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Studenti esteri in Italia e altrove: problemi e risorse (M.Certini)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/08


Il mondo è come una maschera che danza:

se si vuol vederlo bene,

bisogna non star fermi in un punto.

Chinua Achebe

 

Rispetto al passato, la novità attuale della migrazione è data forse dal fatto che essa è oggi globale; sulle strade di ogni continente milioni di persone sono in movimento per i motivi più diversi.

In questo vasto e articolato contesto umano, trasversale a tutti i continenti, ci chiediamo che parte abbiano gli studenti universitari, e in particolare i giovani del Sud del mondo che si muovono per il desiderio di una formazione scientifica e culturale.

Il fenomeno della mobilità studentesca registra nel mondo un forte incremento negli ultimi decenni di questo secolo. Negli ultimi cinquant’anni moltissimi giovani dei PVS (Paesi in via di sviluppo) si sono formati nelle istituzioni educative dei paesi più avanzati sotto il profilo tecnologico e industriale.

La situazione in genere[1]

Si stima che gli studenti esteri nel mondo siano oggi oltre un milione e mezzo (45% dall’Asia; 22% dall’Europa; 13% dall’Africa; 6,5% dal Nord America; 3,5% dall’America del Sud; 10% altri). Tale dato dell’UNESCO all’interno del vasto pianeta migrazione potrà essere considerato quantitativamente poco significativo; ma esso si riferisce ad una presenza sociologicamente assai rilevante, se solo si rifletta al ruolo sociale, politico ed economico degli studenti universitari internazionali, quali futuri quadri dirigenti di molti paesi, o comunque ponti interculturali ed economici.

L’andamento dei flussi di studenti esteri nel mondo va naturalmente collocato all’interno di una grande complessità, e vari elementi possono oggi influenzare la politica (o l’assenza di una politica) di un paese in materia di studenti esteri: fattori economici, ideologici, educativi, grado di interesse da parte dei singoli studenti e delle loro famiglie.

Sono molteplici le ragioni che nel nostro tempo spingono i giovani a recarsi all’estero per la propria formazione superiore e che differiscono da un paese all’altro. Anzitutto dobbiamo affermare, anche se parrà ovvio, che i flussi seguono in prevalenza le direttrici Nord-Nord e Sud-Nord ma anche, talvolta, Sud-Sud (un certo numero di giovani si trasferisce per motivi di studio da una nazione all’altra del Terzo Mondo: alcuni paesi arabi, come Libano, Egitto e Arabia Saudita risultano ospitare rispettivamente 26.000, 22.000 e 14.000 studenti esteri). Oltre a questi, fino ad un recente passato si aveva peraltro un significativo spostamento in direzione Sud-Est, per l’attrazione esercitata dall’Unione Sovietica e da altri paesi socialisti nei confronti dei paesi satelliti del Sud del mondo, come Guinea Bissau e Angola, ma anche di Iran e Nigeria.

Per quanto riguarda le nazioni a sviluppo avanzato, ove il terziario è prevalente ed il sistema universitario è altamente diffuso si ha, in genere, un flusso in uscita relativamente basso; è il caso di USA e Giappone. Inoltre, i giovani che hanno condotto gli studi inferiori e medi in una determinata lingua, specie se le strutture universitarie del proprio paese sono carenti, tenderanno ad orientarsi verso le nazioni nelle quali si parla quello stesso idioma: è il caso dell’Africa francofona e anglofona, o dell’India, del Sud-Est asiatico, di Hong Kong, di Singapore, che vedono un alto numero di propri figli in Francia, Inghilterra, Stati Uniti. Naturalmente tutto è costantemente in movimento; sembra infatti esserci oggi per i paesi asiatici una inversione di tendenza, che fa prevedere per il futuro un rilevante flusso Est-Est, dovuto prevalentemente al fatto che il Giappone si è posto l’obiettivo di divenire polo di attrazione per tutta l’area.

Paesi come gli Stati Uniti, la Germania, l’Inghilterra, la Francia e, più recentemente il Giappone (che da paese esportatore di studenti è divenuto tra i primi importatori) investono nella formazione degli studenti esteri non soltanto per motivi filantropici e umanitari, ma soprattutto “politici”, perché questi, una volta formati, rappresentano ponti culturali e soprattutto economici tra il paese ove si sono laureati o specializzati ed i propri, sia che rientrino in patria, sia che decidano di rimanere.

E ancora, in caso di crescita economica di un paese, il numero di studenti che si reca all’estero tende ad aumentare e in caso di recessione a diminuire. I Paesi in cui il costo della vita è più basso rispetto ad altri, saranno inoltre poli di attrazione dei ceti meno abbienti che sostengono con i propri mezzi l’iter formativo dei propri figli. Le nazioni che sperimentano incertezza politica e diffusa insicurezza personale e sociale, hanno un flusso in uscita. Ci sono inoltre da considerare gli accordi bilaterali tra paesi, che prevedono il sostegno attraverso borse di studio o lo scambio di studenti.

...e nella nostra Italia

Ma veniamo al nostro Paese, l’Italia.

Il flusso degli studenti esteri in Italia segue dai primi anni cinquanta un graduale andamento ascendente, che si incrementa dalla seconda metà degli anni 60 fino al 1972. Si passa infatti dalle 2.800 unità del 1955 alle 21.900 del 1972. In tale periodo la presenza degli studenti greci risulta largamente prevalente. Una prima generale flessione è rilevabile fino al 1974/75, segue ancora un rapido aumento, che tocca il suo picco con l’anno accademico 1977/78 (36.000 presenze) fino al 1981: da quell’anno gli studenti esteri tendono a diminuire lentamente, raggiungendo i 21.000 del 1996; l’1,35% sul totale della popolazione universitaria del nostro paese. Un dato importante, a tale proposito, ci è offerto dalla percentuale media (1974/1996) degli stranieri in rapporto alla popolazione universitaria italiana. Essi risultano il 2,2% del totale; si tratta di una percentuale nettamente al di sotto rispetto agli orientamenti comunitari in materia, attraverso i quali si consiglia di avvicinarsi ad una percentuale che vari tra il 5% e il 10%. Osservando distintamente, all’interno della popolazione universitaria straniera, i dati medi di ciascun continente, si rileva la prevalenza degli europei (59%), seguono gli asiatici (23,1%), gli africani (8,3%), gli studenti del Nord America (5,1%), dell’America Latina (3,9%) e dell’Oceania (0,5%).

Considerando l’andamento numerico per continente, vediamo come la diminuzione degli stranieri riguardi più o meno tutti, ad eccezione dell’Oceania e dell’Africa, che mostra una certa tenuta. La tenuta del continente nero non va però a nostro avviso giudicata con entusiasmo, poiché il paese in passato maggiormente significativo, la Nigeria (100 milioni di abitanti), che secondo un dato fornito dall’UCSEI contava nel 1977/78, 923 studenti, passa ai 112 dell’anno accademico 1995/96. Un aumento significativo è rilevabile per alcuni Paesi nord-africani come l’Egitto e il Marocco e per un solo Paese dell’Africa Centrale, il Camerun, che avanza dai 14 studenti del 1977/78 ai 695 del 1994/95. C’è anche da considerare un altro aspetto: l’andamento stabile di vari paesi africani è solo apparente, poiché la diminuzione delle immatricolazioni è compensata dall’incidenza dei fuori corso. Se poi consideriamo l’alto tasso di natalità del continente, dobbiamo ritenere comunque fittizia la tenuta africana, in quanto in rapporto alla popolazione, sempre meno giovani possono orientarsi verso studi superiori.

Con l’inizio del nuovo millennio si ha una inversione di tendenza: gli studenti tornano ad aumentare. Rilevante è il dato relativo a presenze inedite di giovani polacchi, romeni, cinesi, ma soprattutto albanesi. Studi recenti attestano una presenza di iscritti intorno alle 38.000 unità. La prevalenza è ormai femminile (MIUR).

Ma ancora l’esperienza più diffusa, ed amara, tra gli studenti provenienti da paesi extraeuropei a basso reddito è quella di un ridimensionamento della sfera dei rapporti personali. Peraltro la maggioranza proviene da contesti sociali medio-alti: appena giunti in Occidente spesso si sperimenta una condizione di povertà sociale alla quale non si è abituati. Non sono soltanto le ristrettezze economiche dovute al più alto costo della vita a mettere in difficoltà il giovane studente estero, ma sopraggiunge anche il disagio di sentirsi sostanzialmente solo nell’affrontare un sistema sociale ed universitario (metodo di studio, modalità degli esami, etc.) che non si conosce, e che tende in definitiva ad ignorare il nuovo venuto, se non addirittura ad ostacolarne implicitamente l’inserimento (difficoltà della lingua, formalità burocratiche, carenza nell’orientamento e nel supporto di tutors, etc.).

Non di rado, per mantenersi, lo studente è costretto inoltre a lavorare, e ciò lo costringe a rallentare notevolmente il ritmo degli studi.

Alcune considerazioni

In tali condizioni, quanti studenti riescono a laurearsi? Il numero di chi riesce a condurre a termine il proprio iter formativo risulta essere rispetto agli  iscritti, del 31% per gli stranieri e del 32% per gli italiani. Un dato solo apparentemente equiparabile, se si pensa che il costo di energie umane investite da gran  parte degli studenti esteri - impegno sostenuto, lontananza da casa, necessità di mantenersi da soli, aspettative personali o espresse dal contesto che essi hanno lasciato - è molto maggiore.

Ultimamente il numero degli studenti esteri nelle nostre università è cresciuto, ma a fronte del significativo aumento in atto, le scelte di politica internazionale e universitaria operate dal nostro paese, a parte un certo sostegno per l’attrazione dei cinesi, ci fanno ritenere come l’Italia non sia ancora convinta dell’importanza strategica degli studenti esteri quale risorsa fondamentale per lo sviluppo globale e per la presenza dell’Italia nel mondo.

Gli ostacoli burocratici posti allo studente estero, che non facilitano l’ingresso, o la mancanza di sostegni per lo studio, sono spesso giustificati dal timore che egli si stabilisca in Italia e non rientri nel proprio Paese. Ma, paradossalmente, si lascia solo il neolaureato, non sostenendolo attraverso piani di rientro che favoriscano un suo inserimento professionale in patria o permettendogli di contribuire a pieno titolo, in qualità di tecnico ed esperto della propria realtà locale, partecipando ai programmi di cooperazione internazionale promossi dal nostro governo.

La dicotomia che vede opporre stabilizzazione a rientro, tipica della visione economica dell’immigrazione diffusa tra gli anni ’60 e ’70 (periodo in cui le frontiere erano molto nette e si cercava di favorire il rientro), si mostra comunque ormai superata all’interno della società globalizzata dei nostri anni, nel contesto della instabilità crescente di molti paesi di partenza. Sovente non è possibile programmare il rientro, poiché in molti di questi paesi sono mutate le condizioni. Ma gli studi sull’immmigrazione ci confortano, dimostrando che un migrante mantiene comunque un legame con il Paese di provenienza e il beneficio che si trasmette per il fatto di essersi formato e stabilito in un altro Paese è difficilmente misurabile.

Concludendo ci preme sottolineare un ultimo aspetto, che probabilmente è il primo in ordine d’importanza, poiché dà allo studente dignità di persona, di cittadino planetario, di soggetto strategico di relazioni culturali, sintetizzabile con le parole che seguono di mons. Carlo Ghidelli, già Coordinatore dei Cappellani dell’Università del Sacro Cuore di Milano:

“Agli studenti esteri occorre non solo offrire ma anche chiedere perché essi hanno molto da partecipare alle persone e all’ambiente che li accolgono, soprattutto in termini di valori umani. Poiché hanno dovuto abbandonare il loro Paese e le loro famiglie possono offrire ai nostri studenti un esempio di fortezza nelle prove e di resistenza nelle difficoltà. In secondo luogo gli studenti esteri hanno il diritto di comunicarci il genio della loro cultura, lo specifico della loro tradizione, il sapore della loro terra”.



[1] Per i dati trattati, si è fatto riferimento a: UNESCO, ISTAT, MIUR, UCSEI (elaborazione di Forcesi, G.P,. Pellegrini, R. e aa), inoltre Forcesi, G.P., in Studiare da stranieri nelle università italiane, Roma, XII 2004