Questo numero della nostra rivista nasce con una linea conduttrice che ci è gradita e familiare e sulla quale occorre ogni tanto ritornare sia nei suoi diversi risvolti sia nella sua evoluzione: “linee di pastorale migratoria nella prassi degli operatori pastorali”. Sono tanti e molteplici gli operatori pastorali e le situazioni in cui si trovano ad agire: i sacerdoti, sia religiosi sia diocesani; le religiose di diversa denominazione approdate all’estero od agganciatesi a settori partitari delle migrazioni per propria scelta o su chiamata; i laici, volontari e/o dipendenti; i gruppi e movimenti ecclesiali; paesi di origine latina, di formazione anglosassone… Nella loro globalità questi operatori pastorali sono una benedizione e si deve loro motivata riconoscenza.
Nella elaborazione, inoltre, di questo numero abbiamo dovuto operare una ulteriore scelta, ed è stata quella di limitarci ai sacerdoti all’estero ed in Italia e questi non visti come singoli bensì come rappresentanti o almeno appartenenti ad un gruppo e poi partire dalle loro riflessioni o elaborazioni collegiali o comunitarie.
Ne viene fuori un quadro in grande movimento in cui attualmente le preoccupazioni e le incertezze hanno una relativa preponderanza.
Primo: il numero degli operatori pastorali in genere, ed in particolare quello dei sacerdoti o missionari di emigrazione, è in evidente diminuzione e conseguentemente se ne alza l’età media. E le prospettive di nuovi invii da parte delle diocesi o congregazioni religiose italiane sono molto ridotte per la diminuzione delle vocazioni in genere, ma anche per un lamentevole calo di interesse verso le migrazioni.
Secondo: la mobilità umana, che un tempo per la nostra Chiesa significava emigrazione italiana (oltreoceano ed in Europa) va sempre più internazionalizzandosi con la forte e crescente immigrazione estera e con la presenza di molti altri nuovi gruppi etnici nei vari paesi o continenti (in Australia, ad esempio, la componente italiana già maggioritaria ora è largamente superata dai gruppi asiatici). Conseguentemente la percezione collettiva del fenomeno migratorio nella sua globalità (rifugiati, zingari, circensi, marittimi, studenti e via dicendo) è cresciuta.
Terzo: le Chiese locali dei luoghi di già forte immigrazione, specialmente in Europa, da un primo atteggiamento assistenziale, peraltro abbastanza breve, sono passate ad un sostegno promozionale, favorendo strutture specifiche e personale specializzato e ora stanno muovendosi verso una “normalizzazione”, che nel nostro caso significa inserimento della pastorale etnica nella pastorale territoriale locale, con l’intenzione dichiarata di mantenere le ricchezze e le specificità originarie, ma con il non ipotetico pericolo di ridurre il tutto ad un fatto folkloristico e di uniformare talmente da non fare emergere la costitutiva connotazione ecclesiale della “cattolicità”.
Quarto: vanno superate mentalità e sistema della “delega” che, in definitiva, emargina per passare al processo contrario dell’inserimento delle “specificità” nella pastorale ordinaria.
Quinto: è bene riflettere sullo sviluppo dell’intervento magistrale della Chiesa in materia di mobilità umana. Alla emergenza della mobilità, confusa e sofferta, del primo dopoguerra connotata da un prevalente aspetto di profuganza è venuta la prima e fondamentale normativa ecclesiale da parte della Chiesa universale (Exsul familia, Pio XII, 1952). Con il successivo veloce aumento delle migrazioni economiche la legislazione della Chiesa ne ha opportunamente sottolineato la valenza culturale e ha chiarito la priorità di responsabilità ecclesiale in merito che spetta alla Chiesa locale (Pastoralis migratorum cura, Paolo VI, 1969). La globalizzazione, infine, dei nostri tempi dovrebbe stimolare nuove forme ecclesiali di “unità nella diversità” in modo a noi originale. Il problema sta infatti nella saggezza di portare avanti i due termini (unità e diversità) nello spirito della comunione che anima la Chiesa. Momenti storici o situazioni specifiche possono spingere a sottolineare uno dei due termini, l’unità ad esempio, ma bisogna stare attenti ad appesantire con aspetti normativi sì da deresponsabilizzare, tra l’altro, gli operatori pastorali, come d’altra parte una eccessiva prevalenza della diversità crea facilmente divisioni e isolamenti che sono il contrario della cattolicità, la quale ha senso e vita nella comunione (vedasi anche SM 1/2005 in cui vengono esaminati i nuovi orientamenti di pastorale migratoria).
Del resto la storia della Chiesa insegna. Sempre nei momenti critici o di svolta sorgono energie nuove o si scoprono aspetti già latenti (nel caso nostro sembra sia il caso del laicato individuale e organizzato) che sanno suscitare nuovo slancio ed “aggiornare” il servizio pastorale ai migranti per la crescita del Regno, la vitalità della Chiesa e la maturità del migrante stesso.