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I cinque ambiti pastorali: la vita fragile (P. Scaramuzzetti)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/06


I CINQUE AMBITI PASTORALI

 

LA VITA FRAGILE

 

di Pinuccia Scaramuzzetti

 

Chi ha bisogno di speranza?

Penso all’umanità che conosco, persone che sperimentano la malattia e la guarigione, rom che sono nati in Italia o in paesi fuori UE e sperimentano l’accoglienza e il rifiuto, sedentari che inseguono i problemi della vita quotidiana. Chi ha bisogno di speranza? Tutti.   C’è un’espressione molto comune in questo tempo: “Il mondo del disagio” così come prima si è usato il termine emarginazione. Nasce nel momento in cui si divide la realtà fra normalità ed eccezione, centro e margine. 

Mi sono sempre chiesta: “Come si possono dividere le persone in due gruppi, normalità ed eccezione, sicurezza e disagio? Usare il termine “fragilità” per indicare l’elemento di debolezza della natura umana significa invece individuare un filo rosso che attraversa tutti i momenti della vita e tutte le persone. Nel corso della nostra vita tutti facciamo esperienza dell’uno e dell’altro ambito. Non c’è forte che non abbia momenti di debolezza, esperienze di dipendenza, perché la malattia, l’invecchiamento, la paura della solitudine e della morte fanno parte della vita.

D’altra parte non c’è debole che non sia a sua volta sostegno di qualcun altro. Conosco un ragazzo down che è il miglior consolatore della madre, allo stesso modo le donne, gli uomini e i bambini rom con cui ho vissuto hanno sicuramente dato un grande contribuito alla  mia maturazione umana così come nella mia famiglia allargata il perno è  una giovane coppia appartenente a gruppi etnici diversi e di solito poco stimati.

è vero che essere nati in un ambiente anziché in un altro, sani o malati, avere subito ingiustizie o averne arrecate crea delle differenze già nelle premesse. è vero che c’è differenza fra perseguitati e persecutori. è vero che c’è una fragilità che fa parte della vita e una fragilità indotta dai comportamenti altrui. La realtà è intreccio di entrambe le situazioni.

La fragilità indotta

Ci sono persone povere e persone impoverite, persone la cui vita è avulsa dal contesto sociale, priva di legami con il resto del mondo. I loro documenti sono un problema, il loro abitare è un problema, la scuola dei loro figli è un problema, il loro lavoro è un problema, l’evangelizzazione è un problema. Sono persone la cui vita si svolge fuori dalla normalità, sul filo dell’eccezione.

Persone che anziché essere accompagnate a seguire il corso della loro realtà, vengono tenute fuori, imbrigliate in un progetto dove condurranno una vita parallela: progetti per portatori di handicap, per gli anziani, per i rom. Basta  nascere in un certo posto per essere un problema e le persone non sono più individui con un nome, con le loro speranze e le loro attese, ma appartenenti a una categoria cui si dà una risposta preconfezionata, un “tutto compreso”.

Considerare un gruppo un’eccezione, libera dall’obbligo di ascoltare i singoli individui, si offrono risposte precostituite che siccome vanno bene per tutti non vanno bene per nessuno. Significa rinunciare ad un accompagnamento personale.

Prima di tutto viene la vita

“Fragile” porta con sé, nel linguaggio comune, l’espressione: “Maneggiare con cura”. Una vita fragile è una vita da maneggiare con cura, di cui avere cura: la nostra vita e quella degli altri.  Credo di poter dire che la prima cosa che ho imparato dai rom che ho incontrato, con cui ho scambiato momenti di vita è: “Fin che sei vivo tutto il resto non è niente”.  La vita nel limite e nella ricchezza della creaturalità, nella dipendenza dal creatore, nell’intreccio con tutte le altre vite... “Dio guarda su di me, mi accompagna… Dio ti accompagni…”.

Questo è ciò di cui mi sono stati testimoni smantellando la mia autosufficienza, l’ateismo di una  cultura che aveva cercato di trasmettermi che l’uomo basta a se stesso.

Prendere in mano la mia vita fragile e affidarla, come loro facevano, momento per momento (andare con Dio, mangiare con Dio, camminare con Dio...), è stato scoprirla come un oggetto prezioso, delicato, degno di rispetto. La mia vita è diventata importante proprio quando l’ho scoperta fragile, dipendente. è stato scoprire la vita di Gesù , l’essersi fatto uomo come noi,  nel quotidiano dei suoi incontri, in una incarnazione vissuta nuova ogni giorno. è stato vivere in compagnia degli uomini camminando sulle Sue tracce.

Una fragilità patita e salvata

Gesù incontra le persone nella loro debolezza. Accoglie ogni situazione perché lui l’ha provata. Ora è il Risorto, è la vita.

La guarigione del lebbroso, della suocera di Pietro, sono il segno dell’umanità che egli accoglie nella sua infermità; l’uomo guarisce, “si solleva” riprende speranza della vita.

Questa è la strada che Gesù ci indica: condividere la fragilità degli altri, “provarla”, mettendo sul piatto la nostra fragilità e camminando fianco a fianco, soffrire le esperienze che noi non possiamo fare. Camminare insieme al fianco di Gesù per ricevere quella salvezza che noi non ci possiamo dare.

Quando Gesù incontra il lebbroso, patisce la pesantezza di questo incontro, la malattia, l’esclusione.

Quando sei accanto ad un malato terminale, quando un tuo amico riceve un mandato di espulsione, gli tolgono il posto dove abitava o viene incarcerato senti su di te il peso della condivisione. Il suo dolore diventa il tuo dolore, e questo è contemporaneamente un peso e un dono, cioè un peso cui non vuoi rinunciare perché è motivo di una relazione più profonda. Così quando l’altro non ti è più indifferente, hai verso di lui delle attese, ti metti nella posizione di ricevere. Anche la tua fragilità che è messa in discussione, aspetta una risposta.

Patire le conseguenze dell’incontro

Gesù dopo aver incontrato il lebbroso non può più entrare in città, viene trattato lui stesso come un lebbroso. Quando abiti in un campo nomadi e passano le forze dell’ordine a controllare i documenti, naturalmente anche i tuoi, oppure ti relazioni  con qualunque sedentario che, siccome non abita lì, si sente più importante di te, implicitamente o esplicitamente vieni trattato come uno che sta dalla parte sbagliata. L’appartenere a questo ambiente diventa la prima caratteristica della tua persona: come la ragazza che abita di fronte a te  è prima di tutto una zingara, così tu sei prima di tutto la maestra o il prete o la suora degli zingari e anche su di te peserà la diffidenza, il sospetto, la sfiducia che avvolge questo ambiente, perché, se sei lì, sei in qualche modo diversa.

Testimoniare la speranza

Condividere ciò che sei, diventa condividere anche la tua speranza. In un posto dove la vita è tutto, l’annuncio di un Gesù vero Dio e vero uomo, per sempre vivo, ha un fascino ineguagliabile, naturalmente se riesci a trasmetterlo, se riesci  farlo sentire. Vivere fianco a fianco permette di vedere se ci credi davvero, sia per quello che dici, sia per quello che vivi. Vuol dire anche custodire la fede trasmessa dai vecchi e riempirla di contenuti nuovi, vitali.

Quattro ragazzi, diventati adulti accanto a noi, hanno vissuto  vicino a noi  la morte del loro padre: è un appuntamento dove abbiamo avuto modo di verificare insieme la forza della nostra speranza. Il contesto è la vasta comunità dei rom della nostra città. C’è come una tacita intesa. Stiamo dicendoci e dicendo a tutti che crediamo che questa persona è per sempre viva. Ripercorriamo la nostra storia comune e alla storia dei fatti della vita si intreccia il cammino della nostra fede. Siamo tutti insieme, noi e loro, testimoni.  La sera, una delle ragazze che viene a ringraziare dice: “Insegnerò ai miei figli le cose di Dio che mio padre ha insegnato a me. Gli farò fare tutto (catechesi, Sacramenti), come mio padre ha fatto con me …”.

Il limite come punto di vista

Guardare il mondo dal limite, porsi al margine per osservare la realtà,  illumina la fragilità come trasversale ai vari momenti della vita, la rende comprensibile, conosciuta, familiare, ma mai identica a se stessa. Ha in sé infinite possibilità di mutamento. La malattia, il bisogno, il dolore, la discriminazione entrano ed escono dalla nostra vita continuamente e in tanti modi. è come muovere un caleidoscopio e vedere ogni volta un disegno nuovo. Il limite può essere il luogo in cui tutti gli uomini  si ritrovano simili e uniti, ma anche quello in cui c’è spazio per la propria originalità, dove si rivendica una non omologazione. è dal limite che viene la solidarietà, la salvezza perché sono quelli più vicini a me che mi possono tendere la mano. Nel limite non c’è potere, quindi la mano viene tesa non per corrispondere al bisogno con un capitalismo compassionevole, ma per camminare insieme, per cercare la giustizia, per condividere ciò che si è. Abituarci alle nostre fragilità, capire quanto sono comuni agli altri esseri umani, ci aiuta a  vedere il punto di vista dell’altro e non esclude nessuno. Chi non riconosce il proprio limite invece si esclude dall’umanità, dalla solidarietà con gli altri uomini. I modelli di vita che fanno della fragilità un punto di forza sono quelli da cui viene la salvezza della società, perché nessuno, che non lo voglia, resta fuori. I modelli che puntano sull’autosufficienza, l’antagonismo, il potere invece, sono destinati a pochi e per poco tempo.