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Il segno di Giona (Cristina Simonelli)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/05


il segno di giona

 

di Cristina Simonelli

 

Se la nostra “generazione” domanda un segno, probabilmente si sentirà rispondere che “non le sarà dato altro segno che quello di Giona profeta”… Nella Scrittura ebraico-cristiana il tema dei “segni” non è mai un tema scontato, da tranquilla celebrazione festiva. Al contrario, si pone nel cuore di vicende storiche conflittuali e complesse, ponendosi tra il desiderio di trovare un orientamento e l’ipocrisia di negare scomode evidenze. Non a caso la citazione che apre questa riflessione, se letta integralmente, parla di generazione “adultera e perversa”(Mt 12,39) o, in alternativa, “malvagia” (Lc 11,29). Non diversamente, il versetto evangelico che qui ci convoca sul tema dei segni dei tempi, parla di “ipocrisia”: “Quando vedete una nuvola salire da ovest…subito dite… e quando soffia lo scirocco, dite…Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (Lc 12,54-57).

In un primo senso, l’affermazione che gli uomini e le donne che spostandosi danno vita a nuove disposizioni di popoli, rappresentino “segni dei tempi” chiede, mi sembra, di essere collocata in questo orizzonte: far finta di ignorare questa situazione, demonizzarla o cercare di impedirla non potrebbe che meritarci la qualifica di ipocriti o di malvagi. Come pure ci meriteremmo le stesse qualifiche, se fingessimo di ignorare che il piacere di viaggiare e conoscere altre realtà è cosa da turisti e se la possono permettere soltanto in pochissimi nel mondo, mentre le “migrazioni” rispondono in massima parte all’ingiusta distribuzione delle risorse e delle ricchezze. Purtroppo ripeterlo non è scontato: non solo perché la conoscenza di questi dati stenta a diventare consapevolezza quotidiana, ma anche perché assistiamo ad esibizioni di ostilità, volgari e violente, da cui non sono esenti neanche ambienti di ostentato cristianesimo.

Non è tuttavia solo questo l’orizzonte in cui comprendere qualcosa come un “segno”, così come a maggior ragione parlare di “segni dei tempi”. Segno può essere infatti legato all’irrompere di Dio: come nel profetico scrutare la storia, come nelle teofanie, come nell’annuncio della presenza/venuta del Regno. A questa prospettiva fa piuttosto riferimento il tema dei segni dei tempi, legato per noi anche alla prospettiva calda e fiduciosa a cui il Vaticano II ha invitato la Chiesa.

Il segno di Giona

In effetti il segno di Giona è legato nella versione lucana all’irrompere del Regno, alla manifestazione della presenza di Dio, potente in misericordia, a cui meglio si dispone chi ne coglie l’inaudita gratuità: la regina del Sud rispetto a Salomone, gli abitanti di Ninive di fronte alla predicazione dello stesso Giona. Un profeta, anti-eroe per eccellenza, travolto dal proprio stesso annuncio: missionario di giustizia senza misericordia, si sente restituita dalla storia la portata di quanto lui stesso andava annunciando. Allora, il grande segno è l’accorrere degli abitanti di Ninive: ma Giona è un po’ tutti noi, disposti a fuggire a Tarsis, convertiti dal Vangelo ad un annuncio di universalità, che non riusciamo a capire fino in fondo e che ci viene “restituito”, fatto storia, dalle “genti”. Perché Giona, profeta perplesso ed un po’ depresso, quando si risente con Dio e gli dice: “Lo sapevo, ti saresti pentito…”, aggiunge: “perché tu sei Dio…” e cita la proclamazione del Nome di Dio in Es 34,6 “Il Signore, il Signore, Dio uterino (Rahum) e misericordioso, con le larghe narici (Erek appaim), ricco di tenerezza e stabile fedeltà”1… E come se dicesse, solo ora so che tu sei il Dio dell’Esodo… Nel “segno di Giona” anche noi possiamo accogliere la storia, l’irrompere del Regno manifestato nelle genti che siedono a mensa e attraverso questo capire un po’ più in profondità quello che, senza coglierne appieno la portata, già stavamo annunciando. E nel “segno di Giona” possiamo anche essere noi stessi, senza dover fingere che tutto questo non ci costi, senza dover nascondere la nostra fatica e perplessità, bisognosi di conversione e consolazione alla magra ombra di un ricino. Non abbiamo infatti probabilmente bisogno di ostentati entusiasmi, di statistiche che cerchino consolazione in numeri, magari un po’ gonfiati, ma di poter accogliere, noi stessi per primi, l’annuncio di cui siamo portatori.

La cattiva tristezza ed il dono delle lacrime

Questa prospettiva può forse sembrare un po’ dimessa, un po’ triste. Mi sembra che ci potrebbe venire incontro, però, una distinzione, molto frequente negli scritti antichi, monastici in particolare, ma non solo: si tratta della distinzione dei diversi tipi di “tristezze”: una cosa è la “cattiva tristezza”, altra cosa è il “dono delle lacrime”. La prima corrisponde a quanto è più noto come “accidia”, il “demone di mezzogiorno”, lo sguardo svogliato e sfiduciato, che vede la storia, propria e altrui e si lamenta, brontola, potremmo dire “male-dice”. Al contrario il dono delle lacrime, è un carisma dello Spirito, è il dono del cuore di pietra trasformato in cuore di carne, è la beatitudine dei cuori fatti puri a cui è promessa la visione. Giona sotto l’alberello è tentato di cattiva tristezza, di lasciare quanto sta facendo, di vedere di mal’occhio la storia che Dio conduce. Ma il segno di Giona ci invita a lasciar trasformare la perplessità in domanda, a lasciar affiorare la difficoltà dell’incontro per accettare che sia trasfigurata e diventi carisma, per sé e per gli altri.

Dio era in questo luogo ed io non lo sapevo

L’alberello di Giona può diventare perciò il luogo della teofania: come Giacobbe, ognuno può tornare al proprio quotidiano e dire, in un sogno vero, “Dio era in questo luogo ed io non sapevo!” (Gen 28,16). Metropolitana, piazze, stazioni sono luogo di teofania, sono alberi di ricino, sono segni di Giona: segni dei tempi, gli uomini e le donne che spostandosi danno nuova configurazione alla nostra comune storia. Riconosciuti come “segni” senza esaltazione, senza nascondere il nostro peccato di ingiusta abbondanza e di ottusa indifferenza, senza nascondere però neanche la difficoltà reale di un incontro nella pace. Allontanando però la tentazione della “cattiva tristezza”, della paura ripiegata, della male-dizione, del mal’occhio; pregando ed operando per ricevere il dono della bene-dizione, dello sguardo trasparente, che è speranza che non delude, per l’agape riversata dallo Spirito nei cuori (Rom 5,5).

Viene l’alba

Certo a nessuno sfugge che nella versione di Matteo il segno di Giona è esplicitamente collegato alla Resurrezione: “come Giona rimase tre giorni e tre notti nel cuore della terra, così il Figlio dell’uomo…. Le due spiegazioni non si contrappongono, si completano: niente appare dono gratuito quanto la vita che Dio dona, anche nella morte - nuova creazione, cielo e terra nuova, dono di Dio da accogliere. Scrutare l’orizzonte, trafiggere di sguardi il fico finché ne spuntano i germogli, amare il fiore del mandorlo che vigila e annuncia la primavera, non sono atteggiamenti rinunciatari: sono l’attività non invadente di chi opera, senza pensare di potersi sostituire a Dio, finché sorga la stella del mattino.

Ma quando è l’alba? Un racconto talmudico riporta una discussione tra il rabbì ed i discepoli a questo proposito, discussione non oziosa perché le prime luci dell’alba sono il momento in cui deve essere recitato l’Ascolta, Israele. Un discepolo propone: “è l’alba quando riesco a scorgere la sagoma del monte”. Un altro propone: “forse è l’alba quando distinguo le foglie del bosco” “meglio, è l’alba quando vedo correre la lepre”. Ma il rabbì corregge: “No, figli miei, è l’alba quando riconosco il volto di un uomo”! In attesa dell’alba, stiamo certi della promessa: “Geremia cosa vedi? Vedo un ramo di mandorlo. Vedi bene, perché io vigilo come un mandorlo sulla mia parola, per compierla” (Ger 1,11-12).