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Commento alla riflessione di M. Morando (R.Iaria)
IV Convegno Ecclesiale Nazionale (Verona, 16-20 ottobre 2006)

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 6/06


Il recente Convegno Ecclesiale della Chiesa Italiana a Verona (16-20 ottobre 2006) sul tema “Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo” ha registrato una forte tensione all’evangelizzazione che ha caratterizzato l’intero Convegno al quale hanno partecipato 2.700 delegati di tutte le diocesi italiane. Con loro, per la prima volta, trenta cittadini immigrati in Italia e venti italiani residenti all’estero.

La Chiesa - ha detto don Michele Morando, responsabile del Centro Pastorale per le Emigrazioni della diocesi di Verona, aprendo i lavori del quarto giorno, poco prima dell’arrivo di Benedetto XVI - è “popolo qualificato, non da condizioni etniche o culturali, ma soltanto dall’elezione e dalla redenzione divina”. Per questo la Chiesa supera “ogni barriera razziale e culturale” e si “riconosce da Dio convocata ed edificata da ogni popolo stirpe e nazione”. Dentro la particolare esperienza ecclesiale non possiamo perciò - ha aggiunto il sacerdote - dimenticare le comunità cristiane che vivono in altre nazioni e culture e non possiamo ignorare i credenti, appartenenti ad altri popoli, che vivono oggi nel nostro Paese.

Don Morando, raccontando la sua esperienza di sacerdote “fidei donum” in Africa e, oggi, la sua esperienza come responsabile della pastorale degli immigrati nella diocesi scaligera, afferma che la “singolare dinamica di morte/vita, caratteristica della vita cristiana”, è declinata attraverso il passaggio da atteggiamenti di egoismo, di pregiudizio ed esclusione a relazioni fraterne, sincere, cordiali e cariche di autentica passione per l’altro. Questo comporta “necessariamente” una “continua conversione nelle relazioni, da attuare nelle nostre comunità cristiane, per renderle luoghi e segni di una nuova umanità fraterna”. Tale conversione deve estendersi, particolarmente oggi in un’epoca e in una cultura globale, ai rapporti tra le chiese e agli atteggiamenti verso i fratelli che da altre nazioni vengono a cercare in Italia ed in Europa nuove possibilità di vita. Le nostre chiese di antica origine, pur nelle fatiche di questo momento storico - secondo don Morando - sono chiamate a “superare il loro particolarismo per aprirsi ad uno scambio di doni e ad una generosità solidale verso le nuove chiese di altri continenti e verso le povertà e le situazioni di indigenza che spesso contrassegnano il loro contesto socio-economico”.

A Don Morando abbiamo rivolto alcune domande.

Lei ha detto che oggi il popolo di Dio è diventato o sta sempre di più diventando un popolo  multietnico e multiculturale che deve superare “la paura di perdere la propria identità culturale e l’insorgente tentazione di ridurre il cristianesimo a religione civile e a farne strumento di difesa contro la diversità degli stranieri”. Cosa significa concretamente?

Ritengo che troppi cristiani nel valutare il fenomeno dell’immigrazione dimenticano di interrogare la loro fede e di discernere gli avvenimenti secondo il progetto di Dio. Personalità del mondo politico e culturale sostengono oggi la necessità di una riaffermazione dei valori cristiani come fondamento dell’Occidente, in uno scenario di espansione dell’Islam. Questi propugnatori di un “cristianesimo civile” usano il cristianesimo come una sorta di nucleo di una ideologia politica. Fanno del cristianesimo non uno strumento di dialogo ma di contrapposizione, e lo fanno da “atei devoti”, senza cioè ispirarsi alla fede nel discepolato e nell’obbedienza al Vangelo. Noi invece dobbiamo proporci di far derivare le motivazioni di un approccio positivo al fenomeno migratorio dalla nostra fede e dalle Scritture che la ispirano. La Chiesa ha una parola originale da far intendere nell’attuale contesto geopolitico che è all’origine delle emigrazioni di massa e della crisi delle società europee che si ripiegano su se stesse nella paura dell’invasione. Il suo servizio si situa nella fedeltà totale alla mediazione aperta dalla vita, morte e risurrezione di Cristo (Erga migrantes, 18). Ma la Chiesa compie questa mediazione con discernimento, tenendo conto passo passo della complessità dei problemi sociali, politici e culturali nei quali il fenomeno emigrazione si evolve. Non c’è ingenuità nell’impegno cristiano. Nell’incontro con lo straniero la Chiesa è guidata da alcune convinzioni essenziali. Da una parte essa riconosce che la sua missione passa per il riconoscimento delle identità. Tanto delle identità collettive che di quelle personali. Il cammino della fraternità universale andrà di pari passo con quello del rispetto e dell’attenzione alle identità culturali particolari. E il significato della Pentecoste dove ciascuno intendeva “nella sua lingua materna” (At 2,8) la parola degli Apostoli. D’altra parte la Chiesa sa, in tutta la sua tradizione, che il peccato fondamentale consiste nel rifiutare l’altro e nel negare la differenza che permette lo scambio, la comunicazione. La storia passata e attuale ci parla delle tragedie causate dalla negazione delle identità e dall’ossessione della separazione. Le terribili violenze delle pulizie etniche non sono lontane da noi. Il culto idolatrino dell’identità può diventare assassino. Nella forza dello Spirito Santo, e nella ricerca senza posa dell’incontro con coloro che da diverse frontiere sono tenuti al di fuori della comunione, la Chiesa non cessa di riaffermare che una identità vera la si costruisce solo nell’incontro con gli altri. L’apertura allo straniero è condizione essenziale di sviluppo di ogni società”.

Oggi si dibatte molto, anche nella Chiesa, sul tema immigrazione e sul rapporto tra le Chiese e gli immigrati che vivono nel nostro Paese. Ma quale deve essere l’atteggiamento dei cattolici italiani verso i fratelli che vengono da noi a cercare nuove possibilità di vita? Come superare i particolarismi che sembrano regnare ancora nelle nostre diocesi e parrocchie?

La Chiesa italiana celebra quest’anno il 50° della Fidei Donum. Abbiamo mandato centinaia di preti, religiosi e laici nel mondo a portare il dono della fede e abbiamo gioito, come la Chiesa degli Atti degli Apostoli, nel ricevere i racconti di come sono stati accolti e di “come lo Spirito aggiungeva credenti alla sua Chiesa”. Come non sentirsi impegnati a dare la stessa accoglienza a coloro che oggi ci portano il dono della fede, provenendo dagli stessi paesi di missione? Ma ai cristiani io chiederei innanzitutto un atto di onestà che si motiva da una analisi corretta del fenomeno immigratorio. Dobbiamo riconoscere che l’immigrazione serve innanzitutto alla crescita dei nostri sistemi economici e produttivi, ed è necessaria per far fronte al pericoloso declino demografico dei nostri Paesi a cosiddetto “sviluppo avanzato”. Gli immigrati prima ancora di trovare il benessere cercato per se stessi, di fatto lo costruiscono per noi e con il loro lavoro contribuiscono anche allo sviluppo dei loro Paesi, come non hanno mai saputo fare i nostri piani decennali di cooperazione internazionale. Da questo atto di onestà dobbiamo far derivare azioni coerenti di accoglienza vera e propria e di integrazione.

“Un’altra linea di pensiero che ho sviluppato nella mia riflessione al Convegno di Verona parte dal concetto di “cattolicità”. Se la missione ad gentes è espressione di apertura all’universale come elemento costitutivo dell’esperienza cristiana, così le migrazioni sono segno visibile e richiamo efficace di come Dio realizza oggi questa profezia. Osserva la Erga migrantes al n°18 che “il cammino dei migranti può diventare segno vivo di una vocazione eterna, impulso continuo a quella speranza che, additando un futuro oltre il mondo presente, ne sollecita la trasformazione nella carità e il superamento escatologico”. I particolarismi li possiamo superare solo se in un profondo impegno di ri-evangelizzazione ci mettiamo ad ascoltare nuovamente il Vangelo di sempre e lo lasciamo parlare nuovamente al nostro cuore. Ed è il Vangelo che ci aiuterà a trasformare la paura dell’altro in amore per l’altro e, al limite, la xenofobia in filoxenia”.

Nella riflessione spirituale al Convegno don Morando si era interrogato se nel compito di testimonianza noi credenti non possiamo trovare degli “alleati inattesi” come uomini e donne di differenti popoli e culture, già presenti in mezzo a noi, che nelle loro tradizioni religiose o in una fede espressa con linguaggi nuovi cantano con semplicità le “meraviglie di Dio” e, anche se “spaventati dal nostro secolarismo”, continuano ad offrirci “il dono di una religiosità spontanea e di una fede vissuta con immediatezza. Come in un nuovo esodo biblico, essi portano con sé le speranze di famiglie, di clan e di popoli per nuove possibilità di vita e per un mondo più giusto e, al contempo, portano la frustrazione di chi è estraneo e non pienamente riconosciuto nella propria dignità e nel contributo che può offrire”.