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I cinque ambiti pastorali: tradizione ed esperienza della mobilità umana (L. Deponti)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/06


I CINQUE AMBITI PASTORALI

 

TRADIZIONE ED ESPERIENZA DELLA MOBILITà UMANA

 

di Luisa Deponti

 

La tradizione come esercizio del trasmettere

Il IV Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona (16-20 ottobre 2006), ormai entrato nella fase più intensa della preparazione, si delinea come momento di verifica e di approfondimento della Chiesa in Italia sul tema della speranza e della testimonianza. L’obiettivo è quello di chiamare i cattolici italiani a testimoniare, con uno stile credibile di vita, Cristo risorto come la novità capace di rispondere alle attese e alle speranze più profonde degli uomini d’oggi.

La Traccia di riflessione, redatta come strumento di lavoro in vista di questo grande avvenimento, mette in evidenza l’opportunità che l’esercizio della testimonianza “presti attenzione ad alcune grandi aree dell’esperienza personale e sociale. In tal modo si potrà dare forma storica alla testimonianza cristiana in luoghi di vita particolarmente sensibili o rilevanti per definire un’identità umana aperta alla speranza cristiana”1.

Il Comitato preparatorio ha indicato a questo proposito cinque ambiti della testimonianza: vita affettiva, lavoro e festa, fragilità, tradizione, cittadinanza.

La partecipazione di due rappresentanti dell’Ufficio per la pastorale degli italiani nel mondo (UNPIM) ai lavori di gruppo del quarto ambito durante il Seminario di Studio in preparazione al Convegno di Verona (Roma, 24-25 febbraio 2006) è stata un’occasione per mettere a fuoco il contributo che il mondo della mobilità umana nelle sue diverse espressioni può fornire alla riflessione sulla tradizione, intesa come esercizio del trasmettere ciò che costituisce il patrimonio vitale e culturale della società.

L’esperienza migratoria come condizione del cristiano nella società attuale

La Traccia di riflessione invitava a considerare in particolare le grandi agenzie della formazione intellettuale e morale delle giovani generazioni e dei cittadini tutti nella società odierna: i mezzi della comunicazione sociale, la scuola e l’università, la famiglia.

Una prima osservazione ci porta a rilevare che l’esercizio del trasmettere avviene oggi, come sottolinea il documento preparatorio al Convegno, in una società in rapida trasformazione: nell’Italia di oggi e di domani i mass media, le istituzioni formative e la famiglia sono sfidate a compiere i loro “atti di trasmissione culturale e di formazione del costume” in un contesto di sempre più forte pluralismo, a cui contribuiscono in modo significativo i fenomeni legati alla globalizzazione, tra cui l’immigrazione e il formarsi di comunità etniche di lingua, cultura e talvolta religione o confessione cristiana differenti rispetto alla maggioranza della popolazione italiana. In questo contesto i cattolici italiani si confrontano non più solo con la cultura cosiddetta “laica”, ma anche con cattolici di altre provenienze, con cristiani appartenenti a Chiese non in piena comunione con la Chiesa cattolica e con credenti di altre religioni.

A motivo dei cambiamenti, gli italiani in Italia diventano in qualche modo loro stessi migranti e stranieri nella loro patria: “Non è tipico della nostra epoca aver fatto di tutti gli uomini, in certo qual modo, degli emigranti e degli appartenenti a minoranze? Siamo tutti costretti a vivere in un universo che non somiglia molto al nostro paese di origine; dobbiamo tutti imparare altre lingue, altri linguaggi, altri codici [...]. Perciò, la posizione dell’emigrante non è più unicamente quella di una categoria di persone strappate al loro ambiente d’origine, ma ha acquisito valore esemplare”2.

Tale esemplarità della condizione migratoria, tuttavia, non è per i cristiani solo un dato sociologico di cui prendere atto, ma anche una dimensione importante della fede messa in rilievo fin dagli inizi del cristianesimo, come ci testimoniano la Prima Lettera di Pietro e la Lettera a Diogneto. E, in effetti, la Traccia di preparazione al Convegno ricorda che: “Domande acute sorgono dai mutati scenari sociali e culturali in Italia, in Europa e nel mondo, e ancor più dalle profonde trasformazioni riguardanti la condizione e la realtà stessa dell’uomo... Il dominante «sentimento di fluidità» è causa di disorientamento, incertezza, stanchezza e talvolta persino di smarrimento e disperazione. In questo contesto i cristiani, «stranieri e pellegrini» nel tempo (1Pt 2,11), sanno di poter essere rigenerati continuamente dalla speranza, perché le tristezze e le angosce del tempo sono «gettate» nelle mani del «Dio di ogni grazia» (1Pt 5,7.10)”3.

A partire da questa considerazione, è evidente che l’esperienza e la storia di fede di coloro che hanno effettivamente lasciato il proprio paese risulta oggi particolarmente preziosa e che gli apporti dati dalla pastorale della Chiesa cattolica per la mobilità umana acquistano un notevole interesse non solo per alcuni settori, non solo come patrimonio storico, ma anche come ottica con cui guardare la condizione del cristiano nella società attuale.

Il contributo della pastorale migratoria

Si può dire che sul piano dell’impegno di persone e di organismi religiosi la Chiesa nell’ambito migratorio si è posta da tempo domande oggi cruciali per tutti i cristiani per quanto concerne l’esercizio del trasmettere valori umani e cristiani: il rapporto tra fede e cultura, il legame e la distinzione tra identità nazionale ed identità religiosa, la trasmissione della fede in un ambiente di pluralismo etnico, linguistico e religioso, e la sua piena maturazione capace di aprire il cristiano ad un amore e ad una accoglienza cattolici universali nei confronti di ogni essere umano. A tali questioni si ricollega quella fondamentale della convivenza tra le diversità all’interno della Chiesa e della società. Anche in questo caso il mondo dell’emigrazione ha un suo bagaglio di esperienze e sta cercando di delineare una visione teologica specifica che cerca di interpretare alla luce della fede il vissuto migratorio (spiritualità dell’esodo e della comunione tra le diversità).

Nel momento in cui la Chiesa in emigrazione si è posta la questione della trasmissione della fede a persone sradicate dal proprio ambiente di origine, essa ha dovuto affrontare subito la riflessione sul rapporto dinamico esistente tra la fede e la cultura di un popolo. La religione, come elemento dell’identità storica e culturale, rientra nel bagaglio identitario degli emigrati di ieri e di oggi. Le prime grandi personalità della Chiesa italiana che si sono interessate al fenomeno migratorio (S. Vincenzo Pallotti, S. Giovanni Bosco, S. Francesca Cabrini e soprattutto il Beato Giovanni Battista Scalabrini) si sono confrontate in ambito teorico e pratico con il binomio fede e cultura, rilevando che nella fase iniziale dell’emigrazione e in quella successiva dell’integrazione il lavoro pastorale è promozione integrale della persona, in cui anche la trasmissione della cultura e della lingua di origine aiuta a mantenere e far crescere la fede in un contesto di sradicamento.

Per questo la creazione di istituzioni educative, l’utilizzo dei media e la promozione della famiglia sono sempre stati elementi fondamentali per l’azione evangelizzatrice in emigrazione.

Tutte queste esperienze e riflessioni hanno trovato attuazioni pratiche in emigrazione attraverso strutture pastorali, scolastiche e di assistenza sociale, rispettose della lingua e cultura d’origine, e sono rifluite nei documenti ufficiali della Chiesa riguardanti la pastorale migratoria: “In relazione ai migranti cattolici la Chiesa contempla una pastorale specifica, dettata dalla diversità di lingua, origine, cultura, etnia e tradizione”4.

Si riconosce, dunque, che la trasmissione e la crescita della fede passa, il più delle volte, attraverso un particolare patrimonio culturale, attraverso dei legami: “La tradizione è legame e crea legami perché è un patrimonio simbolico che risponde alle domande fondamentali... La tradizione fa sentire l’individuo «a casa» e consente di alimentare un senso di appartenenza alla collettività che fornisce quadri di riferimento riconoscibili e da condividere tra i soggetti”5.

Le pluri-appartenenze e l’universalità della fede

Ma è proprio nell’emigrazione che ogni concezione tendente ad identificare totalmente la fede con una certa cultura e tradizione entra in crisi, perché confrontata con la diversità di altre tradizioni, codici di comportamento, mentalità e, soprattutto, con le pluri-appartenenze che via via si sviluppano nella biografia del migrante ed in particolare dei suoi figli attraverso l’inserimento nel paese di immigrazione: “Se c’è una sola appartenenza che conti, se bisogna assolutamente scegliere, allora l’emigrante si trova scisso, combattuto, condannato a tradire sia la sua patria di origine, sia la sua patria di adozione”6.

In una fase successiva, dunque, la riflessione sul binomio fede e cultura si fa più complessa e arriva a non identificare tra loro i due elementi rischiando di chiudere le comunità cattoliche all’estero in un ghetto etnico-culturale rispetto alla società e alla Chiesa locale. L’obiettivo della pastorale migratoria non è più solo quello di assistere e mantenere la fede lontano dalla patria, ma che il cristiano migrante, consapevole della sua identità di origine, cresciuto nella sua fede, possa aprirsi all’incontro e al dialogo con la cultura della società di accoglienza, senza cadere nel relativismo culturale, diventando testimonianza nella Chiesa locale in cui si trova inserito e vivendo la sua vocazione missionaria.

Quest’ultima implica anche il compito di ricordare alla Chiesa che: “Essa resta quasi contrassegnata da una vocazione all’esilio, alla diaspora, alla dispersione tra le culture e le etnie, senza mai identificarsi completamente con nessuna di esse, altrimenti cesserebbe di essere, appunto, primizia e segno, fermento e profezia del Regno universale e comunità che accoglie ogni essere umano, senza preferenza di persone e di popoli. L’accoglienza dello straniero è inerente dunque alla natura stessa della Chiesa e testimonia la sua fedeltà al Vangelo”7.

Il credente come testimone della speranza che è possibile la comunione tra le diversità

Con questa considerazione ci si riallaccia direttamente allo specifico del Convegno di Verona: “il credente come testimone di speranza”8. Nella società attuale, in cui spesso, sembra venir meno la speranza del dialogo e dell’incontro tra le diversità “occorre mostrare il potere trasformante della speranza viva che lo Spirito del Risorto ci dona”, anche per quanto riguarda “le figure della convivenza tra le culture e i popoli”9.

C’è un bisogno profondo di trovare persone capaci di dialogo e di prospettive globali. E il tempo dell’uomo vertebrato che non si lascia definire da due categorie opposte e ormai superate: l’uomo delle radici, ancorato al passato di una tradizione rigida, incapace di dialogare con le persone e la società del nostro tempo, e l’uomo delle antenne, perso e confuso in forme di intercultura superficiale, di sincretismo che scadono nel relativismo e nell’assenza di orientamenti10. L’uomo vertebrato è colui che fa propria, in modo personale ed originale, la tradizione dinamica della fede “come patrimonio simbolico vivo e come risorsa di speranza”11.

A questo proposito risulta particolarmente importante scoprire o riscoprire testimoni, uomini e donne cristiani che, a partire dal loro Battesimo, dal loro aver parte alla morte e risurrezione di Cristo, unica fonte di amore universale, sono cresciuti secondo la loro vocazione specifica come identità aperte e non polemiche: testimoni tanto compenetrati dalla fede cristiana da essere capaci di costruire ovunque comunione e di camminare e di dialogare con ogni persona, amata nella sua diversità.

Si tratta anche di interrogarsi sui percorsi formativi necessari affinché il cristiano di oggi, giovane o adulto, sia dotato di quella “colonna vertebrale”, una consapevole identità battesimale, che gli permetta di camminare, migrante in un mondo che cambia, e di testimoniare ovunque con gioia il centro propulsore della sua vita.

La scoperta di testimoni cristiani anche nel mondo dell’emigrazione e dell’immigrazione può rappresentare un contributo a questa ricerca, ma presuppone, da una parte, il superamento di una sorta di “rimozione” dalla memoria storica della Chiesa che è in Italia di ciò che concerne la storia dell’impegno pastorale nel settore dell’emigrazione italiana e, dall’altra, il superamento di una sorta di “cecità” nei confronti dei cattolici stranieri immigrati in Italia, portatori tra noi della fede viva della Chiesa in altri continenti.



1 Comitato preparatorio del IV Convegno Ecclesiale Nazionale, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. Traccia di riflessione in preparazione al 4° Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona, pp. 18-19

2 Amin Maalouf, L’identità, Milano, Bompiani, 1999

3 Comitato preparatorio del IV Convegno Ecclesiale Nazionale, op. cit., p. 2

4 Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti e degli Itineranti, Erga Migrantes Caritas Christi, n° 49

5 Gianni Ambrosio, Introduzione al Quarto Ambito, Seminario di Studio in preparazione al 4° Convegno Ecclesiale Nazionale, Roma, 24-25 febbraio 2006, p. 3

6 Amin Maalouf, op. cit.

7 Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti e degli Itineranti, Erga Migrantes Caritas Christi, n° 22

8 Franco Giulio Brambilla, Introduzione ai lavori, Seminario di Studio in preparazione al 4° Convegno Ecclesiale Nazionale, Roma, 24-25 febbraio 2006, p. 4

9 Ibidem

10 Cfr. Antonio Perotti, Coesione sociale e rispetto delle identità culturali, 4° Incontro Astea, Stoccarda, 19 marzo 1999

11 Gianni Ambrosio, op. cit., p. 3