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Le famiglie dei Rom e Sinti (L. Caffagnini)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/06


 

«Se voglio celebrare il mio matrimonio in chiesa perché non posso celebrarlo come iniziato nel giorno in cui io e mia moglie siamo scappati insieme?… ». La domanda, fatta da B. all’amico prete con cui ha condiviso un tratto di vita, prima vicini di tenda a Bolzano, poi di roulotte, in una amicizia ed una stima che gli anni e la diversità di luogo non hanno affievolito, può illustrare uno degli aspetti che si trovano di fronte coloro che si dedicano all’evangelizzazione dei Rom e dei Sinti, in alcuni casi lasciandosi accogliere da loro nei campi sosta o nei terreni in cui vivono.

Parliamo dell’incontro tra culture e fedi diverse o tra diversi modi di vivere la fede, anche se non è ancora assodato il fatto che la cattolicità della Chiesa - che professiamo ogni domenica - non risieda solo nella sua espansione in ogni angolo della terra ma anche in mille modi di recepire e metabolizzare la buona notizia dell’evangelo, non solo in capo al mondo ma anche dentro e fuori le nostre città.

La richiesta di retrodatazione del matrimonio dice l’importanza del gesto che, seppur non riconducibile all’interno del rito del sacramento e di quella che viene chiamata la sua “forma canonica” (il consenso scambiato in presenza di un prete), per chi lo agisce ha la stessa valenza. Continuava B: «… è da allora che abbiamo lasciato il campo, abbiamo promesso, abbiamo fatto figli». Nel ricordare le affermazioni dell’amico morto prematuramente all’inizio di quest’anno, don F. sottolinea «la serietà con cui loro hanno vissuto la vita da moglie e marito. Sapevano che c’erano momenti di grande gioia e di grande difficoltà, sacrifici, malattie. E le hanno vissute insieme».

La storia di questa coppia ripropone un vissuto di molti: «Quando capita che una coppia sinta, con anni di vita familiare alle spalle, vada in parrocchia a chiedere il sacramento del matrimonio, vediamo che prova una sorta di vergogna. E questo non perché pensano di aver fatto qualcosa di sbagliato (nella loro cultura, nel loro ambiente, infatti, sono realmente marito e moglie) ma proprio perché sentono umiliata la realtà significata a partire da tutto il tempo in cui sono stati insieme. Secondo me quello di B. e P. è simile ai matrimoni antichi: solo a partire dal IV secolo si trovano testimonianze di un rito cristiano specifico per il matrimonio e fino al Concilio di Trento non era obbligatorio che il consenso fosse scambiato davanti ad un prete. I due, battezzati, dichiarano in quel modo, tipico della loro cultura, il loro stare insieme per la vita, davanti a un testimone, che in questo caso è il gruppo familiare allargato».

Non si tratta di una novità, prosegue Cipriani: ai tempi dell’Oasni (Opera assistenza spirituale nomadi in Italia), che ha preceduto la Fondazione Migrantes, aveva sollevato il problema monsignor Abele Conigli, incaricato per la pastorale tra i Rom e Sinti. Il problema è certo più ampio e riguarda anche altri contesti e culture e ancora oggi la Chiesa fa fatica a riconoscere come matrimonio il tempo trascorso prima del rito in chiesa. Ma il vissuto di queste famiglie è alla pari di quello di tante famiglie, e dentro il gruppo esse si sentono forti di questo loro status. All’esterno si sentono invece più fragili, forse hanno paura di non essere riconosciute, e se un gagio (non zingaro) chiede loro se sono sposati prima rispondono di sì, poi, se insiste a chiedere dove e come, “traducono”: “conviviamo”. Ma sanno che non è vero, in realtà si sentono sposati, davanti alle loro famiglie e davanti a Dio.

«Sarebbe una bella pastorale se nella preparazione al matrimonio, quando viene richiesta, si tenesse conto di tutta la loro intera vita matrimoniale e si guardasse al tempo precedente come a un tempo particolare e delicato in cui la coppia vive già insieme e che “porta” nella celebrazione» suggerisce don F.

In effetti non è insignificante il numero di famiglie sinte che quando chiede il matrimonio lo desidererebbe con  riconoscimento retroattivo. Famiglie che stanno facendo un cammino di fede come quello degli amici del nostro interlocutore: lettura e commento della Bibbia con gli operatori pastorali, avvio dei figli ai sacramenti, cammino di preghiera nella malattia e nel momento del commiato. «Vogliamo fare con i nostri bambini tutto quello che nostro padre ha fatto per noi»: la testimonianza dei figli della coppia che vogliono trasmettere ai loro figli il dono ricevuto dice quanto la fede era una realtà nella campina di B. e P.

La domanda da cui siamo partiti mette in gioco anche un discorso più ampio di riconoscimento culturale, difficile sia per lo Stato, che per le Chiese, non solo in Italia. Neanche riti matrimoniali altamente codificati come quello dei rom ungheresi Magiaria, vengono riconosciuti. Ma altri interrogativi e squarci di novità aprono le famiglie di Rom e Sinti nel cammino dei singoli o delle comunità che li accompagnano. Qui li enumereremo solo per titoli.

Gli operatori pastorali che hanno l’UNPReS come punto di riferimento spesso non sanno come comportarsi di fronte a coppie sposate “alla sinta”. Cresce in loro il disagio per il diverso trattamento riservato nelle parrocchie a famiglie gage o zingare: ci sono parroci che faticano ad accogliere le richieste dei sinti di celebrare il funerale di un congiunto o di preparare ai sacramenti i figli, negando tout court o delegando a qualche operatore, se ce n’è qualcuno in zona, tutt’al più “prestando” la chiesa. Un atteggiamento di questo genere non raggiunge lo scopo che si prefigge, cioè rischia di allontanare definitivamente dalla pratica ecclesiale, invece di accogliere e promuovere una partecipazione sempre più motivata ed autentica.

Su un altro versante non viene offerta fiducia alle famiglie rom e sinte riguardo all’educazione dei figli: troppo spesso queste famiglie vengono smembrate dai servizi sociali delle amministrazioni locali o i figli tolti ai genitori dai tribunali e dati in affido o adozione senza che la Chiesa dica una parola al riguardo. «è vera una sacralità della famiglia che non è per tutte?» si sono chiesti alcuni operatori del nord Italia in un recente incontro a Bologna. E l’accalorata richiesta di “apertura alla vita” indirizzata ai cristiani riguarda tutti o avere una famiglia numerosa è considerata una virtù solo per i cristiani gagi?

E infine la realtà della famiglia come laboratorio di una società multietnica e multireligiosa. Mentre ancora si discute e si litiga sulla presenza nelle nostre società dello straniero e si chiedono provvedimenti per limitare le entrate e così mantenere una società monoculturale e monoreligiosa, non ci si accorge che invece la società è ormai plurale, non solo perché include singoli e famiglie provenienti da ogni continente e prossimi ad acquisire la cittadinanza italiana, ma anche perché enumera famiglie nuove che sulla propria pelle vivono lo sposalizio tra diversi per cultura e religione. Tra questi ci sono anche consorti gagi e sinti o gagi e rom, in Italia così come in Europa. «Persone che per amore di un uomo o di una donna hanno congiunto le proprie sorti con quelle di chi è spesso escluso dalla propria gente, e senza misurare i possibili rischi a cui andavano incontro. Queste vocazioni sponsali - parole di un operatore che vive in una consorteria nata dalle nozze tra una gagi e un sinto che conta ormai quattro generazioni - formano già il tessuto di questo popolo».

Per chi si riconosce nella definizione di parrocchiano, cioè straniero, un richiamo forte a recuperare il senso profondo e bello di questa parola.