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Foto di gruppo: chiarificazioni su Rom e Sinti (D.Todesco)
Cambiare insieme: una piccola esperienza da una baraccopoli italiana

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 4/07


Non ti accorgi dei cambiamenti quando sei vicino. Il quotidiano ci accompagna nel cambiamento.

Si cambia senza accorgersene; accorge distanza, magari qualcuno che te lo dica.

Oppure una fotografia che col suo fermare tempo e tratti, permetta, rievocando il ricordo, di vedere la strada percorsa.

Anch’io parto da alcune foto per capire cos’è successo ad alcune famiglie di rom rumene che vivono a Verona. Allora vivevano in una baraccopoli ed ora, meno della metà di loro vive in un area attrezzata dal Comune.

Nostalgia

Alcune famiglie di rom rumeni, nel 2001, scovano un luogo, chiamato Spianà, dove stare “tranquilli”. E lì con materiali di recupero costruiscono le loro abitazioni, baracche per lo più.

Quel luogo di confine, tra la città e il suo fuori, diventa per quelle famiglie lo spazio della speranza.

Ma troppi in città, politici, operatori sociali e religiosi, hanno difficoltà a riconoscere quella umanità e senza tale riconoscimento le baracche non vengono considerate abitazioni ma rifiuti da smaltire. Gli uomini e donne diventano invisibili. Il loro vivere viene visto come un pericolo pubblico.

Ed ecco che lo spazio viene sgomberato, le baracche demolite. Vengono formulati costosi progetti sociali per migliorare la vita dei rom rumeni, per inserirli. Viene costruita una area attrezzata. Di tutta la baraccopoli non rimane traccia eppure ancora oggi molti dei rom che vivono nel’area del Comune pensano alla Spianà con nostalgia, come ad una età dell’oro.

Eppure la Spianà non era un villaggio romantico. Topi di vario calibro ce n’erano tanti. Eppoi quando pioveva c’era il fango. Perché rimanere li, come si poteva rimanere lì?

E la solita banale e chiara risposta che spiazza: per vivere. Ma come si fa a vivere così? Di cosa si ha nostalgia? In che cosa non è migliore l’area del comune?

Qualunque miglioramento senza riconoscimento dell’altro diventa qualcosa di invadente e fonte di esclusione. Ed il riconoscimento dell’altro passa da una prima elementare e fondamentale libertà, da un primo fondamentale diritto: l’abitare.

Cos’era la Spianà se non un luogo di vita. Non un posto ideale ma uno spazio, un posto per esercitare l’abitudine a vivere, luogo del possibile, della speranza.

Il tragitto per arrivare alla Spianà costringeva ad abbandonare il proprio mezzo ed a percorrere un sentiero, delimitato da un boschetto, al fine del quale si entrava in luogo e tempi di altri. In casa d’altri, spazio della protezione dell’intimità.

La struttura urbanistica della Spianà profuga dava l’idea di una vera e propria città con una articolata rete viaria, caratterizzata e determinata da una complessa rete relazionale/parentale; c’era un centro storico, su cui era situato un bar-forneria-dispensa, ed una periferia, anzi più periferie. Una via principale, portava a piccole piazze, in cui le varie famiglie allargate avevano costruito cortili; perfino una frazione, più distante, con una sua storia e una diversa umanità. L’ingegno personale costituiva una variabile importante per la realizzazione di spazi con più o meno agio. Ci si poteva imbattere in veri e propri salotti, camere con lenzuola di pizzo, e soprammobili strappati alla discarica e riposti su centrini; quadri, foto o semplicemente cartelloni pubblicitari a volte casuali, a volte esplicitamente scelti e sistemati per creare variopinte tappezzerie. Le strutture più precarie, di scarsa qualità, erano degli ultimi arrivati, o di giovani appena sposati. Qualcuno senza parenti si era sistemato più in disparte. In ogni piazzetta un angolo per far da mangiare col fuoco, alcune con tettoia. Altri ripari con tavole e sedie per poter stare fuori a chiacchierare, mangiare e bere. Luoghi e ripari per coltivare le relazioni e accogliere gli ospiti.

Alla Spianà una famiglia faceva il pane e gestiva lo spaccio-bar; nelle giornate di sole, all’aperto, un paio di ragazzi si trasformavano in barbieri. Ma altri servizi vi convergevano. Il primo fra tutti quello offerto dai trasportatori, postini instancabili di uomini e cose, collegamento vitale con la Romania. Ma anche servizi impensabili come il dentista: risoluzione di mali ma anche per ritocchi estetici (i denti “d’orati”)… A questi servizi avevano accesso anche altri rumeni.

La Spianà era rifugio, luogo abitato al minimo di giorno ed esplosione di vita la sera quando tutti vi confluivano riportando le sorti della giornata. Una frenesia di vita, musica, chiacchiere, battute, discussioni, viavai, ritrarsi e uscire, mangiare. E poi l’illuminazione, in alcuni momenti travolgente, esuberante, variopinta, una fila, più file di luci che diradavano nella periferia e non raggiungevano la “frazione”, alimentate da un generatore, a cui la colletta giornaliera garantiva la benzina necessaria. Piccole condivisioni che dicono di uno stare spartito.

Come un rifugio, una culla o un luogo sacro

Delle sere trascorse alla Spianà, ci sono ricordi caldi: l’orgoglio di un padre nel mostrare come scaldava la baracca dove stava il suo bambino appena nato, una sorta di presepe pre-natalizio. In quel luogo, spazio per la cura, si nasceva e si custodiva la vita, senza quel luogo si moriva.

Una delle prime sere una famiglia mi invita ad entrare nella sua baracca. Due nonni custodiscono un nipotino appena nato, David. In un improbabile italiano mi vogliono comunicare qualcosa. Di fronte a loro, su un adattato mobile, una bibbia in rumeno, che mi indicano. Capisco cosa volevano spiegarmi: il perché di quel nome biblico del bambino. Loro uomini di Dio. Ogni domenica frequentano la chiesa pentecostale. Sentono Dio con loro, lo ringraziano per quel posto che gli ha dato. E all’improvviso ho la percezione di essere in un luogo sacro, cattedrale domestica, non solo per l’evocazione al divino ma per la vita che viene li custodita.

Chi vi entra senza chiedere permesso, da padrone, con la legge in mano,  con una ruspa, diventa un profanatore di quello spazio sacro che è la dimora di ognuno.

Ed è così che la liturgia domestica prevede le occasioni di festa e la condivisione delle lacrime per il parente morto. Lo spazio addensato da odori di umanità profuga, è intriso dal profumo dei fuochi attorno a cui ci si scalda e cucina. Non puoi entrare in quelle case e non portare con te il gusto di cosce di pollo arrostito, di carne fritta, di verza e di pane caldo.

Addomesticare uno spazio

Lo spazio della Spianà era il “luogo del possibile”, potenziale attivo e attivabile, che si fondava su un autopotere di insediarsi in un territorio, nel rendere vivibile uno spazio.

Diversamente il “campo” istituzionalizzato, realizzato per migliorare la vita, diventerà il “luogo della sospensione”, del dipendere da qualcun’altro che deve decidere, da qualcosa che deve succedere; si è tenuti in stand-by; il tempo e lo spazio è reso incerto stabilmente, non c’è appropriazione, cura;diventa il luogo dell’estraneità.

Forse è la domesticità la categoria discriminante del farsi di uno spazio. E questa non può essere mai un a priori imposto e regolamentato. è l’addomesticamento del proprio abitare che da l’accesso alla cittadinanza piena, quella non da legalizzare ma da riconoscere.

Qualunque potere istituzionale, politico, economico o culturale o religioso, non è in grado di riconoscere tale necessità, non ne ha le categorie culturali e disconoscimento di questo spessore umano, relazionale, storico conduce inevitabilmente a disastri umanitari, approcci pietistici e derive assistenziali.

Se alla Spianà non c’era filo spinato questo circonderà la vita delle famiglie rom superstiti nel momento apice dell’accoglienza comunale.

Pur ai margini, pur tra i rifiuti, la Spianà invece è uno spazio sottratto alle delimitazioni, alle brutalità del potere intrusivo e espulsivo.

Gli indisciplinati rifugiati della Spianà resistono al filo spinato al quale sono destinati.

Se la Spianà è ancora il luogo dell’identità, il campo recintato, all’interno dell’avvolgente matassa del filo spinato, che insieme confina e custodisce, diventa invece il luogo della identificazione.

L’invasione del progetto sociale

Alla Spianà non c’erano assistenti sociali, animatori, maestri; la colonizzazione educativa era fuori gioco, il sistema professionale non era stato messo in “campo”.

Ed “Il fine della progettazione è assegnare più spazio al «buono» e meno spazio, o nessuno spazio, al «cattivo». è il buono che fa del cattivo ciò che è: cattivo. Il «cattivo» è lo scarto del miglioramento”. è quello che succederà a partire dallo smantellamento della Spianà. Quando a prevalere sarà proprio la progettazione sociale entrata in campo.

La progettualità non si limita a proporre, punta a modificare; per quanto proclami il coinvolgimento dei soggetti, oggetto di progettazione, ne reclama la regia, tende a creare una rete punta ad una maggior efficacia per imbrigliare il “deviante”, il diverso svantaggiato.

E “dove c’è progetto, ci sono scarti”.

Nelle mie foto di oggi mancano all’appello molti volti, la maggioranza. Sono uomini e donne disperse altrove a cercare fortuna alla loro vita. Scartate dal progetto sociale che considerava pericoloso il loro stare da baraccati.

Conclusione

Non posso riporre la foto senza accorgermi che in quelle foto ci sono anch’io, c’è la mia storia. Ed in questi anni di rapporto con le famiglie rom rumene che erano alla Spianà sono cambiato io, profondamente. Sono cambiate le mie relazioni personali, sociali e politiche, la mia fede. è stato un cammino meraviglioso e drammatico. Ne sono testimone e protagonista diretto.

E se anche da questa storia si potesse trarre una morale ci direbbe di evitare la tentazione di misurare, progettare e programmare la vita degli altri.

è certamente importante cercare di capire, analizzare e descrivere i cambiamenti dell’altro, ma è fondamentale esserne compagno, vicino di percorso. Quasi non accorgersi del cambiamento dell’altro perché il cambiamento avviene insieme. Cambia chi ti è accanto e cambi anche tu. Aver bisogno di una foto per vedere la strada percorsa.

Tutto ciò passa da una condizione fondamentale: il riconoscimento dell’umanità dell’altro ovunque e comunque.

Perciò l’accoglienza deve liberarsi, rendersi relazionale, reciproca e ordinaria. L’incontro con l’altro deve attivare politiche che permetta l’abitare dell’esistenza e una fede che sappia riconoscere i santuari di vita nei pellegrini che incrociamo.