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Il Direttore diocesano Migrantes tra servizio, difficoltà e speranze (D. Licata)
Risultanze di una inchiesta

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 6/05


IL DIRETTORE DIOCESANO MIGRANTES TRA SERVIZIO, DIFFICOLTA´ E SPERANZE.

Risultanze di un’inchiesta

 

di Delfina Licata

 

Al di là delle giustificazioni ecclesiologiche e dei documenti ufficiali chi è oggi il Direttore Diocesano Migrantes (DDM)? Ascoltare la loro voce e dar vita ai problemi che in prima persona si trovano ad affrontare e a risolvere nei territori ai quali sono strettamente connessi per il loro operato è quello che qui di seguito ci proponiamo: ascoltare le loro testimonianze di vita e di lavoro delineando così tre figure esemplificative della ricchezza operativa e pastorale che questi uomini e queste donne apportano con il loro lavoro costante spesso silenzioso e all’ombra.

Leggendo il documento “Servizio Pastorale del Direttore Diocesano Migrantes” approvato dalla Commissione Episcopale Migrazioni (CEMI) il 17 gennaio 2005, emerge come il DDM è il collaboratore del Vescovo, incaricato della pastorale per i migranti.

Migrare è un verbo che nel nostro Paese acquista sfumature di significato differenti rispetto a tante altre realtà geografiche e questo a causa della vera e propria diaspora che l’Italia ha vissuto storicamente e che ha portato oggi ad avere più di 60 milioni di oriundi italiani all’estero e 4 milioni di cittadini italiani emigrati in tutto il mondo. I piani, dunque, che un DDM deve costantemente mantenere in equilibrio sono due: la percezione di noi cristiani verso i migranti (siano essi italiani o stranieri, sia essa dunque emigrazione italiana all’estero o immigrazione straniera in Italia, oppure zingari, fieranti e circensi, marittimi e aeroportuali) e la percezione che il migrante ha di noi.

“Benché non manchino – ci dice uno dei tre direttori da noi ascoltato – le opere rivolte direttamente ai migranti, il mio lavoro consiste nel ricordare a noi stessi e ai nostri cristiani: Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto (Es 2,21)”. Come tradurre operativamente la parola di Dio nel territorio? Sono tre le azioni proposte da un testimone:

– osservare e studiare la nuova realtà alla luce della fede;

– rispondere, ossia scrivere, lavorare e creare servizi sul piano sociale che non si riducano ad assistenza, ma aiutino lo straniero a diventare autonomo;

– dialogare con le altre chiese e le altre religioni dando spazi di preghiera e aiutando le nostre comunità ad aprirsi ai nuovi cittadini.

Dall’esperienza dei tre DDM intervistati emerge come sia fondamentale nello svolgimento delle attività il ruolo della parrocchia: occorre partire dal micro–contesto per sviluppare un lavoro di rete che coinvolga tutti gli Uffici diocesani (per proposte e progetti congiunti), le comunità etniche, gli sportelli specifici, gli istituti religiosi, le associazioni, gli Enti Locali. Fondamentale è la formazione continua e l’aggiornamento degli operatori impegnati in questo lavoro e in chi è inserito nell’opera di catechesi, siano essi laici o laiche, religiosi e religiose. Importanti sono anche le iniziative di valorizzazione della presenza immigrata nel territorio e della memoria del passato di emigrazione da proporre periodicamente: mostre fotografiche, momenti di aggregazione con la comunità autoctona, feste dei popoli, concerti di musica etnica, mercati di prodotti tipici, mostre di artigianato del mondo.

Quanto descritto risulta vanificato dalla “inefficienza delle politiche per l’integrazione realizzate dalle amministrazioni comunali e dalla scarsa partecipazione riscontrata nei convegni e nei seminari di formazione o aggiornamento organizzati”. Particolarmente difficile è il rapporto con le comunità Rom: ciò è stato messo ben in evidenza da due dei testimoni ascoltati. Lavorare con i Rom significa superare il pietismo e stimolarli all’inserimento nel contesto socio–culturale in cui si trovano a vivere nel rispetto della diversità. Tra le maggiori difficoltà evidenziate dai DDM risultano tanto il dialogo con le istituzioni affinché si lavori per la prevenzione e non per la repressione quanto il reperire fondi per interventi che siano continuativi nel tempo in modo tale che i servizi offerti siano efficaci.

E chiaro che le difficoltà sono strettamente connesse, oltre che al territorio nel quale si opera, alla personalità e al carisma dello stesso DDM: a seconda dell’esperienza maturata in relazione alla durata dell’incarico, il DDM diviene sempre più sicuro delle azioni da intraprendere e delle chiavi di lettura secondo le quali affrontare ciò che accade nel proprio territorio. A tal proposito è emersa la necessità di non nascondersi dietro finzioni o falsi moralismi. Il servizio pastorale al quale il DDM è chiamato nei cinque settori della mobilità umana previsti, richiede tempi lunghi e risposte di ampio respiro: la repressione è inutile e costa molto.

Occorre invece:

– puntare sulla risoluzione dei conflitti e sulla convivenza interculturale cercando di non farsi demoralizzare dalle chiusure esistenti nel proprio territorio spesso caratterizzato da spinte minoritarie anche razziste;

– lavorare in rete con il maggior numero di realtà presenti anche laiche e non cristiane quali, per esempio, l’Islam”;

– adoperarsi per far capire agli ‘avversari’ la bontà delle decisioni prese.

Un testimone parla di contesto esterno in cui si nota una certa diffidenza, mista comunque a sensibilità, da parte della gente nei confronti dello straniero e del diverso in genere e di un contesto interno in cui la numerosità della popolazione presente sul territorio, i cinque settori di cui il DDM è chiamato ad occuparsi, la vastità del territorio e la carenza di tempo creano grandi difficoltà d’azione e di intervento.

Da quanto descritto è possibile delineare i settori più problematici e quelli, invece, di maggiore efficacia. L’esperienza di Torino porta a rilevare che molto validi risultano oggi gli ambiti relativi alla ricerca–lavoro, alla ricerca–casa, alla consulenza di vario tipo, al sostegno psicologico con l’organizzazione di accompagnamenti solidali, alla prevenzione o al recupero delle donne vittime di tratta e dei minori non accompagnati, ai corsi di lingua e cultura. Più problematici risultano sia i settori collegati all’accoglienza nelle comunità caratterizzate da mentalità ancora legate all’assistenzialismo e restie ad aprirsi al nuovo, sia quegli ambiti legati all’assistenza soprattutto di tipo economico.

Di conforto e di aiuto a sopperire alle numerose difficoltà descritte sono i tanti collaboratori che affiancano i DDM: persone capaci, molto motivate, disponibili all’accoglienza e alla ricerca di soluzioni positive e innovative. Si tratta di uomini e donne, professionalmente preparati, spesso laureati, mediatori culturali italiani e stranieri, cristiani o di altre confessioni religiose, referenti di comunità etniche, giovani del servizio civile, moltissimi i volontari, giovani o pensionati, religiose e sacerdoti, volontari pastorali e operatori di catechesi.

Per migliorare il lavoro i DDM intervistati propongono di arrivare alla costituzione di una vera e propria équipe preparata ad affrontare tutte le situazioni operando fisicamente in una stessa struttura in cui sia più semplice rapportarsi e predisporre piani di intervento veloci, efficaci e strategici rispetto alle necessità che , di volta in volta, si verificano.

Sensibilizzazione, formazione e programmazione sono le tre parole chiave per il lavoro futuro del DDM da esercitare sia sul piano sociale che culturale con occhio di riguardo alla risoluzione dei problemi effettivamente rilevati e vissuti nel territorio.

Chi è il Direttore Diocesano Migrantes ideale? “Un uomo/donna, religioso o laico, capace di accogliere e amare nuovi fratelli (nuovi cittadini), di dialogare, di far capire alla Chiesa locale che la missione è anche quella di accogliere (non solo assistere) chi viene a noi, di costruire una rete anche con il pubblico e il volontariato, capace di leggere questo avvenimento come segno dei tempi. Un uomo/donna che non ha paura della realtà migratoria perché è una parola che Dio dice a noi e con la quale misurarci”. “Dovrebbe poi essere una persona che crede in quello che fa, persona appassionata e sempre evangelicamente ispirata. Dovrebbe quasi contrarre la ‘malattia del migrante’, non potendo dimenticare che egli stesso è ‘migrante’ e ‘forestiero in cammino’. Da un punto di vista pratico gli necessita uno spiccato senso del lavoro in sinergia, una grande disponibilità di tempo, una forte capacità organizzativa e molta fantasia come lo scriba del regno che sa estrarre dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie.

Si ringrazia per la collaborazione i tre Direttori Diocesani Migrantes che hanno accettato di rispondere alle domande: Ivonne Tonarelli, Direttrice Diocesana di Massa Carrara, don Fredo Olivero di Torino e don Giampietro Zara di Cagliari.