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Genealogia di Gesù: giustizia e fraternità (B. Maggioni)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 1/06


Questo articolo di Mons. Bruno Maggioni, professore di esegesi del Nuovo Testamento alla Facoltà Teologica dell’Italia del Nord, è stato tratto dal libro “I personaggi della natività” (Ancora, 2004).

E una riflessione sulla “Genealogia di Gesù” nel vangelo di Matteo, un brano destinato a mostrare, attraverso l’enumerazione degli antenati di Gesù come Egli rispecchiasse le caratteristiche del Messia così come indicato nei libri dei Profeti nei Salmi.

Quello del messianismo è un tema fondamentale dell’ebraismo, dottrina che affidava la restaurazione e lo splendore del regno d’Israele a un inviato (o inviati) da Dio, unto (messia) re del suo popolo. L’attesa di un futuro di pace e prosperità in cui si realizzeranno le promesse di Dio e si vivrà in piena fedeltà all’alleanza, è costante in tutto l’Antico Testamento. Al tempo di Gesù era forte l’attesa di un “figlio di Davide” capace di rinverdire le speranze di Israele e soprattutto di opporsi alla dominazione romana. I profeti predicavano la venuta di un messia dall’inaudita potenza, le cui origini divine potevano portare alla liberazione nazionale. Ovviamente, il messia doveva sempre provenire dalla stirpe più nobile del popolo ebraico, ovvero essere discendente del re Davide in persona. Questo si riflesse nella genealogia posta all’inizio del Vangelo in cui Gesù viene fatto discendere da Davide.

Mons. Maggioni, nel brano proposto, puntando l’obiettivo su alcuni personaggi chiave, fa una analisi di tutto il percorso che, nella storia della salvezza, ha portato al Messia incarnato in Gesù: nella sua genealogia sono descritte contaminazioni di vario genere rispetto ad una linea generazionale di tipo puramente etnico del “Figlio di Davide, figlio di Abramo”. Attraverso queste contaminazioni di personaggi stranieri, prostitute, di procreazioni non del tutto cristalline, l’immagine di Gesù in quanto messia non viene impoverita, anzi si rivela arricchita di quei valori necessari per staccarsi dal semplice contingente e limitato in cui era relegata la figura giudaica dell’atteso messia.

L’osservazione finale dà spessore a tutto l’articolo perché mentre le genealogie sono costruite dall’uomo per identificarlo separandolo da quelle di altri uomini, quella di Gesù ha il significato opposto di collegare, unire, mettere in relazione, universalizzare.

(mons. Piergiorgio Saviola)

Gli antenati di Gesù

Nella prima pagina del Vangelo di Matteo (1,1-17) compaiono una folla di personaggi, alcuni molto noti, altri quasi sconosciuti. Sono gli antenati di Gesù. I personaggi sono molti, ma i principali sono Abramo, Davide, quattro donne e, alla fine, Giuseppe e Maria. Servendosi di una genealogia, Matteo si inserisce in un’ampia tradizione, che probabilmente affonda le sue radici in un contesto nomadico e beduino. Le genealogie garantivano e stabilivano i legami di parentela. E soprattutto dopo l’esilio babilonese che in Israele si diffonde il genere genealogia: la maggioranza delle genealogie conservateci dall’Antico Testamento è certamente di quest’epoca. A Babilonia esiliati ebrei e abitanti del posto si erano inevitabilmente mescolati: al ritorno in patria si pose la questione dell’integrità razziale, specie per la classe sacerdotale. Un testo del libro di Esdra (2,61) lo testimonia. Al tempo di Gesù erano certamente in voga: qualcuno pensa che le genealogie delle principali famiglie fossero radunate e conservate in registri ufficiali.

Dallo stato civile la genealogia passa nella letteratura biblica, divenendo un genere letterario per presentare dei personaggi che sono nella storia come delle pietre miliari: così, per esempio, la genealogia di Noè (Gn 5,1-32) e di Abramo (Gn 11,10-32). Gesù è uno di questi personaggi importanti, che imprimono alla storia di Dio una svolta.

L’intenzione della genealogia biblica non è semplicemente di offrire un albero genealogico, ma di tracciare, in modo scheletrico e attraverso alcuni nomi, una storia che continua.

La genealogia di Gesù è costruita secondo una struttura simmetrica: tre blocchi di quattordici nomi. E un particolare che l’evangelista stesso evidenzia: «Il totale delle generazioni è dunque: da Abramo a Davide, quattordici generazioni; da Davide fino alla deportazione in Babilonia, quattordici generazioni; dalla deportazione in Babilonia fino al Cristo, quattordici generazioni» (1,17). Perché tanta importanza per questa simmetria, che - oltretutto - richiede che nella terza parte si faccia un’eccezione contando anche il nome di Maria? Un semplice desiderio di simmetria? Certamente no. Una delle tesi più care all’apocalittica giudaica è che l’opera sovrana di Dio si manifesti in una misteriosa e numericamente determinata periodicità. Nel ritmo numerico si può cogliere il cammino della storia. In altre parole, Matteo intende affermare che Gesù apparve a noi nel tempo adatto, fissato da Dio, e che col suo arrivo la storia giunge alla sua pienezza.

«Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo» (1,1). Se l’intenzione di Matteo era, come già detto, di dimostrare la discendenza davidica di Gesù, perché riportare la genealogia all’indietro fino ad Abramo? Evidentemente Davide non basta per comprendere Gesù. Davide rappresenta la linea del sangue e della razza, una linea particolaristica del tutto insufficiente per cogliere veramente il significato del farsi uomo del Figlio di Dio.

Abramo, invece, rappresenta la linea della gratuità e della direzione universale del significato di Gesù. Anche se profondamente inserito in un popolo particolare, Gesù è per il mondo. Appartiene all’umanità. Nessuna nazione e nessun popolo, neppure la Chiesa, potranno mai vantare di possedere il Cristo in proprio, come se fosse veramente solo per loro.

Si leggano le prime righe con le quali il libro della Genesi introduce la storia di Abramo. La sua chiamata (Gn 12,1-3) mostra che la scelta di Dio non poggia su un legame di sangue o sull’appartenenza a una razza (cosa che Israele, in seguito, sarà invece tentato di immaginare), ma unicamente sulla gratuità della libera decisione di Dio. Abramo è un uomo come tutti, pagano, e l’unica caratteristica che lo distingue è la sua obbedienza alla chiamata. Lo scopo della chiamata di Abramo è poi l’universalità: egli è chiamato per divenire benedizione per tutte le genti.

Per gli ebrei del tempo la discendenza davidica del Messia era questione molto importante. Lo abbiamo già detto. Ma perché? La tradizione biblica vede nella figura di Davide il modello di ogni autentico credente. La sua ascesa al trono, lunga, difficile, ostacolata, mostra la continua presenza del Signore. La persecuzione di Saul contro di lui mostra la protezione di Dio. Prima di essere un salvatore, Davide è egli stesso un salvato. E un’esperienza da fare per capire che la salvezza viene da Dio, per capire che ciò che conta è la fede e l’obbedienza al Signore. Pur consapevole delle sue prerogative, il re deve accettare i suoi limiti e quindi le decisioni di Dio.

E in questo contesto che si colloca la grande profezia di Natan fatta a Davide: «Il Signore ti annuncia che ti farà grande e ti darà una lunga prosperità. Quando saranno compiuti i tuoi giorni e tu scenderai a riposare con i tuoi padri, io farò sussistere la tua prole dopo di te; e renderò stabile il tuo regno. […] La tua casa e il tuo regno saranno stabili per sempre, e il tuo trono durerà in eterno» (2Sam 7,8-17). Questa profezia di Natan appartiene ai testi più importanti di tutto l’Antico Testamento. E il testo chiave che ispirò il messianismo regale, del quale si faranno portavoce i profeti. Suscitò una speranza talmente viva che, a ogni nuovo re, Israele sperava fosse arrivato quello ideale, quello promesso; e a ogni delusione la speranza, anziché affievolirsi, si faceva più ostinata e più purificata.

Ma nonostante tutto questo, Davide appare anche come un peccatore, e i capitoli 11 e 12 del secondo libro di Samuele (che citeremo parlando di Betsabea) raccontano il suo peccato ampiamente ma Davide è un peccatore che sa pentirsi: «Davide rispose: “Ho peccato contro il Signore”» (2Sam 12,13).

Non solo introducendo nella genealogia la figura di Abramo, ma anche altrove nel Vangelo, Matteo cerca di purificare il progetto messianico che l’espressione «figlio di Davide» connotava. Al tempo di Gesù tale espressione, particolarmente corrente, esprimeva una forma popolare di speranza messianica. Non solo, e non tanto, una discendenza da Davide, quanto un progetto di restaurazione religiosa e politica. Illuminante in proposito è il dibattito che si legge in Mt 22,41-45. Gesù non nega la sua discendenza davidica, ma nega l’importanza che gli scribi vi attribuivano: il Messia non deriva la sua discendenza decisiva da Davide. E soprattutto non condivide il progetto messianico che la sua discendenza sembrava coinvolgere. Ecco perché Matteo, nel nostro episodio, afferma la discendenza dal re ma insieme la supera. Si direbbe che la affermi con riserbo. E la novità di Gesù che impone tale riserbo. Gesù è nato dallo Spirito, dall’alto, e il suo progetto è quello della Croce. Egli viene da Davide, attraverso una linea di elezione che supera quella del sangue. Compie le promesse fatte alla casa di Davide, ma insieme giudica la casa di Davide e tutto Israele. In lui avviene un compimento nuovo, inatteso, per molti giudei deludente.

Nella genealogia compaiono quattro donne (oltre a Maria nella conclusione): Tamar, Raab, Rut, Betsabea, la moglie di Uria. Perché solo quattro? E perché proprio queste quattro?

Tamar rimanda al capitolo 38 del libro della Genesi. L’episodio raccontato può forse sorprendere e scandalizzare un lettore moderno. Ma nella tradizione e nella pietà popolare giudaiche l’agire di Tamar ha via via assunto un significato molto positivo, addirittura messianico. Il Messia doveva provenire da Giuda, ma la discendenza di Giuda rischiava di interrompersi. Allora Tamar si finse una prostituta e inganna il suocero, pur di tener viva la discendenza del marito morto. Si legge in un testo della pietà giudaica: «La santa Tamara santifica il nome divino. Ella che desiderava un santo seme inganna e fa un’opera santa. Così il suo piano santo, Dio lo fece riuscire. Ella conservava la sua vedovanza davanti al Signore, ma Dio non le rifiutava il desiderio di porre un germoglio nel popolo di Dio, perché è una discendenza che Dio ha benedetto».

Raab rimanda al libro di Giosuè (2,1-11). La lettura del racconto non sottolinea tanto il fatto che Raab è una prostituta, e neppure solo il fatto che è straniera, ma il fatto che ha messo tutto in opera (persino la menzogna) per permettere al piano di Dio di realizzarsi. Ma c’è anche la sottolineatura che c’è tanta ostinazione da parte di una donna straniera! Anche questa donna è entrata nella pietà giudaica e anche nei suoi confronti si pensò a un ruolo della Provvidenza: «Certi hanno detto - si legge in un testo rabbinico - che lo Spirito di Dio si era posato su di lei prima che gli Israeliti arrivassero nella terra promessa».

Anche il libro di Rut sembra sottolineare la stessa idea. Rut è una donna fedele e ostinata nel voler conservare la linea del marito, eppure è straniera.

«Davide generò Salomone dalla moglie di Uria» (1,6b): questa breve annotazione ricorda un episodio della vita di Davide, raccontato nel secondo libro di Samuele (capp. 11-12).

Un giorno Davide si invaghì di Betsabea, moglie di Uria, un soldato che si trovava al fronte a combattere per il suo re. La donna rimase incinta. Per sbarazzarsi dell’ingombrante marito, Davide mandò una lettera al generale che comandava le truppe: «Ponete Uria in prima fila, dove più ferve la mischia; poi ritiratevi da lui perché resti colpito e muoia» (2Sam 11,15). Un fatto ignobile e scandaloso, che tuttavia pare Davide abbia compiuto con coscienza tranquilla. La sua coscienza si risvegliò soltanto quando il profeta Natan, a nome di Dio, lo rimproverò apertamente (2Sam 12,7).

E probabile che Matteo, ricordando queste quattro donne, abbia voluto mettere in luce l’universalismo di Gesù, prefigurato appunto in queste donne che sono straniere. Gesù viene dall’umanità, non solo da Israele. Ma Matteo ha anche voluto ricordare (questo vale almeno per il caso di Betsabea) che fra gli antenati di Gesù ci sono anche i peccatori. Gesù è solidale con la storia degli uomini, così com’è, una storia non solo di santi, ma anche di peccatori. La sorprendente conclusione di queste frettolose annotazioni è che nel «libro delle origini di Gesù» vengono sconvolte le due principali distinzioni - cittadini e stranieri, giusti e peccatori - che da sempre la società utilizza per catalogare, separare ed emarginare.

Il punto principale della genealogia è però il suo versetto conclusivo (1,16): «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale fu generato Gesù, detto Cristo». Questo versetto introduce un’evidente rottura, cosa che attira l’attenzione del lettore. Lo schema rigido dell’intera genealogia (il tale generò il tale) viene spezzato. La generazione è sottratta a Giuseppe, il verbo non più all’attivo (generò), ma al passivo (fu generato). Chi è il generatore? La risposta viene data nel racconto successivo (Mt 1,18-25). La linea del sangue viene ridimensionata. Gesù non è solo (e tanto) figlio di Davide, ma viene da Dio. La linea orizzontale, pur affermando la profonda solidarietà del Cristo con gli uomini, non è in grado di spiegarne l’origine e la fisionomia: occorre la linea verticale. Questo è il mistero di Gesù, quel mistero che contiene la sorpresa e per molti lo scandalo. Gesù è inserito nella storia ebraica, ma la supera: è universale. E solidale con l’umanità, ma la sua origine viene dall’alto.

Per comprendere Gesù occorre dunque guardare in alto: egli è generato dallo Spirito di Dio senza concorso d’uomo. Ma occorre anche guardare alle spalle, risalendo sino ad Abramo. Le due filiazioni in Gesù si incontrano. Gesù è legato alla storia del suo popolo, solidale con essa, e ne costituisce il punto di arrivo. La sua storia è inscindibile da quella ebraica, e questa è inscindibile dalla storia del mondo. Ma l’osservazione che maggiormente ci interessa è un’altra: di solito si costruisce un albero genealogico per distinguere le proprie origini da quelle degli altri uomini. Qui è l’opposto: la genealogia è riportata non per separare ma per unire, non per contrapporre ma per collegare. Gesù non si separa dalla storia umana, ma vi entra pienamente. E questa la direzione costante dell’intero evento cristologico, già inscritta, quasi fosse un codice genetico, nelle stesse origini di Gesù. Il paradosso è che Gesù è il solo che potrebbe vantare una diversità. La linea orizzontale delle sue origini è, infatti, attraversata da una linea verticale che vi ha introdotto un’assoluta novità. Ma Dio non ragiona come gli uomini. Questi si illudono di affermare la propria originalità separandosi. Gesù, invece, esprime la sua novità e la sua trascendenza facendosi vicino.