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Giovani e lavoro (F. Ungarelli)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 1/08


Un modo corretto per approfondire il tema della relazione dei giovani con il lavoro può essere proprio quello di partire da quanto ha  affermato Papa Benedetto XVI nel Suo messaggio di apertura della Settimana sociale dei cattolici italiani (ottobre 2007): “Che dire, poi, dei problemi relativi al lavoro in rapporto alla famiglia e ai giovani? Quando la precarietà del lavoro non permette ai giovani di costruire una loro famiglia, lo sviluppo autentico e completo della società risulta seriamente compromesso”.

Questa Sua preoccupazione è con ogni evidenza ormai una realtà per il nostro Paese ed è quindi, ritengo, un impegno di tutti fare in modo che la precarietà del lavoro, a cui progressivamente si sta assistendo, non abbia ripercussioni negative sulla vita delle persone, in questo caso soprattutto dei giovani, e sulla loro capacità di formarsi una famiglia.

E necessario pertanto intervenire su questo fenomeno e, più di tutti gli altri, il Santo Padre invita politici ed imprenditori ad operare in tal senso con rinnovato dinamismo, avendo nel debito conto l’impegno dovuto per il bene comune e non tanto quello per il profitto personale.

Questo obiettivo verso il bene comune è definito con precisione nella ‘Gaudium et Spes’, non come la somma dei beni particolari dei singoli individui, ma come il bene di tutti e cioè di ciascuno: è quindi importante determinare norme positive che individuino possibili soluzioni generali al problema.

Il medesimo documento conciliare esplicita inoltre che questa interdipendenza nelle relazioni, esistente fra tutti i soggetti della comunità, deve essere sorretta dalla solidarietà; credo che a questa, in riferimento al lavoro, possa essere aggiunta anche la giustizia.

Lo stile, che in definitiva dovrebbe contraddistinguere l’impegno di ogni cristiano, è da individuarsi nella determinazione ferma e perseverante al fine del raggiungimento degli scopi prefissi.

Il mondo giovanile

Data questa premessa, ritengo opportuno che occorra partire dai giovani, dal ‘chi sono?’, per arrivare poi nuovamente ai giovani: è necessario quindi aprire una piccola finestra per comprendere tutti un po’ meglio come sia il mondo dei giovani di oggi, nel terzo millennio.

Dando uno sguardo generale ai ragazzi, in alcuni ambiti della loro vita, a scuola, a casa, con gli amici, si potrebbe semplificare, senza esagerare, che sempre più frequentemente la loro esperienza del crescere assomigli maggiormente ad un “percorso di sopravvivenza”: a scuola il fenomeno del bullismo sta prendendo piede, a casa le cose non vanno molto meglio, perché TV e videogiochi sono infarciti di spettacoli in cui la violenza è fortemente presente, mentre nei luoghi di intrattenimento lo sballo e la droga sono esperienze purtroppo comuni, per non parlare della violenza negli stadi ...

Per tutte queste ragioni direi che per i giovani non ci sarebbe proprio da stare molto allegri!

Nell’ultimo rapporto IARD (Istituto di Ricerca Franco Brambilla, Milano) sulla condizione giovanile viene descritto invece come in definitiva il 90% dei giovani si ritenga sostanzialmente soddisfatto della propria condizione di vita: questo dato molto positivo potrebbe essere letto sia come una rinnovata capacità di reagire alle avversità oppure viceversa come una progressiva assuefazione.

Per verificare quale delle due ipotesi sia più prossima alla realtà, è necessario ripartire dalla identificazione di chi oggi possiamo chiamare ‘giovane’.

Nello stesso rapporto IARD è stato intanto individuato uno slittamento in avanti della fascia di età giovanile: da meno di 29 anni a meno di 34 anni.

Questo aspetto certifica innanzitutto il posticipo del resto della vita adulta, con tutto quanto questo può comportare: per esempio vive ancora con i propri genitori il 70% dei giovani fra 25 e 29 anni ed ancora il 36% di quelli fra 30 e 34 anni; suddivisi per genere, nella fascia di età fra i 25 e i 34 anni, vive ancora con i genitori oltre la metà dei maschi ed oltre un terzo delle femmine.

Sono una generazione di mammoni o, come li ha definiti ultimamente il Ministro dell’Economia Padoa Schioppa, di “bamboccioni”, in quanto incapaci di uscire dalle mura di casa.

Rapporto con il lavoro

Questo fenomeno si riverbera poi anche su altri indicatori che misurano il passaggio alla successiva vita adulta: per esempio negli ultimi venti anni si sono anche dimezzati i matrimoni e corrispondentemente l’età media delle donne al momento della nascita del loro primo figlio si è alzata a ben 31 anni.

Questi ‘eterni’ giovani fanno fatica a proiettarsi nel futuro e anzi forse non lo progettano affatto: con uno slogan un po’ fatalista sono soliti dire “forse un futuro ci sarà ... in futuro”.

I giovani sono descritti dai sociologi come persone in grado di adattarsi senza grandi sforzi ai contesti di vita nei quali stanno, la così detta “identità liquida”: questo loro atteggiamento li porta sovente a fare scelte reversibili.

Ed è proprio vero che reversibilità fa rima con flessibilità: i giovani infatti non hanno paura delle flessibilità, anzi tutt’altro, ma nel contempo sono fortemente preoccupati dalla precarietà, soprattutto quella collegata all’incertezza prolungata nel tempo alla ricerca di un lavoro stabile.

Questa incertezza genera comunque insicurezza e paura del futuro, anche se oggi, diversamente dal passato, il lavoro non è poi più così centrale nella vita delle persone.

Mentre solo 20 anni fa infatti si iniziava a lavorare a 15-20 anni e si andava in pensione a ca. 55 anni con un’aspettativa di vita media non elevatissima, ora si inizia a lavorare molto più tardi, a circa 25-30 anni, corrispondentemente si va in pensione dopo, a ca. 60 anni, ma con un’aspettativa di vita anche ben oltre gli 80 anni.

Il lavoro si è quindi trasformato da esperienza centrale nella vita di una persona a un equilibrio più omogeneo, ca. 33/33/33, fra tempo della scuola, del lavoro e della pensione.

I giovani arrivano al lavoro attenti alle competenze: il 60 % ha infatti un livello di istruzione scolastica maggiore di quello raggiunto dai propri genitori, anche se il 65 % di essi valuta il proprio “pezzo di carta” di valore inferiore rispetto a quello conseguito dai genitori.

Questo è anche dovuto a quella evidente stortura della formazione che sta nella adeguatezza degli studi universitari: in  Italia gli iscritti alle facoltà tipo DAMS (Discipline dell’Arte, della Musica e dello Spettacolo) sono dieci volte rispetto a quelli iscritti a materie scientifiche e si conta mediamente un 80% di fuori corso, abbinato ad un 70% di studenti che intanto “lavoricchiano” per mantenersi.

Dopo la Laurea evidentemente le cose non possono migliorare granché: dopo 3 anni infatti lavorano a tempo indeterminato solo 1/3 dei laureati in Lettere, la metà dei laureati in Scienze politiche e tra i 2/3 e i 4/5 dei laureati in Ingegneria, Medicina, Economia o Giurisprudenza.

Dal punto di vista della qualità del lavoro, oltre il 45% fa un’attività a contenuto diverso rispetto alla formazione ricevuta, con le conseguenti ripercussioni in ordine a insoddisfazione, instabilità e spreco di competenze.

Uno dei motivi di questa scarsa corrispondenza è sicuramente da attribuire alla modalità tutta nostra di ricercare il lavoro: affidata per un 80% alle ‘conoscenze’, quando la media UE è solo del 50%.

Tutti i canali ufficiali in Italia sono ancora poco efficaci: solo un 3,3% dei collocamenti attraverso il Servizio pubblico e un ancora più basso 1,8% per intervento delle Agenzie per il lavoro di tipo privato.

Questa situazione ha fatto esclamare che, mentre l’Europa cerca di costruire la “Società della conoscenza” (Strategia di Lisbona), l’Italia rappresenta ancora la Società delle conoscenze!

Se questa è la descrizione della nostra realtà sociale, in essa i giovani si può dire che siano sulla ‘frontiera’, sospesi fra il passato ed il futuro: con le spalle al mondo degli adulti, guardano oltre, verso il nuovo che ancora non c’è.

I giovani non hanno desiderio di essere inclusi in questo mondo costruito dagli adulti, ma vogliono partecipare attivamente alla costruzione di qualcosa d’altro: “un altro mondo è possibile” è lo slogan dei Forum sociali mondiali.

I giovani vogliono giocare se stessi fino in fondo: nonostante calino le forme di impegno collettivo, in proporzione cresce anche l’impegno individuale, pur se a proprio beneficio.

Non sempre questo impegno trova uno sfogo adeguato sul lavoro. Infatti i giovani dimostrano di saperne poco o addirittura niente: per esempio solo il 60% sa che il nostro attuale sistema previdenziale è del tipo ‘a ripartizione’ (cioè i contributi previdenziali versati dai lavoratori attivi costituiscono la pensione degli attuali pensionati) e, ancora meno, solo il 15% sa che l’attuale aliquota dei contributi previdenziali è fra il 30-35% della retribuzione lorda.

Il 90% dei giovani però immagina già con certezza che il valore della propria pensione sarà inferiore a quella dei propri genitori e l’80% prevede una stabilità del proprio lavoro più bassa di quella goduta dai propri genitori; queste grame aspettative sono purtroppo confermate: la disoccupazione giovanile (18-24 anni) infatti in 30 anni è aumentata da circa il 10% (1975) a circa il 25% (2005).

Al contrario la spesa per il sostegno alla disoccupazione nel 2006 nel nostro Paese era pari allo 0,6% del PIL, cioè la più bassa di tutta l’UE: in Italia, ad ogni Euro speso per i giovani sotto i 30 anni, corrispondono ben 3 Euro e mezzo spesi per gli ultra 65enni.

Questo stare dei giovani sulla ‘frontiera’ trova una compensazione nelle famiglie, che sono diventate il nostro vero ammortizzatore sociale: il 10,9% del reddito famigliare italiano è infatti ogni anno trasferito ai figli.

Società “familiaristica”

Nella nostra società questa sorta di “familismo” si contraddistingue per un ruolo della famiglia di tipo meramente esclusivo e privatistico, anche perché in generale ci si fida poco degli altri: la fiducia nel prossimo è da noi al 19%, contro il 33% in Francia, il 39% in Gran Bretagna, il 49% in Spagna, il 57% in Germania e addirittura il 64% in Svezia.

Questo attaccamento indotto alla propria famiglia di origine produce poi come conseguenze sia una scarsa mobilità geografica che una insufficiente mobilità sociale: dopo 10 anni di carriera lavorativa l’85% degli impiegati è ancora impiegato, mentre l’80% degli operai è ancora operaio; in questo lasso di tempo solo il 10% degli operai è divenuto impiegato e solo un quarto degli operai non qualificati è arrivato alla qualifica.

Rischiamo di essere, forse senza averlo compreso neanche fino in fondo, un Paese di ‘caste’, in cui il progresso sociale è in definitiva pari a quasi zero!

La generazione degli attuali ‘figli’ è in generale più avveduta dei rispettivi ‘padri’: mentre i ¾ dei giovani fra i 18-30 anni sono consapevoli ed immaginano già che avranno un reddito fra i 30-50 anni inferiore a quello dei genitori ed analogamente i ¾ degli adulti attualmente fra i 31-55 anni sa di avere un reddito superiore a quello percepito dai propri genitori, l’85% di questi stessi padri fra 31-55 anni crede ancora che il proprio reddito attuale sia inferiore a quello che i giovani percepiranno in futuro nella stessa fascia di età.

Questa idea è però in diretto contrasto con la realtà: oggi il compenso medio netto mensile per un apprendista o per una collaborazione occasionale è di circa euro 750, per una collaborazione coordinata e continuativa è di circa euro 900, mentre la retribuzione media per un lavoratore dipendente è circa euro 1.200, cioè le tipologie di rapporto di lavoro in cui i giovani sono sempre più spesso assunti guadagnano mediamente fino al 40% in meno del lavoratore adulto.

Il Mercato del lavoro, per chi ha meno di 39 anni, è costituito infatti solo al 32% da lavoro a tempo indeterminato, mentre per un 41% sono contratti a termine (compreso l’interinale), per un 8% Co.Co.Co. e il restante 19% è lavoro autonomo; anche la transizione ad altre forme di lavoro risulta essere un percorso complicato: dopo 1 anno è assunto a tempo indeterminato solo l’11% di quelli che prima erano assunti a termine e solo il 5% dei precedenti Co.Co.Co., mentre è ancora a tempo determinato il 40% di quelli che già lo erano.

Le cose migliorano poco poi con il passare del tempo: dopo 3 anni di lavoro 1 lavoratore su 4 è ancora lavoratore a termine e 1 su 4 è ancora apprendista, mentre solo 1 apprendista su 3 ha un lavoro a tempo indeterminato, al contrario 1 apprendista su 3 è ancora a termine.

Questi dati mostrano una involuzione rispetto a quanto accadeva solo nel 2000, quando ci si stava avviando verso il superamento dei Contratti di Formazione Lavoro (CFL): a quell’epoca, dopo 2 anni di CFL, meno di 1 lavoratore su 5 era ancora a termine.

Nonostante questa impennata delle forme di lavoro temporaneo l’Italia sembrerebbe ancora in media con i dati dell’UE; infatti se da noi i lavoratori assunti con forme di lavoro a tempo determinato rappresentano il 13,1% sul totale dei lavoratori, la media europea è ancora più alta (UE 14,7%).

Se si scorporano però i dati fra maschi e femmine ci si accorge che su queste ultime ricade un tasso più elevato di precarietà, anche oltre il dato medio europeo: M. 11,2% vs. 14,0%, F. 15,8% vs. 15,4%, con tutto quanto questo comporta.

Siamo per fortuna ancora ben lontani dai dati, allarmanti per la coesione sociale, della Spagna (1 su 3) e del Portogallo (1 su 5).

Politiche del lavoro

Queste statistiche rappresentano valori medi: se si scorpora il dato per classi di età si scopre che il 60% dei contratti a termine in Italia è instaurato con giovani di età inferiore ai 29 anni e fra questi il 90% ha accettato quel contratto di lavoro solo perché senza alternative.

L’Italia è anche l’ultimo fra i Paesi dell’UE per il tempo trascorso in ricerca di un posto di lavoro stabile, dove per stabilità si deve intendere un primo contratto di lavoro per almeno 6 mesi e 20 ore alla settimana.

E quindi una preoccupazione legittima quella fatta propria anche dal Papa, di non trasformare una flessibilità sul lavoro in una precarietà nella vita.

E riconosciuto che a queste degenerazioni si dovrebbe ovviare introducendo norme e regole adeguate, che possono essere definite o per legge o per via pattizia dalle Parti sociali.

I nostri politici in Parlamento, che hanno il compito di legiferare sui temi del lavoro, sono purtroppo tutt’altro che giovani: quelli più ‘giovanili’, come per esempio Casini e Veltroni, hanno 52 anni, mentre Fini e la Bindi ne hanno addirittura 56.

A livello europeo, sempre sul versante delle politiche del lavoro, anche la Presidenza del Consiglio dell’Unione è recentemente intervenuta con una propria risoluzione sul tema “gioventù”: in essa vengono affermati 3 principi guida: sostegno nel Mercato del Lavoro e nell’autoimprenditorialità, conciliazione fra tempi di vita e di lavoro, istruzione e formazione.

Per quanto riguarda invece la via pattizia, i temi in cantiere sono noti: l’effettiva riforma degli ammortizzatori sociali (cassa integrazione, mobilità e disoccupazione) ed il riordino dei servizi per l’impiego, così come concordato tra il Governo e le Parti Sociali nel Protocollo sul Welfare del luglio 2007.

Alcune altre norme sul lavoro, di specifico interesse per i giovani, però potrebbero diventare nuove ed interessanti piste di intervento per il prossimo futuro: per esempio uno spostamento di tutele, attualmente legate al posto di lavoro e quindi contenute nei contratti nazionali, per metterle in capo alle singole persone, un miglioramento in qualità e quantità della formazione nei contratti a termine, un incremento dei contributi per la disoccupazione nei contratti a tempo determinato e un’abbreviazione dell’apprendistato.

Non sono solo queste però le possibili aree di miglioramento: sul versante previdenziale si potrebbero rendere più ‘intelligenti’ i coefficienti di trasformazione delle pensioni calcolate con il metodo contributivo, adeguandoli ai diversi tipi di carriere lavorative, sul versante del lavoro femminile si potrebbero rendere più convenienti economicamente i congedi parentali per i papà e sul versante dell’istruzione si potrebbe finalmente incentivare la meritocrazia fra i docenti.

Formazione permanente e al lavoro

Quest’ultimo aspetto potrebbe anche essere facilmente collegato al fenomeno della riconosciuta progressiva distanza fra quanto si è studiato e quanto in realtà appare essere effettivamente utile e spendibile sul luogo di lavoro: ritengo che sarebbe necessario intervenire al più presto per aumentare la qualità del nostro sistema di istruzione.

Proprio per la ragione di questa distanza, nel nostro Paese, anche se faticosamente, sta prendendo corpo la formazione continua, che mira ad un apprendimento sviluppato durante tutto l’arco di vita di una persona: la collaborazione positiva fra le Parti sociali ha dato vita ai così detti Fondi interprofessionali per sostenere la formazione delle lavoratrici e dei lavoratori nei luoghi di lavoro.

“ Perché un lavoratore dipendente deve formarsi?

Anni fa si pensava che ci fosse un tempo per apprendere (gli anni della scuola), un tempo per il lavoro (un’occupazione stabile negli anni e nella professione), un tempo per il riposo (gli anni della pensione).

Oggi è sempre più difficile scandire la propria vita secondo questa sequenza perché il lavoro è sempre meno stabile, sia come modalità dell’occupazione sia come qualità della professione che si è chiamati a svolgere.

I mercati sempre più internazionali e le tecnologie sempre più innovative, richiedono alle imprese ed ai lavoratori una continua attenzione al cambiamento. Per questo il tempo dell’apprendimento non può essere più confinato agli anni della scuola, ma diventa fondamentale apprendere “lungo tutto il tempo della vita”.

Anche il lavoro diventa luogo di apprendimento, opportunità di formazione: non più solo la scuola, ma anche la formazione continua. ”

Così sono stati sollecitati gli occupati nell’artigianato dal loro Fondo di formazione: purtroppo però in Italia oggi solo il 10% circa dei lavoratori fra 24–64 anni fa formazione continua, contro il 50% dei danesi ed il 40% degli inglesi.

Questa è ancora per noi ancora una sfida da vincere. D’altra parte andrebbero ulteriormente sviluppate anche le occasioni di alternanza scuola-lavoro, sia per arricchire i curricula dei ragazzi, ma anche per farli sperimentare in situazioni nuove e per accrescere il loro bagaglio formativo.

Tutto ciò per altro dovrebbe potere andare di pari passo con il riconoscimento e la valorizzazione di tutte le attività in cui si concretizzano momenti di apprendimento non formale, perché questi incrementano in ogni caso la cultura di base, consentono di imparare che è decisamente importante sapere anche ciò che non serve subito, aumentano le esperienze, insegnano ad inquadrare ed interpretare le situazioni nuove, aiutano a risolvere i nuovi problemi.

Conclusione

Concludo con una chiosa finale: se siamo passati dalla Società del lavoro, fondata sulla produzione, in cui ognuno era, sul ‘palcoscenico’ della vita sociale, un po’ come una ‘comparsa’, fino all’attuale Società del consumo, fondata sull’audience, in cui si è tutti un po’ ‘spettatori’, forse è giunta l’ora di un ulteriore salto di qualità, per costruire tutti assieme una Società della cittadinanza, fondata sull’effettiva partecipazione, in cui ognuno possa avere un ruolo da ‘protagonista’, pena una progressiva assuefazione.

L’iniziativa sindacale della CISL, che pone al centro la partecipazione responsabile dei lavoratori e delle lavoratrici nelle imprese, anche attraverso una riforma del modello contrattuale vigente, che valorizzi la contrattazione aziendale e nei territori, rendendola esigibile ovunque, credo che vada proprio in questa direzione.

Analogamente penso che dovrebbero essere trasferiti alla negoziazione fra le Parti sociali tutti i temi di diretta pertinenza con il lavoro, al fine di fare scaturire, da un altrettanto responsabile confronto, tutti i temi di innovazione necessari per mantenere un sistema lavorativo in perenne evoluzione.