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Chiese locali, pastorale migratoria, missioni italiane (R. Iaria)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 4/06


I dati

Le scelte delle Chiese locali circa la pastorale migratoria e le strutture delle Missioni Cattoliche Italiane in Europa sono al centro dei vari incontri che si svolgono in tali Missioni in due sessioni annuali, 4 consigli nazionali di Delegazioni e altrettante a livello regionali  e tra i Delegati nazionali che si riuniscono due volte all’anno. L’ultimo incontro si è svolto a Glasgow, in Scozia, su iniziativa dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale degli Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes della CEI.

Nel mondo gli italiani sono 3.106.251 (cfr. recente “Rapporto Italiani nel Mondo 2006”, voluto dalla Fondazione Migrantes e realizzato dall’équipe del Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes con la collaborazione di rappresentanti di diverse realtà sociali e della Chiesa come i Missionari Scalabriniani, le Acli, l’Inas-Cisl e il Mcl). Di questi il 60% risiede in Europa con presenze significative in Germania (primo Paese di insediamento), Svizzera, Francia e Belgio. I discendenti degli italiani nel mondo, con o senza cittadinanza, sono stimati sui 40-45 milioni. E ancora oggi dai dati Istat sulle iscrizioni e cancellazioni anagrafiche risulta che dal 1996 al 2000 i rimpatri sono stati, in media, 31.000, contro 43.000 espatri.

La presenza degli italiani nel mondo, quindi, non può lasciare indifferente la Chiesa che opera al loro fianco impegnandosi per il loro benessere spirituale ma anche per l’assistenza sociale e materiale attraverso le Missioni Cattoliche Italiane (MCI). Nel mondo esistono 431 centri con 543 sacerdoti, 166 suore e 51 operatori laici.

L’emigrazione italiana soprattutto in Europa non è, quindi, certamente un fatto del passato ma coinvolge ancora il nostro Paese anche se, spesso l’opinione pubblica non se ne rende conto in quanto nell’ultimo decennio è stata “distratta” dalla consistente venuta di immigrati stranieri in Italia che ha assorbito molte energie ed attenzioni facendo finire nel dimenticatoio - o relegandola agli addetti ai lavori - la presenza italiana all’estero. Da una recente indagine tra i giovani italiani con titolo di studio medio-alto, è emersa la disponibilità a lasciare il nostro Paese per andare a vivere all’estero: Spagna, Regno Unito e Francia sono i Paesi migliori in cui è possibile realizzarsi professionalmente ed economicamente, secondo l’inchiesta (Indagine Eurispes, Un italiano su tre andrebbe a vivere all’estero, 2006).

I problemi

L’Europa quindi è vista - nell’immaginario - come il Continente dove poter vivere e realizzarsi. In questo continente le nostre MCI vivono una particolare situazione: le Chiese locali in nome di una immediata e totale integrazione intendono ridurre le Missioni italiane creando momenti di disagio tra i nostri connazionali. Infatti hanno “l’impressione” che non ci sia piena accoglienza nelle Chiese locali ritenute per le nostre MCI fautrici di una pastorale “parallela”, mentre cresce il bisogno delle comunità di italiani di incontrarsi, soprattutto quelle della prima generazione che sono ancora numericamente consistenti e professionalmente forti.

Dal Belgio alla Germania, dalla Francia alla Scandinavia alla Svizzera la situazione non cambia: “Ci viene chiesto di sentirci dentro la Chiesa locale”, spiegano i responsabili delle Delegazioni nazionali delle MCI in Europa, molte delle quali non hanno più una struttura autonoma ma operano dentro la struttura di una parrocchia territoriale soprattutto là dove la parrocchia era in crisi. “Non si è ancora acquisito il principio - affermano - della ricchezza della diversità: essere unica Chiesa non significa scomparire ma esserci con la propria identità”. Questa realtà obbliga i nostri missionari a farsi promotori di una pastorale “non riduttiva ma estensiva, e non solo legata alla lingua”, dice il Delegato della Germania.

Il clima che si percepisce un po’ ovunque è quello della “smobilitazione”: è in crisi il modo di fare pastorale perché la seconda generazione dei nostri connazionali, che è preponderante, tuttavia non è presente nelle MCI dal momento che la catechesi si svolge nella parrocchia locale. Questi giovani vivono tra due culture e, spesso, sono disorientati.

In Svizzera recentemente si è svolto un confronto serrato sul ruolo del delegato nazionale che, secondo le intenzioni della Conferenza Episcopale della Svizzera dovrebbe essere impegnato a fianco degli italiani per il 50% del suo tempo. I missionari italiani, invece, si  sentono componenti della Chiesa locale e ci tengono a “non confondere l’uniformità con la cattolicità, sottolineando che la specificità non coincide con la nazione a cui appartengono, ma è nel confronto e dialogo della diversità che la propria identità si delinea ed esprime la propria religiosità come ogni tradizione suggerisce”.

In Svizzera vivono oltre 400.000 emigrati italiani: di questi 120.000 hanno il doppio passaporto italo-svizzero (Zurigo ne conta il 42%). La doppia cittadinanza mostra la decisione dei nostri connazionali a restare in questo Paese dove sono abbastanza integrati e dove - come si evince dal bellissimo lavoro di ben settecento pagine diretto dal missionario p. Graziano Tassello, “Diversità nella Comunione. Spunti per la storia delle Missioni Cattoliche Italiane in Svizzera 1896-2004” - gli italiani hanno scritto una significativa storia della Chiesa locale.

In Inghilterra, dove vivono circa 250.000 italiani dalla prima alla quarta generazione oltre ad una forte presenza di studenti italiani, sono pochi quelli fedeli alla pratica religiosa, forse anche a causa degli scarsi rapporti con la Chiesa di partenza. Qui gli italiani della prima generazione continuano a tenere i legami con le MCI mentre la seconda e la terza generazione è più dispersa e di poca pratica religiosa, anche nella Chiesa locale: si sente il bisogno di sacerdoti italiani.

In Francia ed in altri Paesi d’emigrazione, poi, è difficile definire la “comunità italiana”. L’età e le distanze fanno sì che non ci si incontri e le comunità chiedono “servizi”. Anche qui il bisogno di strutture per gli italiani. La Chiesa francese invece chiede che si entri nelle strutture locali per l’animazione. Una richiesta - come anche in altri Paesi - che preoccupa i rappresentanti delle MCI perché si rischia la “sparizione” della nostra comunità come entità etnica.

Integrazione

Questi temi sono al centro di vari incontri che nelle MCI si svolgono periodicamente e vengono riproposti nei convegni nazionali. Come è avvenuto nel corso di un simposio sul tema “Promuovere l’integrazione. Costruire la via insieme. La Chiesa in una società di immigrazione”, promosso dalla Commissione Episcopale per l’Emigrazione della Conferenza Episcopale Tedesca che intende organizzare, per il prossimo anno, un grande convegno sul tema dell’integrazione. La Chiesa in Germania sta promuovendo una discussione puntuale e approfondita sulla necessità “inderogabile” di trovare una base di consenso per una “convivenza” tra persone differenti e per “costruire un futuro insieme come società costituita da autoctoni e immigrati”, ha detto mons. Joseph Voss, Presidente della suddetta Commissione. Tale consenso di base non potrà essere ottenuto ricorrendo all’imposizione, né si potrà obbligare all’integrazione con metodi repressivi, è la sua convinzione. Dovendo comunque affrontare i problemi, che emergono dalle immigrazioni, “non dobbiamo lasciarci prendere dall’ansia; però neanche dobbiamo chiuderci gli occhi davanti a questa realtà”.

Le società, con forte presenza di immigrati con tutta la loro varietà culturale, hanno in sè certamente dei “gravi rischi”, ma bisogna riconoscere anche le ottime opportunità che esse offrono alla Chiesa locale. Per la Chiesa tedesca l’integrazione è un processo complesso, che chiama in causa in uguale misura sia gli immigrati che i residenti: l’integrazione punta a realizzare una convivenza nelle diversità; non va intesa nè come adeguatamente unilaterale degli immigrati (assimilazione), né potrà accettare che coesistano società parallele, come di fatto è avvenuto in alcuni quartieri delle grosse città: “Noi vogliamo realizzare - ha sostenuto mons. Voss - una convivenza fruttuosa; rifiutiamo che si viva gli uni accanto agli altri, ignorandoci”. Varie comunità stanno investendo molto per promuovere una buona convivenza anche se le comunità tedesche devono compiere ancora un lungo cammino per far fronte alle sfide della nuova realtà, con una maggiore varietà di carattere linguistico, culturale ed etnico. La trasmissione e l’esperienza della fede sono legate in maniera determinante alla cultura, alla tradizione e alla lingua. Per le parrocchie tedesche diventa difficile, quindi, affrontare da sole l’impegno della pastorale migratoria ed è per questo che da diversi anni, la pastorale per i cattolici di altre nazioni e altre lingue è un campo fondamentale di lavoro ecclesiale finalizzato all’integrazione.

La Conferenza Episcopale Tedesca è infatti convinta che le comunità “straniere” sono una realtà con specifica autonomia nella Chiesa locale e “non stanno in concorrenza” con le comunità tedesche. Ma d’altra parte bisogna anche dire che la loro situazione è cambiata. Inizialmente si trattava di comunità pensate anzitutto per la cura spirituale dei Gastarbeiter durante la loro permanenza in Germania, molti dei quali oggi sono anziani e anche ad essi la pastorale deve adeguarsi. Oltre a ciò le comunità devono offrire una “patria spirituale” alla seconda e terza generazione, tenuto conto che le esigenze di queste sono radicalmente diverse da quelle della prima generazione. Va considerato anche che alcuni gruppi linguistici registrano nuovi arrivi, per i quali è necessario un accompagnamento particolare: come per esempio avviene con i lavoratori stagionali, i profughi, i rifugiati politici e i clandestini. Ormai non si può più ignorare che le migrazioni, passato un primo periodo fortemente contrassegnato dalla provvisorietà, sono diventate un fenomeno “strutturale” nell’intera Europa e anche in Germania. I cattolici non tedeschi non sono “ospiti”, ma cittadini di un Paese, cui appartengono a pieno diritto.

La contrapposizione - dicono alla MCI - tra tedeschi e stranieri va ormai scomparendo: “la mobilità umana si è evoluta e ha assunto tali dimensione, da farci sentire cittadini di un Paese a più ampio respiro, che è l’Europa dei popoli. Prendiamo atto del fatto che siamo in una società multietnica, dove forse più che di integrazione si dovrebbe parlare di multiculturalità”. La prospettiva è radicalmente diversa: va relativizzato il fenomeno “cultura etnica” per essere aperti ad una nuova e più ampia cultura, comprensiva delle singole culture particolari.

Don Pio Visentin, Delegato Nazionale delle MCI in Germania e Scandinavia, intervenendo al convegno della Chiesa tedesca ha citato l’esempio del Sudtirolo dove ci sono tre etnie: quella italiana, quella tedesca e quella ladina, ognuna gelosa e orgogliosa della propria identità, eppure tutte e tre si sentono appartenenti ad un Paese e ad una cultura con alcuni denominatori comuni. La Chiesa, che è “cattolica”, cioè universale, a differenza dello Stato, “non teme, e non accetta - secondo don Visentin - a malincuore le diversità. Ma se ne rallegra e le mantiene, perché le viene offerta l’opportunità a lei nativa, che appartiene alla sua missione, di dare testimonianza della comunione nelle diversità”. Solo così si pone come “segno e strumento” dell’unione tra i popoli, nell’unica famiglia dei figli del Padre: è questo il momento favorevole di entrare nel dinamismo della cattolicità.

Negli Atti degli Apostoli (2,9-11) si legge “Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi ed Arabi e li udiamo annunciare, ciascuno nella nostra lingua, le grandi opere di Dio”. L’annuncio della Pentecoste, raccontato dall’evangelista Luca si ripresenta anche oggi in Europa: si vive un tempo “favorevole per una nuova Pentecoste”. Nella Chiesa è “difficile” parlare di integrazione perché “la priorità non è stabilita da un’appartenenza etnica, ma dalla appartenenza a Cristo”, dicono i missionari. Prima c’è il battezzato, il cristiano, poi c’è il tedesco, l’italiano ecc., per cui si preferisce parlare di comunione di vita e di cooperazione sul piano pastorale.

Pastorale di comunione

Per una “pastorale di comunione” le Chiese locali non devono dimenticare l’importanza pastorale delle “identità culturali e religiose” che non vanno ritenute “scontate”, spiegano i nostri missionari, ma che vanno promosse e curate con ogni impegno e promosse, sia per il rispetto dovuto ad ogni persona e alla sua dignità, sia perché “la famiglia, con tutto il suo entroterra culturale, linguistico e religioso, resta il canale primario di trasmissione della fede, da una generazione all’altra”. Fattore prioritario nella catechesi, infatti non è la padronanza della lingua “locale” ma la capacità della famiglia di passare il testimone della fede. Per poter educare nella fede, bisogna sapere entrare nella cultura della gente, perché la relazione interpersonale è fondante. L’incontro prima ancora della lingua.

La comunione è il processo di un cammino fatto insieme. Quindi si devono creare processi di comunicazione, condivisione e compartecipazione tra i nuclei etnici. L’attuale ristrutturazione in atto nella Chiesa tedesca ed in quella europea, la convivenza di gruppi etnici diversi, l’uso degli stessi locali parrocchiali, con la graduale scomparsa di Missioni con strutture autonome ed esclusive, come sta avvenendo in molte diocesi, non deve essere motivo di scomparsa delle Missioni  bensì di arricchimento reciproco delle varie identità e di comunione, perché sia reso possibile un comune cammino di evangelizzazione. I singoli gruppi etnici, in vista della comunione, dovranno - ha detto don Visentin al convegno in Germania -  dedicarsi alla cura e all’approfondimento della propria identità per appropriarsi dei valori e poterne fare dono agli altri; in particolare per superare ogni forma di preconcetto e scegliere in maniera motivata e convinta di mettersi in relazione con altri gruppi; oltre a riconoscere i valori di cui sono portatrici altre culture. Questo cammino di comunione presuppone che vi sia un “pastore convertito”, cioè capace di entrare in questa nuova visione della società e della Chiesa.

Ai Vescovi, ai sacerdoti ed ai religiosi e religiose si chiede non di sentirsi italiani, tedeschi, spagnoli, svizzeri od altro ma “pastori” di tutti, nella Chiesa e per la Chiesa, capaci e disposti per un servizio pastorale che vada oltre le appartenenze culturali; ma questo presuppone una buona conoscenza della lingua locale e un ottimo inserimento del prete. Su questo punto c’è ancora molta strada da fare: “il cammino, superata la barriera della diffidenza con i conseguenti sentimenti contrapposti di aggressività e di paura, non sarà né facile né breve, ma sarà indubbiamente interessante e arricchente, ed è da fare”. Solo così è possibile una integrazione, se vogliamo ancora chiamarla così, un arricchimento reciproco che ha certamente i suoi costi. Dare spazio, quindi, alla Chiesa di origine, nel caso nostro la Chiesa che vive in Italia, non vuol dire certamente creare una “Chiesa-ghetto” ma anzi vuol dire porre un segno visibile della pluralità dei popoli all’interno della Chiesa, dello spirito di accoglienza verso coloro che sono “diversi”, ovviamente sotto la guida pastorale dell’unico Vescovo e in comunione con tutta la Chiesa diocesana. Il lavoro pastorale nelle comunità “italiane” nel Vecchio Continente non è mai stato del tipo riduttivo (amministrazione di Sacramenti e servizi religiosi vari), ma ha sempre avuto - ha sostenuto don Visentin - il respiro ampio dell’uomo e dei suoi problemi.

La storia delle Missioni Cattoliche Italiane ha conosciuto in passato varie fasi: quella assistenziale, quella culturale, sociale ecc. Oggi ci troviamo a volte sovraccaricati - sostengono i missionari - a motivo di un certo ritorno dei servizi assistenziali per l’avvenuta riduzione dei servizi Caritas, con conseguente “mortificazione” dell’azione pastorale più specifica. Quello che avviene in Germania e anche in Europa dimostra che la pastorale migratoria, nonostante i buoni propositi, non è ancora pastorale “ordinaria”. Si crede sia un discorso di “nostalgia” invece è “coerenza e accoglienza di una diversità culturale”.

Per essere presenza efficace e forte questa pastorale deve avere consistenza e autonomia anche nelle strutture. Ed è questa la sfida dei prossimi mesi!