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Giovani immigrati: risorsa e provocazione (G. Gnesotto)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/07


Senza gli immigrati il declino demografico ed economico dell’Italia avrebbe già assunto il profilo del crollo, perché pesa sull’Italia il primato negativo in Europa quanto ad invecchiamento della popolazione. Secondo le tendenze in atto e in prospettiva storica, l’Italia è una nazione calante, e per questo destinata a superare i 10 milioni di cittadini stranieri tra 20-30 anni se vuole mantenere gli attuali standard di vita.

Questo dato, assommato all’identikit dell’immigrato come persona giovane, in età lavorativa, fortemente motivato, potrebbe già essere di per sé sufficiente a considerare l’immigrazione come una risorsa, anziché un problema.

Vanno ancora evidenziati almeno altri due aspetti di segno positivo, il primo dei quali spesso poco rilevato: anzitutto, trattandosi di una fascia consistente di persone che hanno fatto ingresso in Italia già in età giovanile e lavorativa, rappresentano una risorsa per il fatto stesso di essere immessi nei circuiti di produzione senza essere costati nulla alla nazione di accoglienza per gli anni di crescita e di formazione avvenuti nel proprio Paese di origine. In secondo luogo, le rimesse in denaro inviate rappresentano un gettito importante per lo sviluppo economico della nazione di provenienza.

I giovani immigrati, pur con tutte le criticità legate ad una fase evolutiva personale e a una fase evolutiva di una società che si sta costruendo su base multietnica, hanno tutte le potenzialità per essere risorsa e insieme provocazione almeno in tre settori macroscopici: l’intercultura, la cittadinanza, l’integrazione.

Per quanto riguarda l’intercultura, giova rilevare il numero sempre più consistente degli alunni stranieri presenti nelle scuole italiane di ogni ordine e grado. La loro presenza è progressiva e strutturale, come si evince dal prospetto fornito dal Ministero dell’Istruzione, secondo il quale nell’anno scolastico 2006/2007 gli alunni stranieri rappresentavano il 5,6% della popolazione scolastica, vale a dire 501.494 unità, mentre dieci anni fa (1997/98) era lo 0,8% (poco più di 70 mila). Difficilmente ormai le classi sono monoetniche, e continuamente spingono il compito educativo ad evolvere sempre più nella prospettiva della mediazione tra le diverse culture di cui sono portatori gli alunni e a definirsi come educazione interculturale. Si tratta di una sfida educativa obbligata, che è stata colta in diversi documenti del Ministero della Pubblica Istruzione a partire dal 1989 e che ora viene rilanciata dallo stesso Ministero con il documento dal titolo “La via italiana alla scuola interculturale”, la cui indicazione principale sta nell’assunto che “insegnare in una prospettiva interculturale vuol dire assumere la diversità come paradigma dell’identità stessa della scuola, occasione privilegiata di apertura a tutte le differenze”.

è interessante notare che nelle scuole italiane sono presenti 192 nazioni su 194 (mancano solo Lesotho e Vanuatu) con una molteplicità di lingue, culture e abitudini. Un contesto multiculturale molto ricco e variegato, dunque, che assegna sempre più alla scuola un compito educativo interculturale capace di superare il monoculturalismo, ed essere un luogo in cui si rende equilibrato il rapporto con la diversità altrimenti dominato dalla paura, dalla diffidenza e dal disprezzo.

Per quanto riguarda la questione della cittadinanza, sono i giovani minori ed in particolare quelli nati in Italia da genitori stranieri a spingere verso una necessaria riforma della legge sulla cittadinanza, che metterebbe l’Italia in linea con l’Unione Europea.

A fronte di un’immigrazione stanziale e di una crescente sensibilità per i diritti dei minori, quasi tutti gli Stati europei, infatti, hanno introdotto, o rafforzato se già l’avevano, l’elemento dello ius soli, l’acquisto della cittadinanza per nascita sul territorio. Attualmente, invece, vige il principio dello ius sanguinis, ovvero l’acquisto della cittadinanza per discendenza o filiazione, cosicché il figlio di stranieri nato in Italia non è italiano e solo la residenza legale ed ininterrotta fino al raggiungimento della maggiore età gli consentiranno di farne richiesta e di diventare cittadino.

Su tale specifico punto, nel corso della passata legislatura, sono state presentate numerose proposte di riforma. Nella seduta del 7 febbraio 2007 la I Commissione (Affari costituzionali) della Camera dei deputati ha adottato il testo unificato per modificare le norme sulla cittadinanza, che tra gli elementi costitutivi ha per l’appunto il passaggio epocale dallo ius sanguinis allo ius soli, che tra l’altro sanerebbe l’incertezza per i figli degli immigrati di risiedere in Italia una volta raggiunta la maggiore età.

Le lungaggini per un tale passaggio rischia di rafforzare la costituzione di enclaves autoreferenziali e il senso di disaffezione, se non di aperta rottura, nei confronti della società in cui si vive.

E con questo siamo nella terza provocazione lanciata dai giovani immigrati, quella dell’integrazione. Gli attentati di Londra e le sommosse nelle banlieux parigine, che hanno visto come protagonisti giovani immigrati di seconda generazione, lì nati e cresciuti, hanno acuito e messo in crisi il dibattito sull’integrazione degli immigrati e sulla società multiculturale. I due modelli, quello assimilazionista di stampo francese e quello pluralista di stampo anglosassone, si sono dimostrati inadeguati e, in ultima analisi, controproducenti.

L’Italia sta faticosamente cercando una “via italiana all’integrazione” e la “Carta dei valori, della cittadinanza e dell’integrazione”, presentata nell’aprile 2007 da un Comitato scientifico nominato dal Ministero degli Interni, può essere vista come una tappa per un patto di convivenza basato sui valori condivisi della Carta costituzionale.