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Dalla mobilità umana speranza e dinamismo (D. Sigalini)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 1/06


Disorientamento, incertezza, stanchezza, smarrimento e disperazione

Sono cinque parole che il documento preparatorio al convegno di Verona usa per definire lo stato d’animo che serpeggia nella nostra realtà italiana. è un deficit di speranza che colpisce la vita interiore. Ci sentiamo incapaci o indecisi nell’affidarci a un progetto più grande di noi, di sentirci creature che hanno bisogno delle braccia di un Padre e che hanno il coraggio di affidarsi a Lui. Veniamo da una cultura che ci ha fortemente messo in guardia da un atteggiamento religioso troppo fatalistico, o meglio, da una scelta religiosa tout-court. L’uomo deve bastare a se stesso. Tutto dipende dalle leggi della natura.

Ci siamo detti che la scienza è in grado di giustificare tutto, di determinare tutto, di prevedere ogni minimo cambiamento del sistema vita. Invece ci siamo trovati a fare i conti con lo tsunami, a non essere capaci di controllare la pioggia, la neve o la nebbia, le pandemìe e le malattie e a sentirci sempre in pericolo. Il terrorismo per giunta ha minato le nostre stesse relazioni, e vederci continuamente controllati, passati per il metal detector, interrogati ci crea un senso di grave instabilità. L’altro è diventato un nemico, anziché essere un possibile compagno di ricerca del senso della vita. Credevamo di non aver bisogno di nessuno, abbiamo cancellato la parola speranza e l’abbiamo sostituita con le previsioni, ma ancor prima con gli oroscopi e coi maghi. Pensiamo che la vita sia solo questione di partire o no per uno week end, evitare le code in autostrada, controllare il prezzo della benzina.

Se accanto a questo poniamo la rassegnazione e la stanchezza con cui affrontiamo il futuro, il quadro è completo. Le abbiamo tentate tutte e non riesce niente. Il mondo va male, i giovani vanno per la loro strada, la gente ha perso i valori, conta solo quello che si vede o che si vuol far vedere, la politica è solo un insieme di interessi, la religione è una serie di gesti tradizionali per gente che non ha niente da fare; la vita è dura e non ti regala niente nessuno; quando sei nelle difficoltà, spariscono tutti gli amici. La comunità cristiana è diventata fredda e rituale. Ripete sempre le stesse cose e pure si stanca di quel poco che riesce a fare. In parrocchia non circola più nessuno. Scatta la frase conclusiva: “ai miei tempi”. Non si è più disposti a vedere un futuro migliore; ci si rifugia nella nostalgia del passato.

La mobilità umana

In questo panorama si è affacciato da non poco tempo per tutti indistintamente il fenomeno dell’immigrazione che ha reso evidente, anche per chi stava tranquillo, che una caratteristica del mondo di oggi è la mobilità umana. Prima la mobilità era di qualche regione italiana che era da sempre stata costretta ad emigrare. L’emigrazione era vista come una pesante necessità, una condizione insopportabile. Oggi abbiamo tra di noi le immagini che volevamo dimenticare di chi partiva da noi, di chi si portava via il suo problema e lo viveva lontano. Erano interessate a questo problema solo le famiglie degli immigrati.

Oggi invece le nostre comunità sono trasformate in società multietniche e multireligiose. Ieri, le distanze geografiche facevano convivere pacificamente le differenze di cultura, di religione, di etnia. Il poeta americano Robert Frost diceva ironicamente che buone staccionate fanno buoni vicini. Oggi, la globalizzazione ha fatto cadere queste staccionate, e questo fatto, in sé, è molto positivo. Lo straniero, l’altro, non è più uno oltre i nostri confini e con il quale tutt’al più ci confrontiamo per avere conferma di noi stessi e della nostra identità etnica. Lo straniero ora ci raggiunge nelle nostre città, è tra noi. E questo cambia tutto. Cambiano sentimenti e forme di appartenenza, processi di costruzione dell’identità e del riconoscimento, modi e regole della cittadinanza, rapporto con la memoria e la cultura. La conseguente riduzione delle distanze di protezione, prodotta dai processi di immigrazione e dal pendolarismo culturale, costringe alla convivenza persone di diversa cultura, di diversa religione, di diversa etnia. La convivenza diventa spesso confronto-scontro di convinzioni religiose e politiche, confronto-scontro di modelli e paradigmi di civiltà. Con le distanze lunghe, gli altri rimangono “prossimo”. Con le distanze ravvicinate, i medesimi diventano concorrenti.

è molto significativo, a questo riguardo, il testo di un manifesto d’un centro sociale d’una cittadina tedesca che dice: “il tuo Cristo è ebreo; la tua auto è giapponese; la tua pizza è italiana; la tua democrazia è greca; il tuo caffè è brasiliano; la tua vacanza è turca; i tuoi numeri sono arabi; la tua scrittura è latina; e il tuo prossimo è solo uno straniero”?

C’è da decidere se di fronte a questi uomini come noi che invadono le nostre comunità dobbiamo fare come ai tempi di Agostino, in cui la gente si dava da fare per sotterrare i beni materiali, per non farseli rubare. Si mettevano tutti in difesa.

La mobilità ci regala speranza

S. Agostino faceva presente alla sua gente che nascondeva i suoi beni che il ladro e la tignola li avrebbero scoperti e consunti, e invitava a riporre l’unica speranza nella relazionalità, che è l’unica garanzia di soccorso nel momento dell’angoscia. L’Europa entra in crisi di fronte a questo allargamento perché ha paura di dover ridurre i suoi desideri, ha paura della spartizione come diminuzione di beni, e non pensa all’accrescimento di valore antropologico, di generosità sociale, di umanità che si arricchisce nello scambio di tutti quegli sforzi che ciascuno fa nel tentativo di affrontare il rischioso mestiere di vivere. Chi ha detto che lo straniero non abbia nella sua vita le risposte che tanto noi cerchiamo per la nostra? Perché queste nuove popolazioni non possono essere occasione di arricchimento culturale, di creazione di rapporti di solidarietà, di allargamento di orizzonti sociali? Sopratutto ci domandiamo: con che spirito guardano alla loro vita, alla loro sopravvivenza, al loro futuro?

Se siamo capaci di andare oltre i luoghi comuni, le pietose immagini televisive, le campagne di stampa che gridano allo scippo, possiamo vedere in questi uomini, in queste donne e bambini, in questi giovani la grinta di chi vuol credere ancora nella vita, di chi non vuol soccombere, di chi ha un progetto dentro da far crescere. Sono pieni di immaginazione, pensano a un mondo diverso possibile, a condizioni di vita più degne, a un futuro per sé e per tutti. Lasciano la povertà, la miseria non per arricchirsi, anche se il miraggio spesso è cattivo consigliere, ma per avere anch’essi un posto nel mondo. Stanno dando un volto alla speranza. Di fronte a una società stanca e depressa, preoccupata solo del superfluo, attaccata ai beni più che ai valori, questi popoli ci insegnano che la vita va vissuta con grinta, che non ci si deve mai adattare, o lasciarsi andare, che per i figli si può ancora investire senza aver davanti lo spauracchio del figlio drogato o delinquente.

Queste stesse caratteristiche le leggiamo anche nei nostri emigrati, che ancora una volta trovano necessario lasciare la propria terra. Ancora non si sentono falliti se devono lasciare casa e figli per offrire loro un futuro: se fanno questo significa che hanno un progetto, che non si adattano, che hanno un cuore più grande delle depressioni di chi vive di sussidi, di raccomandazioni, di turbate a danno dei poveri.

La mobilità porta speranza se si àncora a valori comuni, non a interessi comuni

Tutto il nostro mondo è in mobilità, sia per la precarietà del lavoro, sia per il modello organizzativo della società, sia per la stessa struttura dell’uomo moderno che avendo ampliato la sua immaginazione, vuole abitare l’universo e non il classico fazzoletto di terra. Noi italiani siamo ancora un popolo di mammoni che vuol tanto bene alla sua skyline, ma lentamente diventiamo cittadini del mondo. Rischiamo lo sradicamento, ma rischiamo pure una coscienza di umanità allargata, senza confini, aperta a tutte le ricchezze umane che Dio ha seminato nel mondo. La speranza è fatta di larghi orizzonti, non di delimitazioni da pollaio. Certo occorrono delle attenzioni perché la mobilità non ci porti nella insignificanza, nello sradicamento, nella perdita di identità: occorre che l’umanità che si fa mobile abbia sempre un ancoraggio ai valori fondamentali della vita che per noi sono valori evangelici:

- sentirsi fratelli, di uguale dignità, e per noi perché figli dello stesso Padre;

- sapere il massimo di realizzazione cui tendere è solo nell’arte dell’amore, che per noi è Dio come dice la prima enciclica di Papa Benedetto;

- vivere solidali nell’aiuto fraterno, che per noi cristiani è l’altra faccia dell’unica medaglia delle vita che è ancora l’amore;

- avere la coscienza che il mondo non segue un destino, ma una vocazione, è sempre orientabile al meglio, per noi cristiani il punto di approdo è il regno di Dio che ci verrà donato da Dio stesso;

- coltivare la giustizia, la verità, la pace che per i cristiani sono anche sempre da invocare perché doni esclusivi di Dio.

Forse siamo troppo sedentari, troppo sicuri di noi, abbiamo già messo il chiavistello alla porta di casa, siamo già in pantofole; per questo non speriamo più, non attendiamo più, ci basta un talk show, non la vita in diretta. Preferiamo vedere il mondo virtuale, ma avremo solo speranze virtuali che si dileguano come le nebbie del mattino.