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Migrazioni: "Cieli e terra nuova per la vita religiosa" (Lina Fazzolari)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/05


MIGRAZIONI: “CIELI E TERRA NUOVA PER LA VITA RELIGIOSA”

 

di Lina Fazzolari

 

Servizio Migranti riporta questa testimonianza di Sr. Lina che può essere emblematica e stimolante per gli Istituti di vita consacrata e le singole religiose. Un servizio, senza soluzione di continuità, prima fra gli italiani emigrati in Belgio e poi tra gli immigrati incontrati in Italia. La religiosa nel dedicarsi al mondo dei migranti scopre e fa scoprire al suo Istituto che questo servizio è in piena sintonia con il carisma ereditato dalla Madre Fondatrice.

 

I migranti nel carisma dell’Istituto

Esistono persone che, nel loro camminare storico, uniscono il cuore, la mente e la fede, e dalla loro bocca escono parole rivestite di eternità. Queste diventano programma, progetto, stile di vita, ideale... per molti altri in diversi momenti della storia. Infatti, quando una  persona lascia parlare insieme il cuore, la mente e la fede, le sue parole diventano “parole-fonte”, o quello che il vangelo  chiama “parole di vita eterna”. E’ questo il caso di Madre Maria Giuseppa Micarelli, Fondatrice delle Suore Francescane Missionarie di Gesù Bambino, la quale, per ispirazione divina, capì che la sua vita doveva essere tutta consacrata a Cristo e ai fratelli, specialmente “miseri, orfani e abbandonati”.

Donna forte e dalla fede incrollabile, unita ad una totale confidenza e abbandono alla Provvidenza, Barbara, divenuta Sr. Maria Giuseppa di Gesù Bambino, percorse un cammino di vera carità, ispirata al Mistero di Betlemme, vissuta in umiltà, semplicità e povertà; e tracciò per le sue figlie un programma di vita chiaro e preciso: “La carità è il carattere e la fisionomia di voi figlie di San Francesco... sotto la protezione del titolo e con l’ispirazione ed impulso di Gesù Bambino” (1R 75). “La carità deve essere il movente unico della nostra vita e di ogni nostra azione” (Scritto 5). “Amare e servire Gesù nel prossimo e il prossimo in Gesù”. “Questo Istituto è sorto per il sollievo delle umane miserie; nessuna deve essere eccettuata”.

Quando Madre Maria Giuseppa delineava questo programma di vita, aveva nel cuore “tutte le umane miserie” e coinvolgeva tutte le sue figlie in una missione volta al conforto, al sollievo, a rimuovere le situazioni di disagio personale, familiare e sociale, ma soprattutto alla promozione e alla liberazione della persona umana alla quale voleva ridonare dignità e libertà.

L’ideale della mia Fondatrice è diventato il mio ideale. Oggi la Chiesa parla di “evangelizzazione, promozione umana, liberazione integrale”. La sua ispirazione carismatica trova una conferma e una incarnazione nelle direttive del Magistero. Possiamo parlare di una intuizione profetica, un’intuizione che scaturisce dal cuore di una donna che si fa carico di ogni umana sofferenza e si mette al servizio degli ultimi del suo tempo. 

In Belgio tra gli emigrati italiani

Con questo spirito e con il cuore aperto ai fratelli nel bisogno ho raggiunto la Missione Cattolica di Charleroi, in Belgio. In quella regione vivono ancora circa sessantamila italiani, di cui una parte consistente è costituita dai primi immigrati del lontano 1946. Attualmente la comunità italiana è arrivata alla 4° generazione. Finita la seconda Guerra Mondiale, l’Italia era nella miseria e il Belgio da ricostruire. La Battaglia del carbone fu la nuova sfida e tra Belgio e  Italia fu firmato un trattato che possiamo sintetizzare così: carbone in cambio di manodopera.

Migliaia di nostri connazionali ogni settimana lasciavano la loro famiglia, la loro terra e, dopo una sosta a Milano per le visite mediche raggiungevano le varie località del Belgio, sede dei centri minerari come Liegi, La Louvière, Quaregnon in Vallonia o al nord nelle Fiandre orientali.

Sistemati nelle baracche occupate precedentemente dai prigionieri di guerra, scesero nelle miniere con un contratto di cinque anni. Il flusso migratorio italiano continuò fino alla fine degli anni Cinquanta, inizio Sessanta. Moltissimi della prima  ora sono ritornati. Infatti l’idea di quasi tutti era di restare in Belgio soltanto qualche anno per fare un po’ di soldi e poi tornare in patria e migliorare le proprie condizioni di vita.

Importantissimo fu, con il tempo, il ricongiungimento delle famiglie. Intanto i figli crescevano,   e si inculturavano nella società belga; i bisogni economici rimanevano aperti e il sogno del ritorno svaniva. Fin dall’inizio, per accompagnare la comunità italiana, raggiunsero il Belgio sacerdoti, religiosi e suore e le Missioni Cattoliche Italiane diventarono luogo di accoglienza e di incontro, angoli dove i minatori italiani si sentivano riconosciuti nella loro dignità, dove cessavano di essere “numeri” più che persone, “forza-lavoro” più che esseri umani. Tutto era in funzione dell’uomo e dei suoi diritti: la cittadinanza, la casa, il lavoro, la salute, il cibo, il vestito e la sicurezza. Rispondere a questi diritti era un dovere e, per chi crede, una esigenza evangelica.

Ho svolto il mio servizio nella Missione di Charleroi che comprende tre centri: Marchienne, Gilly e Jumet,  punti di riferimento nella vita sociale, culturale, ricreativa e spirituale per moltissime persone e famiglie. Spesso sono il luogo di approdo di persone in difficoltà economica e morale, luoghi di accoglienza e di incontro.

La specificità della Missione di Charleroi sta nelle piccole comunità di base disseminate sul territorio (una ventina) che raccolgono, ciascuna, in media, una settantina di persone, le quali, a loro volta, diventano punto di riferimento per tutti gli italiani della zona. Ogni comunità ha la sua autonomia, una sua organizzazione e proprie attività di vario genere. Personalmente seguivo otto comunità, di cui ero operatrice pastorale-sociale e accompagnatrice assunta con un contratto di lavoro dalla Promigrantibus Belga, e con il mandato del Vescovo della Diocesi nella quale operavo.

Settimanalmente incontravo il gruppo, alternativamente, per:

- la formazione sociale (temi come la lotta al razzismo, l’integrazione, il diritto di voto);

- la formazione culturale (cineforum, letture in italiano, conoscenze delle altre etnie sul territorio);

- la formazione religiosa (Lectio divina, catechesi, preparazione delle feste liturgiche).

Mensilmente ci si incontrava per una celebrazione liturgica.

Periodicamente il gruppo si incontrava per organizzare feste folkloristiche o incontri di fraternità per determinate ricorrenze.

Tre mattinate alla settimana le dedicavo alla visita delle famiglie, spesso su richiesta, per ascoltare e incoraggiare e per dare concretamente un aiuto a persone, spesso anziane o ammalate, che vivevano nella solitudine.

Regolarmente facevo visita agli ammalati negli ospedali, sempre su segnalazione o di singole persone o delle comunità di base.

Con la comunità locale e altre etnie c’era molta apertura e collaborazione. Nel corso dell’anno partecipavo, insieme con i vari gruppi, ad incontri o attività sia con la parrocchia belga, sia con altre comunità straniere presenti sul territorio. Con le comunità polacca e spagnola ci si incontrava all’inizio dell’Avvento per una celebrazione su tematiche scelte insieme e preparate nei gruppi.

Una volta all’anno partecipavo, sempre con i gruppi interessati alla “festa dei popoli”, con tutte le associazioni o comunità straniere, in particolare le comunità turca e marocchina.

Una volta all’anno partecipavo all’organizzazione e realizzazione della “Sagra del villaggio”: una giornata di festa con tutte le associazioni regionali italiane.

Importante era il tempo dedicato agli incontri personali con persone di varia provenienza, che venivano al Centro per trovare conforto, per chiedere consigli o ricevere aiuti. Il Centro era il luogo di accoglienza e di incontro, un angolo dove potersi rilassare e conoscersi.

Oggi possiamo dire che gli italiani, dopo varie difficoltà, si sono inseriti nel mondo del lavoro ed hanno dato un grosso apporto allo sviluppo del Paese che li ha accolti. Tanti, tra quelli della seconda e terza generazione, rivestono ruoli importanti nel mondo industriale politico ed amministrativo. Questo processo di crescente inserimento nel tessuto sociale-culturale mette i nostri connazionali in condizioni di pari dignità con gli altri cittadini dello Stato. Diverso è, invece, il rapporto con il Paese di partenza. Gli emigrati hanno portato con sé l’eredità semplice dei nostri antichi valori, ispirati sostanzialmente all’insegnamento cristiano. Qui si impone una seria riflessione ed è necessario instaurare un rapporto pastorale di collaborazione tra la chiesa d’origine e la chiesa d’arrivo per facilitare, continuare ed aggiornare l’autentico inserimento e garantire il processo di maturazione nella fede.

Un’esperienza per me arricchente

In sintesi l’esperienza vissuta mi ha portato a sviluppare il senso dell’accoglienza e della solidarietà. Sono grata al Belgio perché ha rafforzato la mia fede e mi ha aiutata a riscoprire la mia vocazione all’accoglienza del diverso. Dal racconto degli italiani della prima emigrazione ho appreso quanto sia stato duro vivere in condizioni di sfruttamento e di emarginazione, un vero e proprio dramma; tutto questo non si cancellerà mai dalla mia mente e dal mio cuore. Come dimenticare le storie di tante donne che hanno vissuto il dramma prima del distacco dai mariti e per ricongiungersi ai quali, hanno dovuto, in seguito, abbandonare il loro paese e, a volte, anche i loro figli, dimostrando dignità, coraggio e una grande forza d’animo? Queste esperienze, questi racconti sono stati per me delle teofanie nella carne, trasfigurazioni e doni che la vita ci offre in momenti a volte particolari, a contatto con persone purificate e trasformate dall’esperienza della sofferenza. è per questo che sono diventata particolarmente sensibile verso i poveri e gli emarginati; sento per loro un amore empatico e voglio lavorare per un progetto di liberazione da ogni forma di schiavitù.

La mia esperienza in Belgio è stata un grande dono. Uno dei tanti aspetti positivi era che ogni giorno si facevano incontri nuovi e imprevedibili. Dopo questo periodo tanto proficuo a livello umano e religioso, sono ritornata in Italia, perché l’Istituto, per la riduzione del numero delle suore, ha chiuso la casa. Il ritorno in Italia non è stato per me indolore... ho toccato con mano la ricchezza e la fatica di dovere continuamente rileggere, ridire e riscoprire il Vangelo nel contesto italiano. Mi guardavo intorno e interrogavo il mio cuore. La frase della mia Madre Fondatrice “Servire Gesù nel prossimo e il prossimo in Gesù e operare per le umane miserie, nessuna eccettuata” mi interpellava fortemente. Dove trovare le umane miserie nella città di Roma? Come leggere, interpretare e realizzare  la profezia indirizzata da Gesù ai discepoli: “I poveri li avrete sempre con voi...”? Oggi esistono tante situazioni di povertà, una di queste, una delle tante “umane miserie”, mi provocava continuamente: il mondo dell’immigrazione.

Il fenomeno migratorio era vissuto da me come una sfida e provocava la mia coscienza, aiutandomi a rileggere il senso del mio essere religiosa. Come farsi carico delle “nuove povertà” legate al crescente flusso di immigrati? Come lavorare tra gli immigrati in Italia? Notavo che vi erano tanti immigrati intorno a me. Alcuni cristiani, spesso spaesati nelle nostre comunità e i nostri stili di vita. Altri non cristiani che, spesso, per la prima volta incontrano un popolo cristiano. Non leggono il Vangelo “scritto”, vorrebbero leggerlo nei nostri cuori e nei nostri comportamenti. Tutto questo mi riguardava come missionaria, perché Dio non ha altre mani che le nostre per umanizzare il mondo, e ci dona il suo Spirito che rinnova la faccia della terra. Sentivo, e sono ancora fortemente convinta, che il fenomeno  delle migrazioni interpella con urgenza la vita religiosa, costituisce per le Congregazioni una frontiera sulla quale si gioca, in buona parte, il proprio futuro per vivere “quei cieli nuovi e terra nuova” che tutti ci attendiamo. è una grande opportunità per la vita consacrata per affermare il senso profetico della sua missione nel mondo e nella Chiesa.

Con questi interrogativi, con questa certezza e tenendo presente il carisma del mio Istituto, mi sono posta in dialogo con la mia Madre Generale, la quale, sensibile al problema della mobilità umana  (tema, fra l’altro,  affrontato, riflettuto e discusso nell’assemblea annuale delle Madri Generali), mi ha confermata e invitata ad entrare nel settore “Migrantes” della Diocesi di Roma.

E ora a Roma tra gli immigrati africani

è così che un giorno mi sono presentata all’A.C.S.E. (Associazione Comboniana Servizio Emigranti e Profughi) e ho espresso il mio desiderio di dare un po’ del mio tempo al servizio degli immigrati, con la motivazione principale di scoprire cosa avrei potuto fare concretamente per loro. Mi sono completamente affidata a questo cammino, decidendo in cuor mio di iniziare un percorso di riscoperta del Vangelo e di viverlo con loro. Tutto quello che vivo oggi mi è stato donato. Sono partita per questa esperienza caricata molto positivamente; la gioia e la curiosità erano davvero grandi, ma avevo anche un po’ di paura... Le aspettative erano molte, ma ho voluto accantonarle dicendo: “Lascio al Signore di decidere quello che vorrà donarmi con questa esperienza”.

La Provvidenza non abbandona mai chi osa sperare anche l’impossibile! Padre Paolo Serra, comboniano, responsabile dell’Associazione, mi ha parlato, mi ha introdotta nello spirito di questa associazione e si è instaurata subito un intesa profonda con tutti. è bello lavorare, perché in questa Associazione si  respira l’aria della condivisione su tutto e ci si  rende subito conto che non è necessario recarci nei paesi del terzo mondo per incontrare chi ha bisogno; i poveri si trovano anche a Roma e, forse, più bisognosi di cure di quelli che rimangono nei loro paesi. Sì, perché  quelli che non partono, non sentono il trauma del distacco dalle loro radici, non hanno necessità di imparare una nuova lingua per farsi capire; mentre quelli che incontriamo quotidianamente al centro hanno bisogno di tutto. Inoltre il fenomeno migratorio viene ancora visto non tanto come una sfida, una provocazione alla coscienza civile e religiosa, individuale e collettiva, quanto come una sorta di calamità, una minaccia alla nostra integrità politica, culturale, sociale ed economica. è in questa situazione che si capisce il compito primario del centro come “laboratorio” di una nuova mentalità e di una nuova cultura in cui si fondono i valori di chi “accoglie” e di quanti vengono “accolti”. Si tratta di rieducare mente, cuore e atteggiamenti per vivere i valori di una nuova società e, forse, di un nuovo stile di vita che si costruisce giorno per giorno.

La struttura operativa dell’A.C.S.E. prevede servizi relativi all’accoglienza (tutto ciò che aiuta l’immigrato ad inserirsi nel contesto italiano) e alla pastorale (tutto ciò che aiuta l’immigrato a tutelare i suoi valori culturali, tra cui quelli religiosi). I servizi di accoglienza hanno una struttura ben definita e si svolgono durante l’arco della settimana, ogni giorno dalle ore 8 alle 21; quelli di carattere pastorale sono più flessibili. A parte il catecumenato, che è settimanale, le altre attività pastorali variano e dipendono dalle prestazioni che ci vengono richieste.

Nel cuore del Vangelo

Da settembre del 2004 lavoro a tempo pieno e il sentimento che sento davvero forte nel mio cuore è quello della gratitudine. Io faccio assolutamente poco in questa esperienza, quello che ricevo è veramente tanto. Il dono più grosso è quello di una comunità accogliente che mi permette di vivere “l’amore di Gesù nel prossimo e del prossimo in Gesù”. L’incontro con chi “non ha apparenza né bellezza”, sfigurato dalla miseria, dal degrado e dall’avvilimento umano, diventa kairos, occasione di grazia, capace di innescare un radicale cambiamento di vita. E quando a crearti questo dinamismo di salvezza è il povero, è il piccolo, allora la gioia è grande, perché ti senti confermato nella sequela ad essere discepolo di Gesù. In un mondo dilaniato, lacerato, dove la diversità diventa conflitto, paura, difesa, questi gesti diventano il segno della speranza e “dei cieli nuovi e terra nuova”.

“Con il coraggio della fede e l’audacia della carità vogliamo riconoscere che l’intenso e multiforme migrare di così tante persone è per le nostre comunità un vero e proprio areopago di evangelizzazione”. Oggi più che mai c’è bisogno di questo contributo e la fedeltà allo Spirito saprà condurre ciascun carisma al proprio frutto. E un messaggio che trasmetto alle consorelle religiose di tutti gli Istituti di vita consacrata.