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Contributo ufficiale della Migrantes al Convegno Ecclesiale


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/06


CONTRIBUTO UFFICIALE DELLA MIGRANTES AL CONVEGNO ECCLESIALE

 

1. Mobilità umana al Convegno Ecclesiale di Verona

Il mondo delle migrazioni nelle sue più varie forme ha segnato per lungo tempo e continua anche oggi a segnare, in modo sempre più profondo e capillare, la vita  del nostro Paese sul piano civile e non meno su quello ecclesiale. Al prossimo appuntamento di Verona non si può parlare dei problemi e delle prospettive della Chiesa in Italia ignorando e nemmeno relegando troppo nel sottinteso il fatto della mobilità umana che ci tocca così da vicino, deve anzi figurare fra le tematiche emergenti o, come si è espresso Giovanni Paolo II, fra “le priorità pastorali” (Messaggio GMM 1998, n. 2). Pertanto ci sentiamo più autentici testimoni di Cristo Risorto (n. 1) se lo presentiamo pure come speranza del mondo (n. 1ss) migrante e se ci rendiamo disponibili a cogliere i messaggi di speranza che questo popolo è in grado di offrirci attraverso la sua stessa vicenda migratoria, anche nella prospettiva del primo annuncio e della nuova evangelizzazione.

2. Alla luce di Cristo Risorto

Ciò comporta che le migrazioni vengano viste anzitutto alla luce del Mistero Pasquale, preso nel suo duplice aspetto di passione e di risurrezione. “Il Signore… conserva le piaghe del Crocifisso” (n. 3), piaghe vive e laceranti che si prolungano nella storia in quanti, più o meno consapevolmente, completano nella loro carne ciò che manca ai patimenti di Cristo (cf Col 1, 24); e tra questi emergono quanti sono segnati dalla mobilità umana. è vero che nei loro confronti non si deve parlare solo di piaghe, lacerazioni, incertezze, fallimenti, emarginazioni, però per tantissimi di loro, certamente per la maggioranza, questo gravoso bagaglio ha pesato e continua a pesare sulle spalle. La “via crucis” del migrante non è solo metafora. Basta darci uno sguardo attorno per renderci conto di quanto tutto questo sia dura realtà.

Tuttavia le piaghe del Crocifisso Risorto, sono piaghe ora gloriose, perché egli è il Signore (n.2) del mondo e della storia; ed anche le migrazioni, che costituiscono tanta parte del mondo di ieri e di oggi, non possiamo non farle rientrare in questa “Signoria” (n. 4) di Cristo; anch’essi, come i cristiani cui si rivolge Pietro nella Prima Lettera, “sono scelti secondo il piano stabilito da Dio Padre” (1, 2): entrano nella storia della salvezza. A discernere con più lucidità questo segno dei tempi siamo edotti dalla Parola di Dio: dall’Antica Alleanza le cui tappe fondamentali sono segnate da migrazioni, come pure dalla Nuova; basti pensare ai primi cristiani che trasformarono la “violenta persecuzione”, scoppiata dopo la morte di Stefano e la conseguente dispersione (la forma più dura di migrazione), nel primo grande evento missionario; infatti “quelli che erano stati dispersi andavano per il paese e diffondevano la Parola di Dio” (At 8,1-4, 11, 19). Anche le migrazioni odierne sono da interpretare e valorizzare in questa logica di fede. Si è di fronte a una grande sfida e ci attendiamo che il Convegno di Verona la sappia cogliere.

3. Dare più luminosità al volto della Chiesa

Si continua a ripetere con Giovanni Paolo II che “nella Chiesa nessuno è straniero” (Messaggio GMM 1996, n. 5). è difficile trovare in casa nostra chi nega che  l’emigrante, il profugo, il marittimo, il nomade rom o sinto, circense o lunaparkista sia meno di noi figli di Dio e della Chiesa. C’è però da domandarsi fino a che punto si tratti di frasi fatte o di persuasione di fede, capace di cambiare “anche il nostro modo di essere comunità credente e di appartenere alla Chiesa” (n. 3). L’autenticità del nostro appartenere alla Chiesa si misura dall’impegno perché “l’ospitalità dell’emarginato e dell’immigrato” (n. 15,c) si traduca per lui in esperienza gioiosamente vissuta, che lo sostiene in quella condizione di “fragilità” (15,c), quasi connaturale a chi è in condizione di mobilità.

è una domanda molto seria che a Verona dobbiamo farci ad alta voce, in modo concreto e circostanziato, senza indebiti sensi di colpa, ma con piena libertà di spirito e schiettezza, ponendoci - ad esempio - quesiti come i seguenti:

- Quanto al precetto fondamentale dell’amore, ci chiediamo se è viva la coscienza che il mondo della mobilità è luogo privilegiato per vivere e testimoniare la carità evangelica non come semplice sentimento interiore, ma come fraternità, amicizia, solidarietà, condivisione stessa dei beni (n. 6). Per una profonda riflessione in proposito offre spunti e stimoli la seconda parte dell’Enciclica “Deus caritas est”, specialmente là dove si parla di “giustizia e carità” (n. 26ss) e del “profilo specifico dell’attività caritativa della Chiesa” (n. 31ss).

- Di fronte ai nuovi arrivati, ai “diversi, si sente spesso dire: “non sono dei nostri”, e nei loro confronti si mostra, talora si ostenta, il distacco, l’indifferenza, anzi la diffidenza quasi fossero elementi di disturbo e di inquinamento etnico e culturale; si punta il dito su comportamenti rudi e asociali di alcuni di loro e si formulano giudizi sommari e severi come una condanna, generalizzati fino a coinvolgere un’intera etnia. Ci domandiamo se cediamo alla tentazione di adeguarci a questi “benpensanti” o se sentiamo forte il richiamo ad essere sale e luce in un ambiente così insipido e opaco, disposti anche a porci controcorrente e segno di contraddizione, se lo richiede una autentica testimonianza cristiana.

- “I poveri li avrete sempre con voi” (Gv 12, 8) anche sotto la veste di coloro che sperimentano una delle tante forme di esodo. Ci domandiamo come perseverare negli interventi del buon samaritano, richiesti da situazioni di emergenza e di acute necessità, senza far opera di sistematica supplenza e senza trascurare altri interventi orientati al superamento delle stesse emergenze e alla progressiva integrazione. Ci domandiamo inoltre se sappiamo cogliere, al di là delle povertà materiali,  quella povertà più profonda che è la molteplice frustrazione della “vita affettiva” (n. 15,a) di quanti sono in condizione di mobilità, a causa della solitudine e dell’isolamento, dello sradicamento dal tradizionale contesto di vita sociale, culturale e soprattutto familiare.

- Chi è lontano dagli occhi, come il marittimo o l’emigrato italiano all’estero, rischia di diventare molto in fretta per noi lontano anche dal cuore. Sarebbe ben strano se, mentre sul piano socio-politico si cerca di riabilitare e valorizzare questi nostri connazionali, la comunità diocesana o parrocchiale si dimenticasse di questi suoi “fedeli” o si ricordasse soltanto in occasione della festa patronale. Gesti anche semplici, purché non puramente formali, come la visita in casa di chi rientra per le ferie o una lettera ai fedeli lontani in qualche occasione particolare da parte del parroco, possono alimentare o ridestare sentimenti di appartenenza alla Chiesa locale che fanno bene agli interessati e alla comunità.

- Chi è di passaggio, come il professionista dello spettacolo viaggiante, solitamente desta nella gente comune tutt’al più un senso di curiosità. Ci chiediamo se in ambito ecclesiale questa categoria di persone sia oggetto di qualche interesse in più e se il pastore le riservi qualche attenzione anche pastorale.

- Prevale nel nostro ambiente l’idea che gli zingari sono da considerarsi come tipi asociali che disturbano la nostra tranquilla convivenza. Forse anche nella nostra comunità ecclesiale si condivide più o meno questo pregiudizio o si fa ben poco per correggerlo, e non ci si interroga se non gravino anche su di noi per la loro precaria situazione delle pesanti responsabilità. è il caso di porre a confronto la pagliuzza e la trave di evangelica memoria, o almeno di richiamare il monito: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”.

- è facile, anche nel migliore dei casi, vedere nei migranti e, in genere, nei diversi i destinatari di nostri buoni sentimenti e buone azioni. Non altrettanto facile è renderci conto che anche noi possiamo essere fruitori del ricco patrimonio che è racchiuso, in modo più o meno latente, nella loro specifica identità, spesso così diversa dalla nostra. La loro stessa vicenda migratoria ci può testimoniare autentico amore alla vita, progettualità coraggiosa, capacità di pazienza e sofferenza, sfida alle difficoltà e, molto spesso, fiducia nel Dio provvidente. Tanti che si trovano in condizione di itineranza sono, a modo loro, “testimoni di speranza” e “narratori di speranza” (n. 10).

4. Testimonianza cristiana a cerchi concentrici

I circa quattro milioni di italiani all’estero rimangono nella totalità cattolici; i marittimi, i circensi e lunaparkisti, come rom e sinti sono in maggioranza cristiani; gli immigrati in Italia sono oltre tre milioni e di questi per la metà circa non sono cristiani, quasi il 30% sono cattolici, del 20% dei  cristiani non cattolici la grande maggioranza è costituita da ortodossi.

Continua ad essere forte nelle parrocchie la spinta della consuetudine e considerare destinatari della cura pastorale i fedeli tradizionali, gli “italiani”, con l’eventuale aggiunta dei cattolici “stranieri”, non però dei tanti altri non cattolici giunti da lontano nell’ambito della parrocchia, perché non sarebbero del “gregge”. è urgente correggere questa sfasatura che esiste di fatto, anche se non viene teorizzata, e riaffermare con forza che le nostre Chiese sono debitrici del Vangelo verso quanti sono presenti sul territorio, compresi i non cristiani provenienti da altre terre. I migranti sono un continuo e ravvicinato richiamo alla missione che è propria a tutti i battezzati: “fare di popoli diversi la Chiesa universale” (n. 4), dando alle nostre Chiese locali, talora un po’ troppo locali, un respiro di cattolicità.

Sul piano socio-assistenziale e di promozione umana criterio di intervento per la Chiesa non è la fede professata dai singoli migranti, ma la dignità della persona con relativi bisogni e aspirazioni. Sotto l’aspetto religioso invece possiamo porre questi nostri fratelli nei classici cerchi concentrici (cf. Ecclesiam suam, n. 100ss), senza che ne consegua alcuna discriminazione ma soltanto l’identificazione di quei servizi che corrispondono alle particolari situazioni ed esigenze di ciascuno sul piano religioso.

Nel primo e secondo cerchio vanno posti i non credenti e i non cristiani, coloro in favore dei quali esiste da sempre la “missio ad gentes” e l’invio dei missionari: ora le “gentes” sono anche tra noi, ora è la “missio” che viene a noi e offre a tutti, pastori e singoli fedeli, l’opportunità di dare in prima persona testimonianza e annuncio anche esplicito del Vangelo e di ridestare, di conseguenza, la coscienza missionaria  dei singoli battezzati e delle loro comunità. Questa è novità di grande rilievo, capace di ridare dinamismo missionario alle Chiese locali, in particolare ai gruppi impegnati, e di rendere più luminoso “il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia”. Se è vero che “la fede si rafforza donandola” (RM, n. 2), è legittimo pensare che anche attraverso le migrazioni “Dio sta preparando una grande primavera cristiana” (ib. n. 86). Ne sono indice significativo i tanti stranieri che tra noi si aprono alla fede in età adulta e ricevono ogni anno il battesimo. Complementare, non però sostitutivo dell’annuncio, è il dialogo, soprattutto quello a livello esistenziale, quello della vita che è alla portata di tutti.

Nel terzo cerchio vanno collocati i cristiani non cattolici, in particolare gli ortodossi. “Senza un convinto ecumenismo… non è possibile una nuova evangelizzazione nei Paesi europei di antica tradizione cristiana” (n. 14). Ciò è sempre stato vero, in particolare dopo il Concilio. La novità di oggi  è che gli interlocutori di questo ecumenismo sono ora in casa nostra, a centinaia di migliaia, soprattutto dall’Est Europeo. Oggi è possibile non soltanto parlare di loro e pregare per loro, si può anche parlare e pregare con loro; si può dare loro forte e concreta testimonianza della nostra “fraternità” e della profonda aspirazione a una piena unità delle due Chiese.

Nel “centro in cui la mano di Dio ci ha posti” ci troviamo assieme ai migranti cattolici, “primi destinatari della testimonianza sono i fratelli nella fede” (n.10). Questa loro “piena comunione nell’unica Chiesa”, che li fa di pari dignità e di pari appartenenza alla Chiesa locale, non può far dimenticare che essi sono pure tanto diversi da noi per cultura, lingua, tradizione e nel più dei casi anche per rito. Perciò, mentre abbiamo ogni attenzione perché si sentano nelle nostre assemblee liturgiche parte attiva e a pieno loro agio, siamo tenuti a favorirli - a mente del costante insegnamento della S. Sede - nel costituirsi in comunità di fede e di culto rispondenti alla loro profonda indole e al modo concreto di esprimere la loro religiosità. Queste comunità, canonicamente erette in Italia, sono una sessantina; ma sono oltre seicento quelle sorte quasi per generazione spontanea, senza un formale mandato e che l’Istruzione Pontificia EMCC chiama “cristallizzazioni pastorali informali” (n. 92), raccomandandone un qualche riconoscimento nella Chiesa locale. è ammirevole l’impegno di tante diocesi verso queste comunità etniche, mentre altre sembrano perfino ignorare il problema; non lo ignorano però le sette e altri movimenti religiosi alternativi che rischiano di disperdere questa parte del gregge, verso la quale sarà poi difficile l’opera di ricupero. Se difficoltà ci sono, c’è anche una struttura nella Chiesa italiana, la Migrantes, che aiuta a trovare soluzioni soddisfacenti, anche se non ideali.

5. Impegno per i migranti nella società civile-politica

L’autentica testimonianza verso questi vari settori della mobilità diventa interesse, solidarietà e condivisione per i tanti problemi che sorgono anche nell’ambito sociale e politico, a tutti i livelli:

- A livello mondiale “urge un’attenzione nuova… ai grandi problemi della fame e delle povertà, della giustizia economica internazionale, dell’emigrazione” (16,e). L’emigrazione viene elencata per ultima quasi a dire che è l’amaro frutto dei fattori enumerati in precedenza, è penosa conseguenza dei quei “meccanismi perversi” e “strutture di peccato” denunciati tante volte dalla Chiesa, offensivi “della dignità della persona”. E perché, a difesa di questa dignità, la Chiesa italiana a Verona non si fa promotrice, come più volte ha fatto la S. Sede, della ratifica della “Convenzione ONU del 1990 sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie”?.

- A livello europeo si è di fronte a una generale tendenza delle Istituzioni comunitarie a livellare al basso l’impegno comune quanto alle politiche riguardanti rifugiati, richiedenti asilo, migranti e loro famiglie: perché a Verona la Chiesa non estende anche a problemi come questi l’esemplare fermezza che dimostra nel richiedere il riferimento alle radici cristiane dell’Europa nel Trattato di Costituzione europea?

- A livello nazionale quanto a politiche migratorie si è di fronte a uno stato confusionario, a una inefficace gestione dei flussi migratori, a disfunzioni sistematiche dell’apparato amministrativo, a drammatiche situazioni cui non ci si può rassegnare: perché non approfittare dell’assise di Verona per un pronunciamento che non sia semplice denuncia ma vigorosa proposta, ad esempio, a favore del diritto di voto amministrativo e della riforma della legge sulla cittadinanza, o per contrastare  il traffico degli esseri umani, la tratta delle straniere e quel peccato che grida vendetta al cospetto di Dio che è il defraudare della giusta mercede il lavoratore anche straniero?

- A livello di enti locali: già ora e tanto più in prospettiva le politiche di integrazione verranno giocate in sede di regione, di provincia, di comune. Ci sono anche istituti, come quello della consulta regionale, del consiglio territoriale per l’emigrazione, del consigliere aggiunto che, maggiormente attivati, potrebbero dare più protagonismo agli immigrati: un campo tutto aperto al quale chi è attento ai problemi delle migrazioni, non può dirsi estraneo.

6. Dai migranti un richiamo al senso stesso della vita cristiana

Il ripetuto richiamo della Prima Lettera di Pietro ai cristiani quali “stranieri e pellegrini” viventi nella diaspora (I Pt 1,1; 1,17; 2,11) non può essere forzato fino ad applicarlo alla lettera alla situazione dei migranti; sta però il fatto che essi sono l’homo viator per eccellenza, l’icona vivente e visibile, attuale e concreta di questa condizione che connota in profondità il senso cristiano della vita (cf. n. 1). è legittimo perciò cogliere un nesso tra la figura del migrante e quella del cristiano, come fa Giovanni Paolo II: “A questo crescente spostamento di gente la Chiesa guarda con simpatia e favore… perché in esso scorge l’immagine di se stessa, popolo peregrinante” (Messaggio GMM 1992, n. 2).