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Il concetto di tempo tra religione e religiosità (D.Licata)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 4/08


 

Il mito, il passato e le “sopravvenienze”

Se concordiamo che per “religione spontanea” si deve considerare quella che nasce dal e nel popolo a seguito dei suoi problemi esistenziali e come risposta alle tante situazioni in cui il male cerca di impossessarsi delle loro anime, è chiaro che essa ha costituito, lungo il corso dei secoli, una sorta di rifugio per accettare le situazioni di degrado e povertà e per continuare ad andare avanti. Spesso, però, l’atteggiamento di fronte ad un problema può essere diverso: l’ostacolo può essere affrontato di petto oppure può essere raggirato. Ed è proprio quest’ultimo comportamento quello che è più facilmente riscontrabile nel popolo ed è soprattutto a questo che è legata la funzione della religiosità popolare. L’uomo si affida a quel piano che E. De Martino ha definito della metastoria e in esso recupera il senso e il significato delle proprie azioni, della propria vita, della sofferenza patita, delle ingiustizie subite. Il ricorso alla metastoria è il ricorso al mito, al rito, alla religione, ma è soprattutto il primo di questi tre elementi ad avere un ruolo fondamentale. Attraverso il mito, la storia viene ad essere risignificata e così si aprono davanti agli occhi speranze di un futuro migliore e certezze che in tutto quello che sta accadendo, c’è un senso. Dire mito significa accettare una cognizione del tempo del tutto particolare. Il tempo del mito è un tempo volto prettamente al passato; si guarda indietro per dare significato all’oggi e si tende a ripetere i comportamenti di quelli che sono venuti prima di noi perché si ha la sicurezza che essi sono sopravvissuti a quella determinata situazione comportandosi in un certo modo. Ed è questo stesso modo che si deve imitare in una situazione che si presenta con le medesime caratteristiche. Solo così si può avere qualche speranza di sopravvivere a nostra volta. Questa è la logica del mito seguita dalla religione del popolo spinta a rivolgersi al passato e a recuperare nell’oggi delle sopravvivenze per continuare ad andare avanti rifiutando sistematicamente di inaugurare situazioni nuove. E il senso del tempo ciclico quello che è sempre uguale a sé stesso, che ritorna sempre con le stesse caratteristiche e che deve essere affrontato sempre nello stesso modo.

Il tempo ciclico

Questa cognizione del tempo e di conseguenza anche della storia, è tipica degli strati marginali, dei ceti contadini, di coloro, cioè, che vivono condizionati dai ritmi della natura e delle stagioni. Dall’alba al tramonto, il passaggio dall’estate all’autunno e dall’inverno alla primavera, il trascorrere delle ore del giorno, segnano la vita del popolo della terra; il tempo scandisce, in una realtà così vissuta, tutti gli avvenimenti che sistematicamente si ripresentano sia nel ciclo dell’anno che nel ciclo della vita umana e la loro ripetizione obbedisce alla necessità che tutto ritorni sempre nello stesso modo e che nulla subisca cambiamenti. In questo modo il male, l’angoscia, la precarietà trovano risposta nel riferimento, certo e sicuro, di tecniche di protezione istituite nell’antico passato e che si fondano su una tradizione che è contemporaneamente magica e religiosa. A quanto detto fino ad ora possiamo far risalire la ripetizione, in diverse società arcaiche, di cicli festivi legati al cambio delle stagioni e che vedono come protagonisti della cerimonia festiva un particolare frutto (castagne, uva, grano, ecc.), un albero (quercia, abete, castagno, ecc.), un animale (serpente, toro, maiale, ecc.), un elemento della natura quale acqua, terra, fuoco, legno e via dicendo oppure una determinata ricorrenza calendariale: solstizi, Capodanno, la data di un particolare Santo, il patrono del luogo e via dicendo.

Evidente risulta essere il profondo sincretismo tra ciò che è pagano e ciò che è cristiano, tra l’universo mitico e quello rituale. Gli elementi si combinano tra loro dando vita alle situazioni più varie e interessanti.

Il tempo “cristiano”

L’avvento del Cristianesimo ha portato però ad uno sconvolgimento nella concezione del tempo così percepita; si è passati, cioè, da un tempo vissuto come ciclico e sempre uguale a se stesso ad un tempo concepito come linea retta che si sa da dove parte e si sa dove finisce, ma si è all’oscuro delle situazioni intermedie e di quando ci sarà l’avvento di questa fine. La salvezza è, in questo contesto, assicurata dalla rottura col passato e dal rifiuto della ciclicità della storia. Il tempo e la storia sono linee rette tendenti verso l’alto il cui punto iniziale è la Creazione che prosegue poi con l’Alleanza, l’avvento di Cristo in Terra, la sua Morte e Resurrezione e terminerà con l’Apocalisse. Si tratta, in questo caso, di una lettura prettamente escatologica: il fine è ultraterreno; la vita è concepita come un breve passaggio in attesa di gloria e giustizia eterna e ciò dà, a chi è sottoposto a grave oppressione e sfiducia, conforto e voglia di andare avanti nonostante tutto. Le feste, in questa concezione, finiscono coll’essere considerate momenti di celebrazione finalizzate a non dimenticare, a commemorare un evento, una persona, un Santo o un segno di Dio ed è come se, dopo il ricordo, affiorasse una nuova vitalità. Si guarda a ieri per innovare l’oggi e il domani e per non spezzare i vincoli con la propria storia che deve essere magistra vitae. Ecco le due diverse interpretazioni della festa legate a prima e dopo l’avvento del Cristianesimo. Oggi, e questa è la cosa più interessante, ci troviamo di fronte ad una molteplicità di situazioni che hanno mescolato le tante e diverse componenti sino a creare delle forme, diciamo spurie, le quali richiamano, allo stesso tempo, ad una coscienza prettamente religiosa, ma anche ad un sentimentalismo di derivazione incerta che ha il sapore del magico, dell’arcaico, del sacro, del profano. Parliamo dei tanti esempi di “sopravvivenze” culturali che continuano, nonostante il corso del tempo e i tanti cambiamenti sociali avvenuti, ad incidere profondamente in un particolare settore della società che è sì costituito principalmente dai settori più emarginati, ma che vede, oggi, anche la partecipazione, proprio a seguito dell’assottigliamento di quella discrasia tra ceti egemoni e ceti subordinati e l’affermazione delle tante classi intermedie, di tutte le altre sfere sociali.

A proposito delle “sopravvivenze”, ve ne sono alcune per sopprimere le quali la Chiesa ha dovuto lottare con forza. Non sempre, infatti, la religiosità popolare ha trovato il favore del clero. Parliamo non solo dei culti extra-liturgici come il recarsi da guaritori o maghi di cui oggi si è tornati a parlare tanto1, ma anche della “mania” del sacrificio del proprio corpo per la salvezza dell’anima. Non vogliamo in questa sede dare giudizi di valore; col termine “mania” intendiamo solamente l’estremizzazione di alcune pratiche come ad esempio i “vattienti” di Nocera Tirinese (Catanzaro), i penitenti di Guardia Sanframondi (Benevento) e le “parenti” del Martire ossia San Gennaro (Napoli). Forse, delle tre tradizioni citate solo l’ultima è realmente scomparsa. N. Caputo descrive le “parenti” nel seguente modo: «… si presentavano davanti alla cattedrale di buon mattino e se le porte del tempio tardavano ad aprirsi, ecco le prime “esortazioni” rivolte al santo: «Apri, vecchia faccia gialla, facci entrare!». Se poi, durante la cerimonia, la liquefazione del sangue non avveniva subito, giù imprecazioni a non finire sempre all’indirizzo di San Gennaro. E, con le imprecazioni, insulti sempre più pesanti e osceni»2.

Per quel che riguarda, invece, Nocera Tirinese si tratta di un rito del Venerdì Santo. Alcuni uomini chiamati “vattienti” o “battenti” vestiti di rosso e di nero si fermano davanti alla statua della Vergine e del Cristo deposto dalla croce e si percuotono le gambe con il cosiddetto “cardo” che portano tra le mani. Si tratta di un pezzo di sughero con infissi dei vetri. Il percuotere continuo e lo strofinio causa lesioni alle gambe sulle quali viene versato dell’aceto così da aumentare e renderne continuo il sanguinamento; in particolare, si tende a macchiare col sangue le strade, i muri delle chiese e delle case di amici e parenti.

Infine, nel piccolo comune di Benevento, ogni sette anni, in onore della Madonna Assunta, in agosto oppure in occasione di periodi di eccezionale siccità, centinaia di “incappucciati” si recano in processione salmodiando e colpendosi il petto con la “spugna”, un pezzo di sughero sul quale sono conficcati settanta spilloni. Il procedimento è lo stesso: spargere sangue per annullare sé stessi e avvicinarsi al sacro3; la dissoluzione dell’integrità fisica in cambio del favore di un Santo o della  Madonna. Nonostante queste spiegazioni e i diversi studi condotti a riguardo restano ancora vivi i tanti perché soprattutto considerando l’evoluzione della nostra società e i vari cambiamenti subiti. «Se ci si chiede (…) come mai le tradizioni sopravvivono in presenza di mutamenti tecnologici e socio-culturali - scrive L. Gallino - si possono avere varie risposte»4. Ma la risposta migliore - continua lo studioso - è che «… esse tornano utili al presente, contribuiscono in modo potente al suo stesso sviluppo e radicamento nell’insieme dell’organizzazione sociale, se non forse alla sua stessa sopravvivenza»5. Il fenomeno festivo ha bisogno di essere riletto sotto questa nuova luce, tenendo presenti i cambiamenti e le continuità del contesto popolare, le relazioni che intercorrono, oggi, tra la religione ufficiale e quella spontanea, gli attuali legami che caratterizzano la vita sociale, i nuovi status e i nuovi ruoli e, infine, ma non ultimo per importanza, il nuovo modo in cui vengono attualmente percepite le dimensioni dello spazio e del tempo.

Tempo feriale e tempo festivo

Aprendo il dizionario di G. Devoto e G. C. Oli alla parola festa si trova scritto: «s.f. Solennità di interesse collettivo, motivata da una ricorrenza religiosa, civile, famigliare, o da un fausto avvenimento»6. Qui viene sintetizzata tutta l’osticità che questo termine reca in sé quando si voglia definire con precisione il suo ambito di interesse. Spesso la parola festa è usata in modo generico per indicare la semplice vacanza, ossia la sospensione della normale routine lavorativa oppure con essa si richiama l’attenzione ad un momento particolare di solennità vissuta in privato, con la propria famiglia, il gruppo dei pari, la comunità sociale di appartenenza. Solitamente quando si dice festa si pensa soprattutto a momenti contrassegnati da gioia, confusione e baldoria: ma, allora, come giustificare espressioni del tipo “festa funebre”, “festa del Venerdì Santo”, “festa dei morti” o “festa del 2 novembre”? Ciò su cui tutti concordano è che, se si vuol parlare di festa, occorre considerare la fondamentale distinzione tra “tempo feriale” e “tempo festivo” a cui far corrispondere rispettivamente un “senso di realtà” ed un “senso di festività”. «Il tempo - scrive N. Elias nel suo celebre Saggio sul tempo - non è semplicemente una “idea” per così dire affiorata dal nulla nella testa degli individui. Esso è anche una istituzione sociale, diversa a seconda dello stato dello sviluppo sociale»7. E ancora, più avanti continua il suo discorso dicendo che: «Il tempo del calendario illustra in modo piuttosto semplice l’inserimento del singolo individuo in un mondo in cui vi sono molti altri uomini, un mondo sociale, e molte altre sequenze naturali, un universo naturale. Con l’ausilio del calendario possiamo determinare con precisione il momento in cui siamo entrati nella corrente dei processi naturali e sociali»8. Ciò detto è chiaro come questa adesione dell’individuo ad una costruzione, valida per tutti, di un “modello ripetibile di sequenze irripetibili di avvenimenti”9 crea una solidarietà nella partecipazione a ricorrenze dal significato particolare come la data di nascita o di morte, la data di una vittoria o di una sconfitta e così via. La vita di ognuno di noi è legata ad avvenimenti tristi e felici e, solitamente, finiscono coll’essere ricordati entrambi anche se per motivazioni diverse. Indagare quali siano queste motivazioni significa entrare nel cuore di ciascuno di noi e, quindi, nel cuore della comunità; significa comprendere una realtà che ha il sapore, allo stesso tempo, del “sacro” e del “profano” proprio come si può dire del luogo in cui la festa avviene e dello spazio che comprende.

Il tempo della festa è un tempo straordinario, che esce dalla quotidianità per distendersi in un piano che trascende l’individuo stesso ponendo quest’ultimo a contatto con il divino. Quando è festa diviene possibile tutto ciò che altrimenti non è e si è catapultati in un mondo che non è solito, ma che ha assunto caratteristiche “primigenie”, ossia di massima purezza e bellezza. Parlando della festa K. Kerényi afferma che: «Non erano uomini diversi quelli che compivano l’atto tramandato dalla tradizione, (…) ma al di fuori della sfera della festività essi non avrebbero agito mai come agivano. (…) Che si creda o meno, simili atti si compiono solo festivamente: solo su di un piano di esistenza umana diverso da quello quotidiano. La tradizione sostituisce soltanto la propria intima necessità di salire su quel piano. Ma se essa deve sostituire anche la festività, tutta la festa acquista qualche cosa di morto, di grottesco perfino, come i movimenti di chi danza per chi improvvisamente perde l’udito e non ode più la musica. E chi non ode la musica, non danza: senza senso di festività non vi è festa»10. Dunque le due caratteristiche essenziali della festa sono da un lato il senso di festività, dall’altro il suo essere collegata col tempo e, mentre la festività è il piano particolare a cui si accede celebrando una festa e nel quale è possibile fare azioni che mai si sarebbero potute compiere proprio come la musica che rende possibile movimenti che altrimenti risulterebbero privi di senso e ridicoli, il tempo ha una funzione di coordinamento e di integrazione.

La necessità di un calcolo preciso del tempo la si è avuta con la crescita o il declino dei vari Stati, con l’aumento della dimensione e del grado di integrazione dei loro popoli e territori, con l’ampliamento della sfera dei commerci e dell’industria. «Con la crescente urbanizzazione e commercializzazione, l’esigenza di sincronizzare il crescente numero delle attività umane e di disporre di un reticolo temporale uniformemente continuo come quadro di riferimento comune divenne sempre più impellente. Fu compito delle istanze centrali - mondane o sacerdotali - predisporre un simile reticolo e assicurare il suo funzionamento. Da ciò dipendevano il computo ordinato e ricorrente delle tasse, tributi, salari e l’assolvimento degli altri impegni e obblighi; e lo stesso vale per i giorni di festa in cui gli uomini si riposavano dalle fatiche del lavoro»11. Oggi, questa sensibilità per il tempo sembra essere talmente radicata in ciascuno di noi da costituire un elemento peculiare della nostra personalità al punto tale di non accorgerci che, in realtà, si tratta di una costruzione sociale o, per meglio dire, di un prodotto costruito dalla società stessa e di cui non si può più fare a meno. Uno dei motivi di ciò sono le tante esigenze maturate lungo il corso del tempo, con l’evoluzione della società. Ciascun individuo ha dovuto accordare le sue azioni con un numero sempre più grande di altri uomini a lui in qualche modo legati: parenti, amici, colleghi di lavoro e via dicendo; ha dovuto anche eseguire tutte le sue attività in un arco di tempo preventivamente programmato per riuscire a fare più cose in un’unica giornata. Quanto detto vale sia per attività biologico-naturali quali il dormire, il mangiare, il riposare che per le attività lavorative e sociali.

Tempo per e della religione

Stando così le cose, la religione ha finito coll’essere trasferita nella sfera del tempo libero, in quanto soggetta sempre più alla scelta individuale; attualmente, ad esempio, non è considerato “peccato” la mancata frequenza agli appuntamenti settimanali previsti/imposti a tutti i cattolici praticanti. Il problema è che la religione occupa, attualmente, solo una piccola percentuale dell’intero tempo libero che condivide con altri “coprotagonisti”, tra i quali lo sport, gli hobbies più vari e i mass media. Tra l’altro bisogna considerare che il lavoro ha completamente modificato la sua fisionomia originaria; esso si è sganciato dalla religione ed è divenuto estremamente serio ed organizzato. Detto in altri termini, la logica del tempo di lavoro ha finito coll’invadere la sfera del tempo libero.

«Così, sotto l’influenza della divisione tra tempo lavorativo e tempo libero, la religione è divenuta meno seria, ma più solenne: meno seria perché in una cultura dominata da valori quali la produttività materiale appartiene alla sfera del tempo libero, e più solenne perché, all’interno di questa sfera, stabilisce modelli e comportamenti etici in un ambiente sociale caratterizzato da scelte molteplici [e] cambiamenti continui (…)»12.

Nonostante tutte queste trasformazioni, questi assottigliamenti del tempo per sé e questo aumento della “frenesia del tempo”, vi è una costante: la percezione della futilità della vita. Da Orazio a Seneca, da M. Proust a T. Mann sino ad arrivare ad “Io speriamo che me la cavo” di M. D’Orta, la paura di vivere la propria esistenza sprecando il tempo che si ha a disposizione è una persistente caratteristica dell’uomo. Il senso di precarietà accompagna l’uomo dagli albori della sua esistenza tant’è che quando le circostanze storiche o le situazioni esistenziali inducono ad una crisi individuale o collettiva dei propri punti fermi quali i valori, le tradizioni, senso e significato della identità si finisce col perdere ogni sicurezza. Dubbio e incertezza portano ogni società a piegarsi su se stessa cercando rassicurazione e conforto. La società è, in momenti come questi, debole e vulnerabile. Tale inferiorità è avvertita maggiormente quando il senso di impotenza ha, come interlocutori, forze oggettivamente insuperabili e incontrollabili che preludono ad un completo sconvolgimento dell’ordine tradizionale esistente. E allora che la società ricorre ad attività mitico-rituali che tendono simbolicamente ad una catarsi totale e al ripristino della purezza originaria della collettività. In questo momento si ha il tempo della festa. «La festa è infatti il momento magico della rottura di un ordine intriso di male e il momento della catarsi verso un “meglio” auspicato e simbolicamente in essa fondato»13.

La festa

Fare festa è, per V. Lanternari, come guardarsi allo specchio per ritrovare la propria identità e le proprie garanzie storico-culturali attraverso le quali riaffermare un equilibrio perduto a causa delle circostanze di vita precarie. Fare festa è, contemporaneamente, conservazione e innovazione; si guarda al proprio passato, ma si pensa, allo stesso tempo, al proprio futuro. «Pur attraverso la fissità di certe strutture e di certe date calendariali, nella medesima festa, secondo lo sviluppo storico, mutano i contenuti e le valenze, talché risulta fuorviante ogni pretesa di individuare significati fissi e immobili nello sviluppo di ciascun complesso festivo»14. E se i significati mutano a non cambiare è il “sentimento della festa”, ossia il modo in cui ciascun uomo percepisce il tempo di festa.

Quest’ultima può essere caratterizzata da gioia o da tristezza allo stesso modo, dice K. Kerényi , in cui si ha una musica allegra o triste. «Ma nel più profondo del festivo vi è qualcosa che è più affine alla giocondità che alla malinconia. (...) E pure anche in fondo al sentimento di festa più giocondo e più lieto vi è qualche cosa di serio. (…) Ma non si tratta di una serietà che possa essere contrapposta quale contrasto al carattere del giuoco. Poiché la festività ammette il giuoco, ogni atto festivo è in certo qual modo giuoco: ma non è certo “giuoco” nel vero senso della parola…»15; la comprensione di questo elemento è estremamente difficile perché affine al serio e al giocoso allo stesso tempo. E una condizione senza tempo rintracciabile in quello stesso piano che trascende l’uomo, esce dal quotidiano per collegarsi con lo straordinario.

 

 

 

1 Cfr., Maria Immacolata Macioti, a cura di, Maghi e magie nell’Italia di oggi, Firenze, Pontecorboli Editore, II ed., 1995

2 Nicola Caputo, Destinazione Dio. Tradizioni e feste religiose a Taranto, Taranto, Mandese Editore, 1984, p. 21

3 Cfr., Alfonso Maria Di Nola, Folklore meridionale, Napoli, Liguori, 1966

4 Gian Luigi Bravo, Festa contadina e società complessa, Milano, Franco Angeli, 1984, p. 8. La presentazione del testo è un saggio di Luciano Gallino intitolato “Identità della tradizione-tradizione dell’identità”

5 Ivi, p. 9

6 Giacomo Devoto-Gian Carlo Oli, Dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1983, XIV ristampa, p. 888

7 Norbert Elias, Saggio sul tempo, Bologna, Il Mulino, 1986; ed. orig., Über die zeit. Arbeiten zur wissenssoziologie II, Frankfurt, Suhrkamp, 1984, p. 20

8 Ivi, p. 36

9 Cfr., ivi, p. 12

10 Károly Kerényi, Religione e festa, in: Furio Jesi, La festa, Torino, Rosenberg & Sellier, 1977, p. 36

11 Norbert Elias, Saggio sul tempo (…), op. cit., p. 69

12 Victor Turner-Edith Turner, Il pellegrinaggio, Lecce, Argo, 1997, pp. 81-82

13 Vittorio Lanternari, Festa, carisma, apocalisse, Palermo, Sellerio Editore, 1983, p. 14

14 Ivi, p. 35

15 Károly Kerényi, Religione e festa (…), op. cit., pp. 36-37.