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La via italiana per la scuola interculturale (S.Fongaro)
Ministero Pubblica Istruzione Ottobre 2007

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/08


Il documento del Ministero, dopo una premessa che ne illustra l’urgenza anche a motivo di fenomeni culturali a livello mondiale come la globalizzazione, l’allargamento dell’Unione Europea, la trasformazione dei saperi e dei mezzi di comunicazione, si articola nei seguenti due momenti: i principi fondamentali della via italiana all’intercultura e le linee operative, rappresentate in dieci direzioni. Al termine c’è anche un’utile panoramica degli interventi legislativi italiani, e l’Osservatorio per l’integrazione degli alunni stranieri e l’educazione interculturale, con i nominativi del comitato scientifico e tecnico in cui si struttura il medesimo.

I quattro principi

I quattro principi fondamentali sono rappresentati dall’universalismo, da una scuola comune, dalla centralità della persona in relazione con l’altro e dall’intercultura.

L’universalismo è l’applicazione della Convenzione internazionale dei diritti dell’infanzia approvata in sede ONU nel 1989 e ratificata dall’Italia nel 1991, che sancisce il diritto di ogni bambino all’istruzione (diritto la cui tutela diventa un dovere da parte degli adulti), e la pari opportunità in materia di accesso e di riuscita scolastica da parte di ogni soggetto.

Una scuola comune significa che lo straniero viene inserito nelle normali classi italiane (diversamente da quanto avviene in altri Paesi). Questo è un riconoscimento del valore dell’altro, e della valenza educativa del confronto col diverso.

Centralità della persona umana: significa che l’alunno è la causa efficiente del processo educativo, e che tutto deve convergere su di lui, inteso anche nel suo vissuto e nelle sue radici e relazioni (nella “sua biografia familiare e sociale”, p. 9). Questo principio mette in primo piano la persona e non il programma, l’alunno e non il docente.

Intercultura significa “assumere la diversità come paradigma dell’identità stessa della scuola nel pluralismo”: significa poi “prendere coscienza della relatività (=valenza non assoluta) delle culture” nell’atto stesso di prendere coscienza dell’importanza della propria cultura.

L’intercultura è aliena sia da “un astratto universalismo, che rilegge la diversità sotto il segno dell’omogeneità, sia da un radicale  relativismo che accentua le differenze”(p.20). L’interculturalità è l’opposto della tendenza insita in tutti i Paesi del mondo di considerarsi ciascuno l’ombelico del mondo: cioè, la tendenza all’ etnocentrismo. La prospettiva interculturale nella scuola italiana si estende “a tutti gli alunni e a tutti i livelli: insegnamento, curricoli, didattica, discipline, relazioni, vita della classe” (p.8).

Questi i principi su cui si regge la via italiana all’intercultura con gli studenti stranieri.

Le linee di azione

Ci sono poi le linee di azione (già iniziate nei lontani anni settanta) relative l’accoglienza e l’inserimento degli alunni stranieri nella classe. Nel documento si legge che l’iscrizione scolastica può avvenire a qualsiasi momento dell’anno; che spetta al Collegio dei Docenti decidere a quale classe inserire l’alunno straniero (tenendo conto di non gravare le sezioni in cui la presenza degli stranieri divenga “preponderante”), di verificare le competenze e adattare il programma al soggetto, e infine di sostenerlo con aiuti speciali e docenti di sostegno, finalizzati ad un proficuo inserimento nella vita scolastica della classe (p.11-12).

Quanto alle relazioni con le famiglie straniere, si legge nel documento che le autorità devono informare le famiglie sul ventaglio di possibilità di scuole offerte dal territorio, fermo restando il diritto di ciascuna di scegliere quella che vuole. Soprattutto, le autorità scolastiche e locali devono “accogliere la famiglia e accompagnarla intelligentemente nel difficile “viaggio” cui è sottoposta”, tanto più se si pensa ai problemi aggiunti dello sradicamento e  alle “frequenti crisi nelle relazioni intergenerazionali” tra i migranti stessi. Questo “è indubbiamente uno dei compiti  più complessi della scuola aperta all’intercultura” (p. 14).

Interessante anche il paragrafo relativo alle relazioni all’interno della scuola, che stigmatizza l’errore di certi insegnanti, più generosi che illuminati, i quali spinti da una intenzione culturalista nel trattare la cultura degli stranieri corrono il rischio di assolutizzare l’appartenenza etnica degli alunni, predeterminando i loro comportamenti e le loro scelte mentre invece la visione personalistica della intercultura riconosce “l’altro nella sua diversità, senza tacerla” ma neanche creando “gabbie etnico- etnoculturali”: insomma, intercultura autentica è la somma di due interi, non il resto di due metà o la chiusura nel proprio mondo (p.15).

Interessante è anche il paragrafo relativo agli interventi sulla discriminazione e sui pregiudizi, meccanismi naturali e frequenti in tutte le persone, quali gli stereotipi, una specie di cliché semplificativo con cui si offre un’immagine dell’altro non adeguata alla realtà; mentre invece il pregiudizio è un atteggiamento di un gruppo su base distorta nei confronti di un altro gruppo. Entrambi sono espressione di etnocentrismo e favoriscono xenofobia e razzismo. In particolare la scuola deve contrastare l’antisemitismo, l’islamofobia e l’antiziganismo (p. 15-16).

Infine è interessante il ruolo dei docenti (p. 20), perché l’approccio all’intercultura è “in grado di sollecitare il ripensamento del ruolo insegnante in quanto tale”; e ancora: “ la formazione interculturale si configura come una prospettiva di innovazione dell’insegnamento (…) e del ruolo del docente”. E questo non tanto perché il docente è chiamato “a rispondere a bisogni ‘speciali’ (cioè, a includere nella lezione anche la cultura straniera), bensì, al contrario, abituarsi a leggere il contesto scolastico sotto il segno della differenza”. In parole più povere: il docente era l’organo riproduttivo di una società nazionale, chiusa e piuttosto borghese, e i programmi erano quelli fatti per quella società; ora, al limite, i programmi vengono dopo le persone degli alunni, e al servizio della persona.

Gli stranieri hanno fatto capire alla scuola che bisogna cambiare registro, perché “la diversità culturale obbliga l’insegnante a uscire dai canoni della trasmissione lineare per dialogare con particolari esigenze”.

Questo l’aveva lasciato intendere il Ministro nella sua introduzione quando affermava che “la presenza di alunni stranieri può essere davvero un’opportunità e un’occasione di cambiamento per tutta la scuola, se essa è ben attrezzata” (p. 3). E lo conferma anche la conclusione della Premessa, che recita: “La presenza dei minori stranieri funziona in realtà da evidenziatore di sfide che comunque la scuola italiana dovrebbe affrontare anche in assenza di stranieri” (p.6).

Qualche osservazione

Il principio di una scuola italiana interculturale è auspicabile, ma l’Italia ha fatto una scelta di campo che si traduce in strutture incidenti sulla realtà o ha adottato un principio operativo che resta tale solo sulla carta? Perché quello che si sta facendo sembra tutt’altro che confermarne le intenzioni.

Anche la Germania, che pensava di aver realizzato già da tempo nella prassi scolastica il principio dell’interculturalità, ha dovuto ricredersi quando nel 1996 di fronte ai dati statistici forniti da tre studiosi (Auernheimer, von Blumenthal e Steubig), si è accorta di essere lontana dalla méta e di aver realizzato nei migliori casi solo una “fuga nel folclore” e qualche settimana scolastica con proposizione del tema dell’intercultura. In Italia non ci risultano dati statistici analoghi a quelli della Germania.

Se si pensa che l’approccio interculturale della scuola deve coinvolgere “tutti gli alunni a tutti i livelli”, si devono fare presenti queste urgenze fondamentali, che sono ancora lontane dall’essere immaginate nella scuola italiana.

è urgente prima di tutto rivedere i programmi tradizionali che sono propri di una scuola organo riproduttivo di una società di stampo borghese, nazionale, se non proprio nazionalista e che ha ancora da aprirsi all’Europa nell’ambito dei programmi.

Bisogna poi rivedere la formazione dei docenti, i quali nel migliore dei casi sono animati da buona volontà, ma non sorretti da una pedagogia didattica sperimentata nell’intercultura.

Urge, infine, che l’Università abbia i suoi corsi funzionanti di formazione di pedagogia interculturale, e che i docenti della materie letterarie storico filosofiche abbiano una formazione permanente.

Sono queste le “sfide” che la scuola italiana deve affrontare.

E pare che il Ministro Fioroni ne fosse consapevole, quando scriveva che gli alunni stranieri assumono nella scuola italiana la funzione di evidenziatore di queste urgenze.