppo frequenti. Ma proseguendo, anche, a comprendere la situazione drammatica di chi non trova alloggio o lo trova in tuguri a prezzi iugulatori, di chi fa fatica ad avere il ricongiungimento familiare - tempo libero.... ma senza la propria famiglia - di chi pena per il rinnovo del permesso di soggiorno. E certo non ci è estraneo il pensiero di quel popolo immenso dei barconi, uomini donne bambini in cerca di speranza, per il cui grido molte volte non abbiamo orecchi e per i cui corpi non abbiamo spazi: ma, per dirla col linguaggio biblico, “la loro causa è conservata presso Dio”.

Il tempo e la strada

Infine, in una mappatura delle questioni connesse al tempo, non possiamo esimerci dal ricordare almeno due condizioni emblematiche della sua dilatazione, anche se molto diverse tra loro: la malattia e la vita del clochard.

Quanto alla prima condizione, ognuno può andare alla propria esperienza personale, se non di malattia, quanto meno della presenza accanto ad una persona cara malata gravemente: intorno il mondo si muove, anzi corre, e in quel letto il tempo scorre diversamente, è sospeso, spesso aperto a quella cifra assoluta della vita stessa che è la morte.

Quanto alla seconda, è forse più agevole fare riferimento alla letteratura, che consente di dire in breve spazio un intero mondo. Ognuno saprà poi applicarlo, per dir così, al telegiornale e alle coperte dei poveri distrutte, di cui si sente dire. Richiamiamo dunque tutto il contesto attraverso una citazione di Zorro, di Margaret Mazzantini:

«Non m’annoio, cammino. A Zorro gli piace camminare. Dove vai Zorro? Vado dove vado. Guardo la gente in faccia, ho tempo e posso permettermelo. E un lusso.(...). Oggi mi prendo la libera, la mia giornata da uccello. Guardo il cielo. Certo capace ci capita pure qualche antenna, satellitari, parabole, telefonia, pazienza. Il cielo di città mi piace perché puzza di basso, di uomini. Il cielo di campagna invece mi fa paura (...). C’è un regalo che ti fa la strada: ti regala il tempo. Ti sembra un regalo brutto, solo noia, ma non è vero. Perché se tu alla testa gli dai il tempo, quella lo moltiplica (...). Io ho tempo»7.

Non a caso la scrittrice, che ha raccolto e restituito la vicenda, l’ha sottotitolata “un eremita sul marciapiede”: molte delle cose che vi sono narrate le potremmo prendere in prestito per parlare della vita monastica o del sabato biblico. Non si tratta, però, di romanzare il dolore del mondo, ma di imparare a vederlo con occhi diversi. Così lasciamo a Zorro l’onere della glossa finale alla nostra mappa:

«Per me la vita è un giorno, uno solo, dall’alba al tramonto, e amen»8.

 

 

 

1 Abraham Joschua Heschel, Il canto della libertà, Qiqaion, Magnano (BI) 1999, 95-96

2 “Se è vero che nella natura delle cose soltanto l’anima o l’intelletto che è nell’anima hanno la capacità di numerare, risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella dell’anima” (Aristotele, Fisica, IV); “Solo impropriamente si dice che i tempi sono tre, passato, presente e futuro, ma più corretto sarebbe dire che i tempi sono tre in questo senso: presente di ciò che è passato,  presente di ciò che è presente e presente di ciò che è futuro. Sì, questi tre sono in un certo senso nell’anima e non vedo come possano essere altrove: il presente di ciò che è passato è la memoria, di ciò che è presente la percezione, di ciò che è futuro l’aspettativa” (Plotino, Enneadi III,7)

3 Emmanuel Levinas, Il tempo e l’altro, Il melangolo, Genova 1997,17. Cfr. Roberto Vinco, Che cos’è il tempo? Spunti per una riflessione storico-filosofica, in “Esperienza e teologia” 10/11 (2000), 69-78; Giuseppe Accordini, Chronos e kairos. Il tempo è la sostanza di cui sono fatto, Ibidem, 79-90

4 “Al gesto dell’accumulazione lineare tipico della logica produttiva si affianca quello circolare della danza e della festa, della fantasia produttiva, cioè della logica simbolica, dossologica e celebrativa. La verità del mondo non può essere solo logicamente fondata, né positivisticamente decostruita e ricostruita, ma deve essere anche di continuo dossologicamente riabbracciata e riaccolta” (G. Accordini, La festa perduta e ritrovata. Antropologia della festa in prospettiva teologica, in “Esperienza e teologia” 20/2005, 33)

5 Lùcia des Dores Bernardo, Inculturazione e vita consacrata nell’Africa Bantu, Ist. Sup. Sc. Rel S. Pietro Martire, Verona 2008, che si riferisce qui lo studio di J.Mbiti, African religions and philosophy, Heinemann, London 1974

6 Acronimo di Comité Catholique International pour les Tziganes: il Convegno si è svolto a Iesolo (VE) nel 1999

7 Margaret Mazzantini, Zorro. Un eremita sul marciapiede, Mondadori, Milano 2004, 17; 19; 53

8 Ibidem, quarta di copertina.