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I cinque ambiti pastorali: Vita affettiva (G. Martino)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/06


I CINQUE AMBITI PASTORALI

 

VITA AFFETTIVA

 

di Giacomo Martino

 

Tutti viviamo e abbiamo vissuto una qualche forma di affettività, positiva o negativa, piacevole o spiacevole, verso questo o quel luogo, del presente o del passato (i luoghi dell’infanzia), talvolta del futuro (il luogo dove sogneremmo di vivere, dove desidereremmo poter andare, poter tornare), la casa dove abitiamo o abbiamo abitato, l’ambiente che la circonda ma soprattutto le persone che per primi i genitori con tutti gli altri,  hanno creato legami, modalità e espressioni dell’individualità, dell’alterità e delle relazioni fondamentali.

Affettività è un termine ampio, che può fare riferimento ad un’emozione passeggera o a un legame più o meno intenso o più o meno duraturo,  e districarsi in questo mondo variopinto per trovare delle regolarità non è cosa facile.

I primi ricordi dei luoghi sono in genere legati a percezioni immediate, spesso connesse a elementi dell’ambiente in cui si comincia a relazionarsi. Gli spazi e le relazioni affettive dell’infanzia emergono dalla memoria soprattutto nei loro aspetti sensoriali, che non si limitano al registro visivo, ma coinvolgono quello uditivo, olfattivo e tattile. Con il crescere dell’età l’esperienza legata alla percezione sensoriale dell’ambiente diventa secondaria rispetto al significato attribuito ai luoghi. La casa, ad esempio, non coincide più automaticamente con il posto dove si abita, ma diviene un progetto di vita che si costruisce nel tempo.

Attaccamento e stabilità residenziale hanno costituito un binomio inscindibile fin dai primi studi sull’attaccamento ai luoghi: le persone si rendono più facilmente conto di essere legate ad un luogo quando devono abbandonarlo, specialmente se si tratta di una scelta forzata così come accade per molti settori della mobilità; inoltre quasi tutte le ricerche mostrano che a una maggiore lunghezza di residenza si accompagna un più forte legame con il luogo.

Un risultato questo che sembra avvalorare l’ipotesi che lo stile di vita dei paesi industrializzati, caratterizzato da un’alta mobilità, ostacola, se non addirittura impedisce il formarsi di legami affettivi con i luoghi e spesso anche con le persone. A questa conclusione si oppongono però dati che mostrano che anche in paesi ad alta mobilità residenziale, come per esempio gli Stati Uniti, la maggioranza delle persone manifesta legami affettivi con i luoghi, e che anzi cambiamenti di luogo congruenti con i cambiamenti che intervengono nei bisogni e nell’identità di luogo nel corso della vita possono favorire anziché ostacolare la formazione di legami affettivi.

Proprio alla relazione tra storia residenziale, attaccamento al quartiere di residenza e identità residenziale  è dedicata una minuziosa ricerca condotta da Bahi-Fleuri (1996) su un campione di 180 abitanti di Parigi. L’investimento affettivo appare fortemente legato alla qualità del quartiere, ma anche alle esperienze precedenti e alla congruenza con l’identità residenziale.

I risultati mostrano che, anche fra persone altamente mobili, la maggior parte esprime legami di attaccamento o con il luogo attuale di residenza, o con uno o più luoghi del passato. E da notare inoltre che l’attaccamento al luogo di residenza attuale si sviluppa con più facilità tra le persone che mantengono legami affettivi anche con luoghi passati. Inoltre, le persone con legami affettivi plurimi appaiono più soddisfatte della loro vita di quelli che sono attaccati solo al luogo attuale o solo ad un luogo passato.

Le persone apparentemente “indifferenti” ai luoghi, cioè non attaccate né al luogo attuale né a luoghi passati, sono i meno soddisfatti della vita.

In conclusione, possiamo dire che il processo di attaccamento si sviluppa nel tempo e richiede un certo tempo. Spostamenti di residenza estremamente ravvicinati possono allora impedire la normale formazione di legami affettivi con i luoghi, ma l’esperienza di mobilità di per sé non costituisce necessariamente un ostacolo. Gli individui sembrano infatti adattarsi all’esperienza di mobilità sviluppando una maggiore facilità o immediatezza nella formazione di relazioni affettive con i luoghi. Là dove tutto, o quasi, è mobile, passeggero, provvisorio, precario, lì più forte emerge una domanda di stabilità.

Esiste dunque un “luogo” che configura ed è necessario per la crescita e l’espressione stessa dell’affettività di ciascuno. Tale luogo non è necessariamente “fisico” ma, in particolare in quanti vivono nella mobilità, diviene una sorta di patrimonio, di esperienza del passato, sensibilità del presente e progettazione del futuro di ogni uomo o donna.

Nel 1986 la Sacra Congregatio Pro Institutione Catholica scriveva: Nella problematica, diversa a seconda che si tratti di migranti, rifugiati, marittimi, nomadi, aero-naviganti, affiorano: cambiamenti di culture e di spiritualità; i traumi psichici, specialmente per i rifugiati; la disgregazione familiare; il crollo degli ideali, particolarmente nei profughi; il contatto ed il confronto con altre religioni; le difficoltà di lingua, di cultura, di ambiente; la promiscuità nei campi di raccolta, la catechesi dei giovani, la scarsità dei libri religiosi nella propria lingua; le tradizioni religiose dei gruppi etnici; i matrimoni misti; la mancanza di luoghi sacri, di liturgie adatte; ecc..

La mobilità non è sempre caratterizzata dalla necessità di lasciare la propria terra per cercare condizioni di vita migliori, sfuggendo spesso alla fame e alle carestie, alle persecuzioni e alla guerra. A volte essa è una vera e propria itineranza come nel nomadismo degli zingari o dei fieranti e circensi. Il “luogo” dell’affettività diventa la carovana, la famiglia, il gruppo ma mai un territorio. I marittimi e pescatori vivono la loro mobilità unicamente per lavoro ma tornano al loro paese, alla loro famiglia, alle loro comunità.

Questo quadro tanto complesso trova la chiave d’interpretazione attraverso l’analisi e la ricomposizione dei bisogni affettivi di tre gruppi di soggetti tra loro imprescindibili:

1. i bisogni di chi parte;

2. i bisogni di chi rimane;

3. i bisogni di chi accoglie.

Il senso di appartenenza a una cultura è motivo identitario fra gli immigrati che, specie nelle prima fase di insediamento, tendono a rafforzare le proprie radici culturali assumendo nel nuovo ambiente atteggiamenti più tradizionali e conservatori di quelli che avrebbero avuto se non si fossero mossi. La famiglia, il nucleo, la rete sono i veicoli con cui si consolida il senso di appartenenza a una comunità, una cultura, «altra» rispetto a quella ospite.

Spesso l’emigrante occupa le nostre carceri sovrappopolate vivendo il duplice dramma della lontananza di casa e del fallimento delle sue aspettative migratorie. Ci si chiede come sia possibile una sana affettività in prigione, luogo chiuso e di segregazione per eccellenza, dove viene preclusa la libertà, dove il tempo e le scelte vengono scandite dalle autorità preposte all’esecuzione delle condanne. Dove lo stesso affetto viene bandito, isolato, definito e ai limiti del possibile voluto in tempi determinati secondo la scansione del tempo dei regolamenti carcerari, dove lo stesso “affetto” è imposto, sorvegliato, deciso da altri o cercato verso altri lidi proibiti.

Poiché diciamolo pure: l’essere umano ha bisogno d’affetto, non importa di che tipo, importante che sia affetto. Nella repressione degli affetti si verificano le deviazioni affettuose, comprese quelle sessuali.

Da un’indagine sul mondo marittimo si rileva che queste persone a causa dell’assenza prolungata siano sempre più in difficoltà nel formare una famiglia e comunque abbiano problemi per il reinserimento a terra.

I marittimi non sono capaci di partecipazione sociale neppure con la iscrizione a una semplice associazione e, nel tempo perdono la pratica religiosa fatta a “singhiozzo”. Il fatto che debba essere la moglie ad avere la responsabilità della conduzione familiare ed educazione dei figli mette in crisi il marittimo da una parte e lascia “monca” la famiglia dall’altra.

L’ambiente di bordo non è una vera comunità che accoglie ma principalmente uno spazio lavorativo in cui le relazioni che si intrecciano sono professionali o di amicizia superficiale nella consapevolezza che non potranno mai avere radici profonde proprio a causa della continua mobilità.

La mancanza di un “luogo”, di un ambito in cui esprimere quotidianamente i propri sentimenti distorce la stessa affettività con effetti di chiusura, col cercare un’autosufficienza di autodifesa rispetto al mondo, di diffidenza ma anche di estrema ingenuità anche nei rapporti con quanti incontrano nei vari porti del mondo.

I marittimi relegati in porto ai margini delle nostre città non si presentano per quanti li accolgono, neppure come un vero “problema migratorio” in quanto non hanno fisicamente il tempo di “dare fastidio”, di farsi sentire nelle loro necessità, nelle loro urgenze.

Essi sono:

- Fratelli che vivono in prima persona il dramma della migrazione in ogni porto che toccano.

- Fratelli ovunque stranieri nel perenne peregrinare lontano dalle famiglie, dagli affetti più cari, dalla vita sociale ed anche dalle proprie comunità ecclesiali.

- Fratelli, ultimi fra gli ultimi, sparsi sulle acque del globo senza potersi incontrare mai per gridare la propria sete di giustizia per un trattamento più equo e dignitoso.

- Fratelli imbarcati ed a volte sfruttati in un gioco di bandiere “ombra” di paesi senza leggi sul lavoro e sulla sicurezza della navigazione.

- Fratelli spesso dimenticati anche da una Chiesa solitamente viva ed attenta alle molteplici realtà sociali che la circondano ma che rivela un deprecabile oblio per quanti si muovono sugli altri due terzi della superficie terrestre costituiti dal mare.

Sia che si viva la mobilità  e l’itineranza per scelta, per habitus culturale, o che si emigri da un paese all’altro l’esercizio dell’affettività ha dunque bisogno di vivere un presente che non misconosca la tradizione e che viva proiettato verso una progettualità futura.

La nostra cultura d’amore e affettività è vincolata dalla nostra cultura e dalla nostra storia. Cultura che ne plasma e ne relativizza il significato. Se realmente vogliamo costruire una società a misura d’uomo, allora dobbiamo sapere guardare noi stessi svincolati dagli schemi sociali e culturali che ne hanno condizionato la visione. Solo così si può capire cosa è realmente l’amore. Tutti e ciascuno, nel corso della vita, andiamo personalizzandoci. In questo processo di personalizzazione entrano in gioco numerose relazioni individuali, familiari e di gruppo. Anzi, noi siamo il frutto della storia  e della cultura dei nostri rispettivi paesi e continenti. Se non fosse per gli altri e per le altre, non saremmo niente o nessuno. 

Bisogna trovare, quindi, un luogo, un ambito, una base solida sulla quale poter dare sfogo ai bisogni interiori ed accogliere relazioni e sentimenti altrui.

Bisogna trovare un modello capace di dare continuità alla propria storia nell’interpretazione del presente perché le affettività di chi si muove non dimentichino quelli da cui è partito e si concretizzino con quelli che lo accolgono.

Questo ambito o “luogo” dell’esercizio della propria affettività, in particolare per il cristiano, può essere una persona a sua volta capace di immutabilità e di itineranza, segno di profonde radici ma sempre in cammino, profondamente innamorato dell’umanità ma insieme capace di trascendere lo spazio e il tempo per essere: “sempre con noi fino alla fine del mondo”.

Dio ci ha creati uomini e donne. Non isolati, ma in relazione reciproca o sponsale, rispettando l’uguaglianza delle persone e la differenza dei sessi, senza nessun tipo di subordinazione o livellamento. Egli stesso, Dio, ci dice inoltre che l’uguaglianza delle persone e le differenze sessuali tra l’uomo e la donna, rimandano al mistero della Trinità. Nella Trinità, si dà la massima differenza al cuore di una identità assoluta. Siamo stati creati a immagine di questo unico Dio Trinitario. 

Due figure dell’Antico Testamento, in particolare, sono profezia di questa “persona-ambito”. La figura di Giacobbe è la figura del migrante per necessità e per paura. Si impossessa con uno stratagemma della primogenitura, fugge dal fratello, lavora senza diritti per avere dallo zio le figlie in mogli, si incontra con Dio e lotta con Dio, diventa Israele, padre delle 12 tribù e ritrova la pace.

Giuseppe il sognatore, scelto da Dio, amato dal padre e venduto dai fratelli, perseguitato e imprigionato, trasformato in Viceré d’Egitto per la sua saggezza, collocato sul trono per diventare salvezza per i suoi; capace di compassione e di perdono. Una delle figure della Scrittura ebraica più vicine al Signore Gesù Cristo e, nella sofferenza, nel sogno e nella capacità di perdono, molto attuale per noi.

Gesù, infine, ci viene raccontato, nei Vangeli, come l’uomo itinerante per eccellenza.

Modello di chi vive la caducità dell’itineranza ma anche pedagogo e “luogo-ambito” per l’esercizio di un’affettività che superi i limiti di lingua, cultura, spazio e tempo.

Gli avvenimenti sin dalla sua infanzia sono legati alla mancanza fisica di radici perché “non vi era posto per loro” (“Le volpi hanno tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”).

L’itineranza “comincia” con il cammino messianico del Verbo che era, stava, risiedeva presso il Padre il quale esercita la propria affettività inviando il Figlio: “E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità” (Gv 1,14). Maria, appena accoglie Gesù parte in viaggio per aiutare Elisabetta. Il Vangelo ci mostra l’esercizio perfetto dell’affettività a cominciare dalla sacra famiglia nella grotta di Betlemme.

I suoi discepoli “mollate le reti” lo seguono e in questo cammino, Gesù li precede sempre, perché è il cammino del Figlio diletto che compie incondizionatamente la volontà del Padre ed è il cammino del Discepolo attento e docile alla Sapienza e alla Parola.

L’itineranza diventa, per Gesù, il luogo per eccellenza per l’esercizio della sua affettività. Nel girare da città in città sente l’urgenza di “arrivare a tutti”.

Gesù assume la mobilità come metodologia di annuncio del Vangelo.

Gesù cammina con le persone e le persone camminano con Gesù (sfama nel deserto migliaia di persone ma fugge di fronte a quanti vogliono farlo loro re).

Gesù ripete che “deve andare” in altre città, a Gerusalemme, nel ritorno al Padre come se non si potesse fermare.

Gesù apre la sua affettività a molti altri suoi fratelli e madre: “Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: - Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre -” (Mc 3, 31-35).

Quanti condividono la sua vita sono degni di essere veramente chiamati “suoi”.

L’affettività di Gesù itinerante si manifesta, come per l’uomo migrante, anche per via negativa. Spesso comprendiamo a fondo le cose e le persone quando ci mancano. Gli affetti più cari “guardati da lontano” riacquistano la loro sostanzialità proprio in quanto non ne possiamo godere appieno. Gesù si commuove alla notizia della morte dell’amico Lazzaro e immediatamente si reca in casa sua a consolare le sorelle e a consegnare ai suoi un pegno della salvezza e della sua Resurrezione.

L’episodio di Emmaus non è solo un fatto accaduto a due discepoli dopo la crocifissione di Cristo; è al tempo stesso una parabola della vita cristiana. Perché la vita cristiana è un viaggio, un cammino, una via: lo stesso evangelista Luca, negli Atti degli Apostoli, definisce il cristianesimo una “nuova via” (Atti 9:2, 19:9 ecc.). In questo cammino senza sosta che è la vita cristiana il Risorto è al nostro fianco. Anche e soprattutto nei momenti più difficili del nostro cammino: il viaggio a Emmaus dei due discepoli non è certo un viaggio di piacere. è un viaggio mesto, è probabilmente il viaggio di ritorno a casa di due discepoli che avevano creduto e sperato in Gesù e che ora, sfiduciati e delusi, se ne vanno da Gerusalemme perché hanno perso il loro Maestro, perché non hanno più un progetto, perché non hanno più nulla da fare nella città santa. Il viaggio a Emmaus, insomma, è una ritirata per il profugo, il migrante, per il marittimo, per chi non ha il pane e deve cercarne altrove.

La condizione dell’itineranza ha un fondamento teologico-biblico.

Si tratta di conoscere con obiettività il fenomeno, così come si presenta nella sua imponenza e trovare quelle soluzioni pastorali che aprano ad una nuova cultura della carità. La risposta non è solo filantropica e di un’accoglienza dello straniero dal punto strettamente materiale, ma nel modo come vivere la nuova dimensione proclamata nella Pentecoste: riconoscerci tutti fratelli nell’unico Spirito anche se appartenenti a culture diverse. La Pentecoste diventa così ritorno all’ordine spezzato, per essere ricomposto, nel riconoscimento dell’unico Dio e Signore della storia.

«Nella Chiesa nessuno è straniero e la Chiesa non è straniera a nessun uomo e in nessun luogo. In quanto sacramento d’unità […] la Chiesa è il luogo in cui anche gli immigrati illegali sono riconosciuti ed accolti come fratelli. E compito delle diverse diocesi mobilitarsi perché queste persone, costrette a vivere fuori della rete di protezione della società civile, trovino un senso di fraternità nella comunità cristiana». Il dovere di praticare una pastorale specifica è evidente.

Se quest’attenzione si pone per tutti i migranti, certamente l’unità delle famiglie dev’essere vista come luogo privilegiato in cui realizzare la carità, in vista di una pastorale d’insieme: «Carità e saggezza pastorale esigono che si tenga conto dei tanti sradicamenti, cui i migranti sono forzatamente sottoposti e non si caschi nella pretesa e nell’errore di aggiungervi anche lo sradicamento dal contesto religioso in cui la loro vita cristiana è nata e si è sviluppata»

Contro i pericoli dell’estirpamento la Chiesa s’impegna affinché la famiglia sia messa nelle condizioni di svolgere il suo ruolo educativo. Per questo i pastori d’anime (ma anche gli operatori pastorali) sono invitati a far visita alle famiglie immigrate, per testimoniare ed essere solidali con le loro difficoltà e favorire l’amicizia.

S’impongono oggi problematiche nuove, sia sotto il profilo strettamente pastorale che sociale, come quelle dei matrimoni misti e delle adozioni internazionali: sono i frutti di una società plurietnica e multireligiosa.

Per una favorevole soluzione è pregnante che si favoriscano l’incontro e l’amicizia tra famiglie italiane ed estere, e si combattano lo sfruttamento e la violenza sui minori e sulle donne.

Il compimento definitivo dell’incontro tra Dio e l’umanità, avvenuto in Gesù, uomo universale, ci spinge ad andare come Chiesa pellegrina tra gli uomini e le donne delle società multiculturali di oggi ed ad annunciare loro il mistero della comunione trinitaria, per cui il dialogo tra Padre, Figlio e Spirito Santo si apre a noi come possibilità e modello di ogni relazione.

Su questo cammino, l’accoglienza, l’itineranza e la comunione nella diversità sono le modalità specifiche che la Chiesa ci chiede di testimoniare. L’Eucaristia è il nutrimento per ogni passo, il fermento di trasformazione, l’anticipo del futuro di Dio

Il cuore dell’itinerante ha molto da insegnare, ha tanto da offrire ma deve, anzitutto, essere accolto, così come è, senza subito pretendere l’omologazione o l’integrazione con tutta la ricchezza delle pene sofferte, del cammino consumato, dei rifiuti ricevuti.

Inviati per annunciare l’amore universale del Padre e per servire, il nostro pellegrinaggio comporta una costante emigrazione da noi stessi verso l’altro per condividere con lui il pane della nostra vita di battezzati e di consacrati, per lavare umilmente i piedi al viandante, per profumare l’ospite inatteso con nardo prezioso, per fermarci e guardare con occhi di amore i pellegrini feriti o offesi nella loro dignità, curandoli con la tenerezza e con la determinazione di Gesù, il buon samaritano.

Egli è il vero luogo di incontro in cui il tempo e lo spazio si concentrano permettendo il perfetto esercizio dell’affettività di cuori lontani, di amori rinviati, di comunicazioni complicate e distanze incolmabili diversamente.