» Chiesa Cattolica Italiana » Documenti »  Documentazione
Messaggio del Presidente della CEMI (L.B. Belotti)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/07


Per tre volte negli anni ’70 e poi ancora nel 1984 la Giornata delle migrazioni nella Chiesa italiana ha avuto per tema “Emigrazione di giovani”, “Giovani in emigrazione” e formule simili che rinviavano anche all’età minorile e scolastica. Il prossimo 13 gennaio per la quinta volta la Giornata è dedicata a questa fascia di età, apre però a uno scenario molto più ampio, che continua a presentarci i giovani italiani residenti all’estero, ma si allarga a dimensioni planetarie, dove incontriamo ogni forma di mobilità umana, compresi i nomadi, in particolare i rom e sinti, i marittimi e gli aeroportuali, gli addetti allo spettacolo viaggiante; in primo piano balzano ovviamente gli immigrati che continuano a giungere in Italia da ogni parte del mondo. Un ricco campionario di umanità, in cui i minori e i giovani costituiscono una parte emergente, ed ha sue specifiche e pressanti esigenze di sentirsi raggiunta dalle attenzioni materne della Chiesa.

Il Divino Maestro continua a chiamare a sé e ad abbracciare i bambini (Lc 18, 16), anche quelli coinvolti nella mobilità umana; egli continua a fissare con sguardo di amore i giovani di oggi, come quello del Vangelo (Mc 10, 21), anche quelli che sono in balia di mille tentazioni e disorientamenti, non per la ricchezza materiale che possiedono, ma per quella povertà che, talora è anche carenza di beni necessari, più spesso è la precarietà e fragilità tipica di chi non ha ancora fatto armonica sintesi della sua duplice appartenenza, quella alla patria di origine e del Paese destinato a diventare la sua nuova patria. Con questa Giornata la Chiesa invita singoli cristiani e comunità ad assumere questi stessi atteggiamenti e “sentimenti che furono in Cristo Signore”(Fil 2, 5).

Mi rendo conto che sto toccando un tema notevolmente complesso e arduo, che ci mette in contrasto con quell’andazzo di mentalità, di umori e di posizioni d’un “mondo” per il quale Cristo non ha pregato (Gv 17, 9), ma del quale più o meno siamo un po’ tutti infetti. Coerenza cristiana ci spinge a una continua conversione di mente e di cuore, orientati a quei valori evangelici che ci mettono sì in contrasto con la mondana “sapienza della carne” (1 Cor 1, 26), ma sono di fatto sublimazione e trasfigurazione di quanto è già autentico patrimonio del più sano umanesimo e di quella civiltà dell’amore sulla quale, in particolare sul declinare della sua vita, ha tanto insistito Papa Wojtyla. Sono anche irrinunciabile memoria di una lunga esperienza storica; intendo dire di noi, italiani.

Proprio negli anni ’70 e ’80, quando si celebravano quelle giornate sui “giovani emigrati”, ero missionario in Svizzera in mezzo a una moltitudine di giovani, provenienti soprattutto dal Sud Italia; ho conosciuto e condiviso i loro problemi, quelli che trasparivano alla luce del sole e quelli tenuti segreti nel profondo del cuore: strappi laceranti da quanto era più caro, sogni e nostalgie, disorientamenti e frustrazioni, paure di non farcela e voglia tenace di tener duro per assicurare un avvenire meno meschino per sé e i propri cari. Non mancavano giovani coppie, prese dall’angosciante alternativa se lasciare presso parenti o istituti i loro bambini per essere più liberi di lavorare e guadagnare in fretta in vista anche di un più rapido rientro in paese, o trattenerli presso di sé con tutti i condizionamenti ed altri rischi che tale scelta comportava. Si aggiungeva per molti la precarietà del lavoro e della permanenza all’estero, la non facile convivenza con la gente del posto, l’incertezza del progetto migratorio e tante altre cose. Tutte cose che ora vediamo ripetersi puntualmente in casa nostra fra i lavoratori stranieri nonché le loro famiglie e fra altre categorie di migranti. Si aggiungono altre situazioni grigie, come la mancanza di una normativa chiara, il dilagare del lavoro nero legato allo sfruttamento dei minori, il continuo ricostituirsi delle sacche di clandestinità, l’infiltrarsi di gente sospetta che ha conti aperti con la giustizia e rischia di gettare discredito su tutta la massa dei migranti.

Noi cristiani abbiamo gli occhi aperti di fronte a questo quadro ben poco esaltante e non siamo così ingenui da presumere di avere la formula fatta per risolvere così complesse e scabrose problematiche. Condividiamo con tutta la gente per bene l’esigenza e la richiesta di legalità anche con provvedimenti forti, la necessità di coniugare sempre e ovunque diritti e doveri, il contrasto all’immigrazione clandestina, il riconoscimento ai responsabili di governo del compito di gestire i flussi migratori e così via. Tutto questo lo condividiamo con profondo senso civico, ma tutto inquadriamo in un’ottica superiore che pone in primo piano, nei sentimenti interiori, nel linguaggio, nei comportamenti, la suprema categoria evangelica dell’accoglienza, che ci fa spalancare le braccia, come Gesù, verso i piccoli stranieri e ci rende spontaneo il sorriso verso i giovani, non importa quali siano i lineamenti del volto o il colore della pelle. Ripeto: questo è il nostro atteggiamento di fondo e vigiliamo perché non venga turbato da altri elementi di segno opaco o negativo, che pure non ci sfuggono, che deprechiamo e che siamo determinati, anche in sede ecclesiale, a prevenire e contrastare.

Tuttavia verità e giustizia esigono che non fissiamo lo sguardo solo o in prevalenza sulle zone grigie della migrazione, in particolare di quella più giovane. Nel caso degli immigrati, l’ultima stima di quelli che hanno regolare permesso di soggiorno li porta sulla soglia dei quattro milioni. Questi sono la foresta vasta e silenziosa che non fa rumore, fra costoro l’indice di devianza non è superiore a quello registrato fra i cittadini italiani. Ci sono raffiche di vento che fanno cadere qualche pianta e questa fa tanto rumore, che viene ripetuto e ingigantito dai media, dai partiti in perpetua rissa fra di loro, da ideologie pericolose. Fra questi milioni di migranti, cui aggiungiamo i quasi altrettanti italiani all’estero, i giovani e i minori sono moltitudine e abbiamo la ferma convinzione che questa gente, ancora nel fiore della vita, siano per noi inesauribile risorsa, potenziale ricchezza: non solo per compensare il pauroso calo demografico e progressivo invecchiamento del Paese, ma pure per dare un colorito più variopinto, più interetnico e interculturale alla nostra società, un respiro più ampio di mondialità, direi anche di cattolicità al nostro vivere civile ed ecclesiale.

Una simile prospettiva non sta dietro alla porta, anzi ci proietta lontano, ma non verso vaghe utopie di un mondo di sogno: abbiamo un po’ ovunque esempi splendidi e incoraggianti di effettiva realizzazione. Non aspettiamoci però che siano queste promettenti prospettive che ci vengano incontro, spetta a noi incamminarci verso di loro, per una strada che non è già ben spianata, che talora anzi costringe ad una corsa ad ostacoli. Guai agli specialisti in piagnistei, ai rinunciatari che stanno alla finestra a guardare incuriositi, magari atteggiandosi a profeti di sventure. Sembra loro di rimanere immobili nelle loro posizioni, non si accorgono che invece stanno scivolando su una china molto pericolosa. L’immobilismo è un’illusione, la neutralità altrettanto, è come voler alzare un muro di separazione, ma il muro fra popoli, sia quello di Berlino sia quello fra ebrei e palestinesi o fra “latinos” e nord-americani è sempre muro di vergogna, anche quello che taluni vorrebbero alzare in Italia fra italiani e stranieri. Non c’è alternativa: o l’incontro o lo scontro, l’uno e l’altro con una chiara progressione; da una parte intolleranza, sospetto, fastidio, separazione, rifiuto, xenofobia, razzismo; dall’altra soprattutto tolleranza, coesistenza, convivenza pacifica, accoglienza, solidarietà, comunione, “convivialità delle differenze”, come prospettava Giovanni Paolo II.

Il compianto Papa, in riferimento alle migrazioni, spesso parlava di “sfida”. Noi per la prossima Giornata traduciamo la parola sfida in “provocazione”. Sono soprattutto i giovani a provocarci ad uscire dal guscio del gretto egocentrismo e da posizioni di autodifesa, quasi fossimo di fronte a un pericolo incombente. Dopotutto gli effetti delle migrazioni saranno quello che noi decidiamo che siano, non a parole, ma con i fatti concreti che “provocano” ad una autentica conversione, cioè all’impegno personale, alla seria revisione di certi stili di vita, all’uscita da quell’immobilismo che si trincera di false sicurezze e si illude di isolarsi nella “fortezza Europa” e, nel caso nostro, nella “fortezza Italia”. Siamo invece chiamati, per vocazione e per missione, a costruire la “casa comune”. Consapevoli però che “se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori” (Salmo 125), la Giornata delle Migrazioni sarà giornata di riflessione e di impegno, ma ancor più giornata di preghiera perché il Signore ci faccia suoi collaboratori nella costruzione di una casa pacifica e riconciliata, dove anche lui possa compiacersi di abitare.