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La famiglia italiana in emigrazione (D. Locatelli)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/06


LA FAMIGLIA ITALIANA IN EMIGRAZIONE

 

Domenico Locatelli

 

Premessa

Parlare di famiglia oggi significa già fare i conti con una situazione scollata dove si ha l’impressione che la famiglia non esista più. Se poi si coniuga questa realtà sociale con il taglio dell’emigrazione constatiamo da una parte la forza che la famiglia ebbe ed ha nella propulsione ad emigrare e a tener duro in una esperienza per lo più drammatica e dall’altra la mortificazione che questo bene sociale ha subito e subisce nelle pieghe pesanti dell’emigrare.

Non possiamo certo dire che l’emigrazione fa bene alla famiglia, anche se è sicuro il dato che molti successi iscritti nel contesto dell’emigrazione italiana vanno attribuiti quasi esclusivamente alla forza delle famiglie.

La nuova mobilità, 45.000 persone lasciano annualmente l’Italia, è per lo più composta da giovani single diplomati che cercano una realizzazione professionale per lo più preclusa nella propria regione. Si registrano tuttavia, nuclei familiari giovani che si trasferiscono anche temporaneamente per un contratto di lavoro che li vede impegnati in progetti multinazionali.

Un riferimento storico

Lo sguardo storico ci consegna una famiglia che nella fase finale della prima generazione italiana, attorno agli anni ’60, esercitò un riferimento di grande spessore. Si emigrava per la famiglia che restava in patria perché potesse avere una risorsa economica capace di toglierla dalla miseria, il ricongiungimento segnava il passo decisivo per una stabilità accettabile. Allo stesso tempo coesistevano gli aspetti più problematici e negativi che mettevano a dura prova la famiglia. Le vedove bianche, il ritorno dell’emigrante giusto il tempo per procreare un nuovo figlio e poi si ripartiva, gli orfani bianchi affidati soprattutto alle donne  e all’abbraccio sociale di una comunità che affrontava uno squilibrio sociale di non poco conto, sono aspetti che segnarono profondamente la famiglia contadina stravolta dall’emigrazione. All’estero, tutta la famiglia veniva coinvolta attorno al primo obiettivo per cui si emigrava: il lavoro. In quasi tutte le famiglie i due adulti lavoravano contemporaneamente, spesso era un doppio lavoro per entrambi. I figli, lasciati per lo più ad una balia, o lasciati al paese presso un collegio o presso i nonni, crescevano con pochi contatti con i propri genitori, quando non erano veri e propri figli clandestini all’estero che sopravvivevano con molta precarietà ad ogni livello: scolastico, sociale ed affettivo. Quando la miseria e la difficoltà economica la fa da padrona allora, il risparmio ed il fare sacrifici per raggiungere la sicurezza economica, sono le sole cose che contano, non esiste altra preoccupazione.

Una volta usciti dalla miseria e raggiunta una tranquillità economica, è allora che si comincia ad aprire ad altri valori: partecipazione, associazione, religione, istruzione.

Non sempre i valori fondamentali che erano saldi e sicuri alla partenza hanno mantenuto la valenza portante: spesso infatti sono trascurati e vengono declassati con facilità adagiandoli ad un lassismo e superficialità che non permettono una evoluzione positiva della coppia e della famiglia stessa. A volte si è assunto un profilo basso che costringe ad una invisibilità che rasenta la non significanza.

Un mito che fatica a resistere

La famiglia italiana all’estero è circondata da lodi e da celebrazioni che non sempre hanno corrispondenza nel reale. Una famiglia compatta ed unita è la descrizione che per lo più si fa della famiglia italiana.

Nella prima generazione il modello di famiglia stabile sembra reggere. Tuttavia sempre più si registra la difficoltà nella coppia che raggiunge l’età della pensione. Spesso subentrano profonde crisi che manifestano una fragilità di tutta la famiglia che si scopre incapace di dialogare, che ha condotto esistenze sconosciute e costrette dall’esigenza del “lavoro a più non posso” che non ha permesso una crescita nel dialogo, nella conoscenza reciproca, nella accettazione di una evoluzione di ruoli e di crescita culturale importante. Spesso si ha la constatazione che si viveva una mera convivenza fisica sotto lo stesso tetto dove i ruoli assunti alla partenza tra uomo e donna non reggevano più nel nuovo contesto d’emigrazione. Il ricorso ai servizi sociali, spesso, manifestano povertà umane profonde che hanno mantenuto l’incapacità di una progettualità anche solo economica comune, il non apprendere le maniere di un vivere civile rispettoso e sereno,  il non gestire in modo creativo e condiviso il tempo libero, le relazioni associative, il gusto del far festa, l’approccio alla realtà religiosa o culturale. In molte famiglie emigrate la vita a due non è mai iniziata.

Esistono tuttavia, famiglie buone con un vissuto di tutto rispetto. Coppie che hanno condiviso fatiche ed umiliazioni iniziali e questo le ha rafforzate e rese capaci di lottare per il bene dei figli e per mantenere alto il proprio onore. Famiglie che si sono impegnate a tempo pieno nelle associazioni o nella parrocchia seguendo la vita della comunità offrendo il loro contributo con il loro lavoro e la loro disponibilità. Il volontariato degli italiani all’estero è un contributo prezioso che le famiglie italiane hanno saputo riversare nelle comunità e nelle stesse parrocchie territoriali. Diverse famiglie hanno lavorato sodo per l’educazione propria e dei loro figli, sia impegnandosi a mantenere la propria cultura e insistendo per un insegnamento della lingua e cultura italiana da trasmettere ai propri figli, sia partecipando con serietà, nonostante la fatica della lingua, alla formazione religiosa rinsaldandola attraverso il catechismo e la partecipazione alle iniziative parrocchiali e civili.

Le seconde generazioni

In famiglia si è vissuta la sofferenza maggiore del rapporto tra prima emigrazione e le generazioni nate dall’emigrazione. Prima di tutto la lingua, che resta comunque e sempre la  differenza incolmabile che mette a disagio entrambi. L’approccio alla vita amministrativa e civile è il secondo momento dove le nuove generazioni sono indispensabili per risolvere la gestione di incombenze amministrative quali i permessi di soggiorno, i rapporti con le istituzioni di ogni tipo, il disbrigo delle adempienze amministrative, i contatti con gli uffici pubblici. La mediazione dei figli era soprattutto la delega obbligata fatta a coloro che, non di rado, vivevano con disagio l’essere figli di emigranti.

La famiglia della seconda generazione, poi, ha assunto velocemente lo standard della famiglia locale, sia essa tedesca, che belga, americana o svizzera: le convivenze, i matrimoni civili, i matrimoni religiosi ridotti spesso a sola scenografia, il tasso di separazioni e di divorzi e il numero di aborti sono elevati e, fra poco, si allineano alla media locale. Le coppie miste per disparità di culto tra cattolico e protestante, o cattolico e ortodosso e quelli di mista religione tra cattolico e musulmano, e cattolico e senza religione rappresentano una percentuale significativa. Il più delle volte hanno in comune una condivisa indifferenza alla realtà religiosa, una pratica inesistente ed un relativismo che porta ad un consenso, richiesto dai sacramenti, puramente formale. 

Non di rado la famiglia degli emigranti diventa il rifugio non educativo per figli che vanno a vivere da soli ma mantenendo un rapporto “conveniente” con i genitori utilizzandoli per far quadrare il magro bilancio economico o per mantenere i servizi base di gestione domestica come il lavare, stirare e cucinare che non sono sempre garantiti dalle convivenze improvvisate e provvisorie che iniziano e terminano con tempistica assai breve. Terminata l’esperienza di convivenza, si rientra con facilità in famiglia, favorendo un “familismo amorale” che non aiuta a crescere né i giovani né i genitori che si accomodano in sentimentalismi superficiali.

Ma anche qui, non possiamo generalizzare: esistono giovani soprattutto non italiani che stimano la semplicità della famiglia italiana e ne partecipano i momenti sociali ed i riferimenti religiosi e tradizionali. Una solidarietà familiare esercita ancora un fascino e sa coinvolgere i giovani in un grado di partecipazione  anche esemplare.

Famiglia e MCI

Per le Missioni Cattoliche Italiane il lavoro più importante fu sempre riservato alle famiglie. Le molte feste italiane organizzate dalle MCI vedevano sempre come protagonisti i nuclei familiari con i diversi figli, almeno fino all’età dell’adolescenza. Oggi continuano gli anziani e le famiglie delle nuove generazioni che, pur in numero inferiore, accompagnano i propri figli favorendo anche la trasformazione dei momenti conviviali e sociali delle associazioni chiamate sempre più ad un adeguamento ad una società in continuo cambiamento.

Sono tante le cose che le MCI hanno messo in atto per aiutare la famiglia emigrata. A prescindere degli aiuti di ogni tipo offerti alle coppie e ai figli a livello individuale, le Missioni hanno investito molto nell’ambito della formazione.

Un lavoro esemplare, quasi mai esistente come proposta della parrocchia locale, sono i corsi di preparazione al matrimonio. Un lavoro fedele ed impegnativo, sullo stile italiano, che ha sostenuto numerosissime coppie in vista del matrimonio celebrato sia nelle parrocchie locali che nelle parrocchie di provenienza. In molte MCI è significativo il lavoro di accompagnamento delle giovani coppie nei primi anni di matrimonio, così come il sostegno per i primi elementi di formazione religiosa per i bambini da 0 ai 6 anni.

Non è trascurabile l’impegno per la costituzione e la gestione dei centri familiari per famiglie emigrate o nate dall’emigrazione: nei momenti di crisi svolgono un servizio di discernimento importante. Oggi si stanno specializzando per un aiuto alle coppie anziane che hanno bisogno di apprendere ad invecchiare insieme con armonia e serenità.

Alcune Missioni Cattoliche Italiane hanno lavorato molto per una spiritualità della famiglia e attraverso ritiri ed incontri di preghiera e accoglienza della parola di Dio promuovono cammini di formazione religiosa e forniscono occasioni per una solida crescita spirituale cristiana.

Oggi, la complessità e la fragilità della famiglia sollecitano molto le MCI perché rivedano in profondità il loro servizio alla famiglia. C’è bisogno di riflettere ed esprimere una nuova maniera di accostare la famiglia, senza trascurare il lavoro in profondità di rimotivare il valore di fondo della famiglia stessa, togliendola dal quadro di relativismo e marginalità in cui è relegata.

Alcuni documenti della Chiesa

Riportiamo alcuni riferimenti del pensiero della Chiesa che manifesta attenzione specifica per il contesto migratorio che vede la famiglia come soggetto a rischio di precarietà ma anche come potenzialità capace di far superare, senza troppi danni, intemperie e naufragi.

è un tema troppo importante per essere affrontato con superficialità: le adempienze e la complessità della materia ci impone una attenzione approfondita che non può essere conclusa in queste poche righe di riflessione.

- “Per la particolare condizione di vita dei migranti, la pastorale deve altresì dare molto spazio, sempre in prospettiva liturgica, alla famiglia, intesa come “chiesa domestica”, alla preghiera in comune, ai gruppi biblici familiari, alle risonanze in famiglia dell’anno liturgico (cfr. Eeu 78 Ecclesia in Europa di Giovanni Paolo II).

- Meritano una attenta considerazione le forme di benedizioni familiari proposte dal Rituale delle Benedizioni [12- dal n. 404-433].

- Si assiste, oggi, a un rinnovato impegno per coinvolgere le famiglie nella pastorale dei Sacramenti, la quale può dare nuova vitalità alle comunità cristiane. “Molti giovani (cfr pag. 53 Pastores Gregis di Giovanni Paolo II) e adulti riscoprono infatti, per questa via, il significato e il valore di itinerari che li aiutano a rinvigorire la loro fede e la vita cristiana” (Erga migrantes caritas Christi, n. 47).

- “In relazione ai migranti cattolici la Chiesa contempla una pastorale specifica, dettata dalla diversità di lingua, origine, cultura, etnia e tradizione, o da appartenenza ad una determinata Chiesa sui iuris, con proprio rito, che si frappongono spesso a un pieno e rapido inserimento dei migranti nelle parrocchie territoriali locali, o che sono da tener presenti in vista dell’erezione di Parrocchie o Gerarchia propria per i fedeli di determinate Chiese sui iuris. Ai tanti sradicamenti (dalla terra d’origine, dalla famiglia, dalla lingua, ecc.) a cui l’espatrio forzatamente sottopone, non si dovrebbe infatti aggiungere anche quello dal rito o dall’identità religiosa del migrante (Erga migrantes caritas Christi, n. 49).

- “Per quanto riguarda poi il matrimonio fra cattolici e migranti non cristiani lo si dovrà sconsigliare, pur con variata intensità, secondo la religione di ciascuno, con eccezione in casi speciali, secondo le norme del CIC (Codex Iuris Canonici) e del CCEO (Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium). Bisognerà infatti ricordare, con le parole di Papa Giovanni Paolo II, che: “Nelle famiglie in cui ambedue i coniugi sono cattolici, è più facile che essi condividano la propria fede con i figli. Pur riconoscendo con gratitudine quei matrimoni misti che hanno successo nel nutrire la fede sia degli sposi sia dei figli, il Sinodo incoraggia gli sforzi pastorali volti a promuovere matrimoni tra persone della stessa fede” (Erga migrantes caritas Christi, n. 63).

- “In caso poi di richiesta di matrimonio di una donna cattolica con un musulmano - fermo restando quanto è espresso al numero 63, pur tenendo presenti i giudizi pastorali locali -, per il frutto anche di amare esperienze, si dovrà fare una preparazione particolarmente accurata e approfondita durante la quale i fidanzati saranno condotti a conoscere e ad “assumere” con consapevolezza le profonde diversità culturali e religiose da affrontare, sia tra di loro, sia in rapporto alle famiglie e all’ambiente di origine della parte musulmana, a cui eventualmente si farà ritorno dopo una permanenza all’estero.

- In caso di trascrizione del matrimonio presso un Consolato dello Stato di provenienza islamico, la parte cattolica dovrà però guardarsi dal pronunciare o dal firmare documenti contenenti la shahada (professione di credenza musulmana). I matrimoni tra cattolici e musulmani, avranno comunque bisogno, se celebrati nonostante tutto, oltrechè della dispensa canonica, del sostegno della comunità cattolica, prima e dopo il matrimonio. Uno dei servizi importanti dell’associazionismo, del volontariato e dei consultori cattolici, sarà quindi l’aiuto a queste famiglie nell’educazione dei figli ed eventualmente il sostegno verso la parte meno tutelata della famiglia musulmana, cioè la donna, nel conoscere e perseguire i propri diritti.

- Per il battesimo dei figli, infine, nel nome delle due religioni sono - come si sa - fortemente in contrasto. Il problema va posto quindi con grande chiarezza durante la preparazione al matrimonio e la parte cattolica dovrà impegnarsi su quanto la Chiesa richiede. La conversione e la richiesta del Battesimo di musulmani adulti esigono pure una ponderata attenzione, sia per la natura particolare della religione musulmana che per le conseguenze che ne derivano” (Erga migrantes caritas Christi, nn. 67-68).

- Nell’adempimento dei loro compiti specifici, i Laici si dedichino all’attuazione concreta di ciò che la verità, la giustizia e la carità richiedono. Essi devono quindi accogliere i migranti come fratelli e sorelle e adoperarsi affinché i loro diritti, specie quelli che riguardano la famiglia e la sua unità, siano riconosciuti e tutelati dalle Autorità civili” (Erga migrantes caritas Christi, Cap. I I fedeli laici, Art. 2§ 1).

- “La Convenzione fa riferimento anche a quelle già esistenti, sempre in ambito internazionale, i cui principi e diritti possono coerentemente applicarsi alla persona dei migranti. Richiama ad esempio le Convenzioni sulla schiavitù, quelle contro la discriminazione nel campo dell’istruzione e ogni forma di discriminazione razziale, e altresì i Patti internazionali sui diritti civili e politici e quelli sui diritti economici, sociali e culturali, nonché la Convenzione contro la discriminazione nei confronti delle donne, e quella contro la tortura e altro trattamento o punizioni crudeli, inumane o degradanti. Va menzionata inoltre la Convenzione sui diritti dell’infanzia e la dichiarazione di Manila del IV Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei trasgressori. Di rilievo è dunque il fatto che anche i Paesi che non hanno ratificato la Convenzione circa la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, sono tenuti ad osservare le Convenzioni sopra ricordate, naturalmente se le ratificarono o vi avessero successivamente aderito. Per i diritti dei migranti nella società civile vedasi, per esempio, da parte ecclesiale, Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Laborem Exercens, 23: AAS LXXIII (1981) 635-637” (Erga migrantes caritas Christi, nota 5).