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Una famiglia...a mare (G. Martino)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/06


 

Navigare per anni come cappellano, marittimo tra i marittimi ti fa intuire la “grave” assenza dell’esercizio degli affetti più profondi e radicati nella gente di mare.

L’accoglienza giornaliera degli equipaggi che passano sempre più velocemente per il porto della tua città ti fa capire come un semplice gesto di accoglienza dà lo stesso sollievo di un sorso d’acqua ad una persona arsa dal sole nel deserto.

Il girovagare tra i porti italiani e stranieri per incoraggiare i volontari, i cappellani e sensibilizzare le autorità marittime diventa apprezzabile solo per gli incontri e le esperienze appena citate.

Non mi piace dire che certe “assenze” si devono sperimentare per poterle capire, ma nel mondo del mare, è veramente così. Se ne parla poco ed ancora meno se ne conosce. Sono, orgogliosamente, prete marittimo da quasi vent’anni ed ogni volta che mi ritrovo a “raccontare” l’abbandono della gente di mare le persone mi guardano come se parlassi di un’antica quanto mai occultata tribù di indigeni della foresta amazzonica.

Siamo in un’Italia che al mare appartiene e dal mare tanto ha avuto e continua a ricevere. Si pensi che, nel nostro paese, circa l’80% delle merci di uso quotidiano sono trasportate via mare. Gli oltre 8000 chilometri di costa ci parlano di una lunga storia di pesca, di navigazione mercantile, di migliaia di vite perse o comunque dimenticate o abbandonate alla deriva.

Invisibili agli occhi dei più, nei nostri mari, transitano oltre due milioni di marittimi senza contare i pescatori e le altre categorie che vivono del mare.

Le condizioni lavorative variano sostanzialmente in base alla nazionalità della nave, dell’armatore e del marittimo stesso. Ancora oggi nei nostri porti occidentali incontriamo uomini e donne imbarcati con contratti fasulli, al di sotto dei minimi internazionali riconosciuti, obbligati a fare orari insostenibili per lunghi mesi e a volte anche per anni. Lontani dalla famiglia e dalla comunità, anche religiosa, di appartenenza, esiste solo il lavoro duro e senza alcuna interruzione neppure di un solo giorno, a volte, solo per le pochissime ore durante la sosta nei porti.

Che dire, poi, delle famiglie che li attendono? In Italia sono oltre 40mila i nuclei domestici che vengono letteralmente travolti dalle insopportabili assenze di  uno o più dei propri cari per lunghi mesi. Quando, alcuni anni fa, abbiamo fatto un Tour di S.O.S. in 25 porti italiani abbiamo raccolto tanti temi e testimonianze di figli di marittimi e pescatori. Ad Augusta una giovane ha raccontato del papà da poco defunto. Un uomo, per lo più sconosciuto nell’infanzia e poco tollerato, quando tornava a casa, nell’adolescenza e nella giovinezza. Un padre riscoperto nei pochi anni della meritata pensione che aveva veramente dedicato tutta la propria vita al benessere e alla sopravvivenza della propria famiglia. Un padre che l’ha immensamente e teneramente amata senza trovare mai le parole, i modi e soprattutto la familiarità di farglielo sapere. L’assemblea, nel Palasasol, era silenziosamente concentrata sul viso della giovane che raccontava la sua esperienza con grande dolcezza assieme al rancore per le navi che hanno, le avevano rubato un affetto dovuto e così tardi ritrovato.

I bimbi di Sorrento erano ugualmente infastiditi da questi soggetti che vedono raramente e che non sanno fare altro che borbottare mentre si installano in casa a guardare le televisione almeno sino al giorno del nuovo imbarco. “Almeno, quando mio padre torna a casa,” - sottolineavano alcuni - “mi porta tanti bei regali”.

Nel mondo una Chiesa, altrettanto silenziosa, opera nei porti di oltre 200 città accogliendo queste persone per dare loro “una casa lontano da casa”.

Sono i Centri di Accoglienza della “Stella Maris” in cui sacerdoti e volontari dell’Apostolato del Mare tentano iniziative di accoglienza nelle poche ore di sosta delle navi.

Sono iniziative lodevoli e spesso ragione anche di sopravvivenza per alcuni presi ormai dallo sconforto o che si sentono abbandonati dai propri cari o comunque impossibilitati a condividere ogni cosa con loro come desidererebbero.

La famiglia rimane, comunque, fatalmente separata, ferita nella sua essenza più profonda, ineluttabilmente segnata nel suo stesso fondamento. Manca il tempo e manca il luogo dell’esercizio degli affetti più profondi e, alla lunga, si insinua, da entrambe le parti, per il marittimo e per la sua famiglia, la rassegnazione.

La Chiesa, la comunità cristiana di provenienza, da una parte e del porto di accoglienza, dall’altra, devono essere maggiormente capaci di operare con rinnovata sinergia per diventare entrambe il prolungamento dei tempi e del luogo dell’esperienza dell’affettività familiare.

La nostalgia esiste in quanto manca ciò che c’era o ci dovrebbe essere. Non esiste la nostalgia senza il bene che ci manca e a cui vorremmo tornare.

Se la nostalgia fa vivere in una tensione del “non-ancora” è anche vero che diventa motivazione traente e giustificazione del sacrificio dell’assenza forzata.

Compito della Chiesa è raccogliere queste istanze, queste esperienze e i desideri profondi della famiglia per divenire essa stessa luogo e tempo degli affetti familiari, della storia, dell’esperienza, pure ferita, di una famiglia forzatamente lontana nello spazio ma sanata nella sua più profonda esperienza.

Nella dimenticanza di un mondo che continua la sua corsa travolgendo i più deboli e quanti vivono il fenomeno della mobilità estrema il Vangelo e la Chiesa ci insegnano che il valore essenziale da rispettare deve essere, anzitutto, la dignità dell’uomo e che l’economia è per l’uomo, e non l’uomo per l’economia.

Le Chiese e le comunità ecclesiali hanno perciò un dovere particolare di testimoniare, insieme, a livello ecumenico, la loro diakonia al servizio dell’uomo dovunque egli sia, chiunque egli sia per essere, ove esiste un uomo o una famiglia lontani dagli affetti veri, il luogo, una vera casa, anche, lontano da casa.