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Don Dino, prete povero e servo (E. Benatti)
Centenario della nascita di Don Dino Torreggiani

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 6/05


Centenario della nascita di don Dino Torreggiani

 

DON DINO, PRETE POVERO E SERVO

 

di Emanuele Benatti

 

Ho incontrato per la prima volta don Dino nel marzo 1963 in canonica a Cà de Caroli, nello Scandianese, dopo la Messa festiva, verso mezzogiorno: avevo 16 anni ed ero reduce da un’esperienza vocazionale negativa. Ricordo chiaramente, di quell’incontro, una frase che avrei poi risentito anche in altre occasioni: “Non si muove foglia che Dio non voglia!”. Don Dino mi invitò poi ad avere fiducia in Dio “che sa scrivere dritto anche tra le righe storte, le nostre”. Alcuni mesi dopo, alla ripresa degli studi ginnasiali, durante le Lodi del giovedì, alle parola del Salmo 146 “Il Signore non apprezza l’agile corsa dell’uomo”, interrompendo la lettura, mi disse: “Hai capito?”. Conoscendo la mia passione per il calcio, don Dino temeva che mi lasciassi deviare o distrarre dall’attività sportiva…

Confesso che non mi è stato possibile capirlo e seguirlo in tutte le sue “manie” (così sembravano allora a noi più giovani alcune sue idee e richieste).

Col tempo molte cose le ho capite e condivise: gliene sono profondamente riconoscente, così come sono riconoscente al Signore per avermi fatto incontrare i Servi della Chiesa, tra i quali ho potuto e tuttora posso crescere anche con l’aiuto di altre figure di sacerdoti e di laici davvero esemplari.

Insieme, aiutato soprattutto da don Alberto Altana, co–fondatore dell’Istituto Servi della Chiesa, abbiamo spesso riflettuto sulle parole profetiche scritte da don Dino su quel biglietto messo sotto il calice della prima Messa in Ghiara, il 25 marzo 1928. Quella duplice richiesta, di praticare i voti religiosi restando sacerdote diocesano e di dedicarsi alle categorie più abbandonate, conteneva già in embrione tutto il suo carisma e segnò poi non solo la vita di don Dino e dell’Istituto, ma anche quella della Chiesa e della società.

Basta rileggere la testimonianza del Vescovo Mons. Baroni, o ricordare il conferimento da parte del Ministro di Grazia e Giustizia, nel 1961, della medaglia d’argento al merito della redenzione sociale.

Ritornando a quel biglietto sotto il calice, vorrei soffermarmi anzitutto sulla prima grazia richiesta. Vi troviamo, con vent’anni d’anticipo, una prima intuizione profetica, quella di una possibile sintesi tra due realtà per secoli tenute separate nella vita della Chiesa: la consacrazione con voti e la secolarità, cioè la presenza indifferenziata, salvifica e fermentatrice dei consacrati nel loro contesto sociale ed ecclesiale, consacrazione secolare vissuta sia dai preti che dai laici. Fu proprio quello che don Dino realizzò già negli anni ‘30 all’oratorio di S. Rocco, dove a preti consacrati che restavano diocesani si affiancarono laici consacrati che restavano nel mondo. In questo don Dino precorse di vent’anni la realtà degli Istituti Secolari, approvati dalla Chiesa solo nel 1947, con la Provvida Mater di Pio XII.

Ma c’è, sempre nella richiesta della prima grazia, un’altra intuizione profetica, ripresa poi dal Concilio Vaticano II, quarant’anni più tardi: quella del sacramento del Vescovo, considerato come centro di comunione dei diversi carismi e vocazioni e come padre di tutti i consacrati, nel superamento di qualunque estraneità e privilegio. “Nihil sine episcopo!”, “niente senza il Vescovo!”, ripeteva spesso don Dino, citando S. Ignazio di Antiochia.

Il Vaticano II consacrerà appunto la centralità del ministero del Vescovo per l’animazione della comunione in una Chiesa che si vuole povera, ministeriale (serva), missionaria.

Don Dino, fin dagli inizi del suo sacerdozio, ha pensato di legarsi al proprio Vescovo con il voto di obbedienza. E quando, nel 1948, Mons. Socche volle che questo impegno fosse esplicitamente affermato nella prime Costituzioni dei Servi della Chiesa, don Dino ne fu gioiosamente colpito e riconoscente. E si trattò sempre di una obbedienza apostolica, generosa e coraggiosa, a volte sofferta e insonne, mai servile né passiva né formale.

Ancora, nella prima richiesta, c’era un’altra intuizione profetica, quella dell’importanza della povertà in funzione del servizio, quest’ultimo esplicitamente richiesto poi nella seconda parte del biglietto.

E da notare che, con l’ordinazione, l’impegno del sacerdote diocesano al celibato e alla castità è analogo ad un voto; per l’obbedienza c’è una promessa formale dietro esplicita richiesta del Vescovo; per la povertà invece non c’è nessun impegno esplicito di carattere ecclesiale. Ebbene don Dino fece della povertà il primo voto, il primo impegno vissuto come “mezzo indispensabile di apostolato sociale tra il popolo” e come “immedesimazione nei più poveri e fonte di grazia per la loro salvezza”. Forte di questa grazia – richiesta e, crediamo, ottenuta in quella prima Messa – don Dino visse sempre da povero, con i poveri e per i poveri.

“La profezia di don Dino al riguardo – scriverà don Altana nel 1992 – è inequivocabile: l’unica via di salvezza, per un mondo nel quale la bramosia del possesso produce frutti di oppressione e di morte, sta nell’impegno del cristiano, e in particolare del prete, ad essere povero con i poveri e per i poveri, di una povertà affettiva ed effettiva, progressivamente crescente, tendente all’immedesimazione redentiva e liberatrice”.

Per don Dino il rapporto tra povertà e servizio era evidente e fondante: non si poteva essere servi senza essere poveri e non si poteva essere poveri – nel senso evangelico della parola – senza essere servi. “I ricchi – ripeteva spesso – non amano servire, preferiscono farsi servire”.

Il Concilio ha consacrato anche questa intuizione quando, nella Lumen Gentium, afferma che la Chiesa è chiamata a seguire Gesù, divenuto servo (Fil 2,7) e povero per arricchirci con la sua povertà (2Cor 8,9), e a riconoscere “nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore povero e sofferente” (LG 8). Consapevole di ciò, don Dino scriveva con soddisfazione alla fine del 1965: “è commovente riscoprire l’Istituto nelle sue note essenziali in perfetta aderenza con quanto la Chiesa sta riscoprendo in se stessa: servizio e povertà”.

E proprio questo legame tra la povertà consacrata e il servizio il punto di passaggio tra la prima e la seconda grazia chiesta in Ghiara per intercessione della Madonna; quella di darsi alle categorie più abbandonate. Don Dino, forte anche dell’appoggio convinto di don Altana, sosteneva che “il padrone del servizio è il bisogno” e che il servizio cristiano si dirige con maggior urgenza a chi ha maggior bisogno, cioè a chi è più abbandonato, socialmente, pastoralmente, spiritualmente. Nei primi tempi si trattava soprattutto di nomadi e di carcerati, poi vennero le periferie abbandonate (al Tondo di Reggio Emilia come alla Magliana di Roma), poi i lebbrosi e i disabili (soprattutto in Madagascar), poi i malati di AIDS, le ragazze mercanteggiate sulla strada, infine i meninos de rua (in Brasile) e ancora altre categorie di persone e regioni abitualmente dimenticate o disattese.

In questa scelta originaria e costante, incarnata in situazioni e con modalità diverse, don Dino ha offerto il suo prezioso contributo ad un’altra opzione della Chiesa conciliare e post–conciliare, la scelta preferenziale per i più poveri. Scelta preferenziale non significa esclusiva: si tratta infatti, come notava spesso don Altana, di “una scelta che non esclude nessuno, ma anzi, diventando ecclesiale, è grazia per tutti, perché stimola tutti ad una ricerca affettuosa dei più bisognosi e abbandonati e quindi porta alla salvezza attraverso l’esercizio dell’amore e del servizio” (D. Altana: “Don Dino, il suo messaggio e la sua opera”, 1992).

Per terminare, se ci chiediamo da dove don Dino ha attinto la sua predilezione per la povertà e per il servizio, dobbiamo risalire alla povertà rigorosa ma ospitale, vissuta durante l’infanzia, in famiglia: don Dino per anni è andato a scuola a piedi scalzi, con le scarpe in spalla, ogni giorno, da Masone, suo paese natale, a Reggio (16 km per l’andata e il ritorno); il padre Giacomo, che era carrettiere, ospitò per anni, d’inverno, una famiglia di zingari sotto il portico del fienile; la madre Caterina aveva accolto di buon grado come figlia, la piccola Rosa, una trovatella, che si aggiunse agli altri 10 figli.

Per questo, forse, era normale per don Dino riempire la casa di ex–carcerati, zingari, gente senza dimora fissa; ed era impensabile santificare le feste senza la presenza di qualche ospite a pranzo.

Ma le sue umili e semplici origini familiari non spiegano, da sole, questa sua predisposizione. La sua teologia della carità, ispirata dai testi dello Chevrier e del Marmion, si nutriva della contemplazione quotidiana del Cristo povero, servo, crocifisso, offerto, presente, tanto nel sacramento dell’altare quanto nel sacramento dei poveri. In effetti, dietro e sotto il don Dino pubblico, brillante, creativo, infaticabile, si nascondeva, ma per noi era visibilissimo, il don Dino orante e contemplativo, “prete di tabernacolo e di rosario, dalle ginocchia piagate, prete fermentato nel vino della Messa”, prete innamorato di Cristo e dei suoi misteri, prete amante perciò del suo corpo mistico e delle sue membra più deboli e bisognose.

Ad oltre vent’anni dalla sua morte (27 settembre 1983, giorno in cui la Chiesa celebra la memoria di S. Vincenzo de’ Paoli, l’apostolo dei poveri, al quale don Dino si era sempre ispirato), in vari ambienti ecclesiali, nazionali ed internazionali, e in altrettanti ambienti di pastorale specifica (carceri, mondo dei Sinti e dei Rom, circhi, luna park) la memoria di don Dino resta più viva che mai. Sono invece, purtroppo, le giovani generazioni ad ignorarlo. In questi anni, non sono stati pochi i vescovi, primo fra tutti Mons. Caprioli, i sacerdoti e i laici a rimproverarci di essere “figli irriconoscenti”, troppo di–screti nel tenerne viva la memoria.

è che i Servi della Chiesa non possono dimenticare alcune parole infuocate di don Dino stesso, contrario a quello che lui chiamava “il mito del fondatore”. Eppure, a più di vent’anni dalla morte, vari segni ed eventi ci sollecitano ad assumere anche questa responsabilità.

Per questo, nell’anno centenario della sua nascita (7 settembre 1905–2005), abbiamo deciso, per il bene della Chiesa, dell’Istituto stesso e della società, di chiedere al  Vescovo di Reggio Emilia l’introduzione dell’iter diocesano per la causa di canonizzazione. E proprio il 15 ottobre 2005, al Palazzetto dello Sport di Reggio Emilia, al termine della Messa celebrata per la festa della Congregazione Mariana delle Case della Carità, fondata da Mons. Mario Prandi di Reggio Emilia, Mons. Caprioli ha annunciato con enfasi il “nihil obstat” della Sacra Congregazione per il Culto dei Santi riguardante l’apertura dell’iter diocesano per la canonizzazione di don Dino Torreggiani. Il “Comitato attore”, una volta riconosciuto e approvato dal Vescovo, inizierà il suo lavoro di ricerca e di raccolta di materiale e di testimonianze, favorevoli e contrarie. Poi spetterà agli organi ufficiali e competenti della Chiesa fare il necessario discernimento. L’iter sarà lungo. Chi vivrà, vedrà, ma nessuno ci perderà…