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Le monografie di "Romanes" (L. Monasta)
Dalla collana di studi Zingari diretta da Leonardo Plasere

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 4/05


LE MONOGRAFIE DI “ROMANES”

 

dalla collana di studi zingari diretta da leonardo piasere

 

di Lorenzo Monasta

 

Romanes

Nell’ultimo numero abbiamo presentato “Romanes”, la Collana di Studi Zingari della CISU (Centro d’Informazione e Stampa Universitaria di Roma), diretta dal Prof. Leonardo Piasere, e ci siamo concentrati sulle quattro antologie di Italia Romanì. Le monografie che fanno parte di “Romanes”, e di cui tratteremo ora, nella molteplicità dei temi trattati, nella diversità degli stili e nella sensibilità che li accomuna, rappresentano la filosofia della collana quanto le antologie, consentendo però al lettore di immergersi più a fondo nei temi di volta in volta trattati.

Noi, non ne parliamo

La prima monografia della collana, pubblicata nel 1997, è “‘Noi, non ne parliamo’. I vivi e i morti tra i Manuš”, di Patrick Williams, etnomusicologo francese, direttore del Laboratoire D’Anthropologie Urbaine del CNRS di Parigi. I Manuš di cui parla Williams sono cugini dei Sinti tedeschi, giunti in Francia nella seconda metà del XIX secolo.

In questo testo, l’autore analizza la purezza della memoria che nasce da un processo di interiorizzazione. Il non parlare di chi muore, il bruciare tutte le sue proprietà, lo smettere di cantare le canzoni che piacevano a chi è morto, l’evitare i suoi piatti preferiti, tutto fa parte di un esercizio che stimola continuamente la memoria personale e tuttavia costringe ad interiorizzarla. La proibizione di esternare il pensiero intimo della persona cara consente in realtà di rendere il ricordo un fatto intimo, puro, da non mescolare con i trambusti della vita quotidiana.

Nel capitolo introduttivo troviamo due concetti fondamentali su cui si basa la collana “Romanes”. In primo luogo, l’autore spiega che è arrivato a studiare la morte tra i Manuš seguendo il dibattito tra Leonardo Piasere e Judith Okely sulla relazione tra i vivi e i morti, rispettivamente, presso gli Slovensko Roma e i Traveller Gypsies. Afferma Williams: “Abbiamo tutti e tre criticato quel modo di procedere che consiste nel generalizzare a tutti gli Zingari osservazioni fatte presso certi Zingari e affermato la necessità, per ogni nuovo gruppo che si affronta, di riprendere tutto da zero. Ma Okley e Piasere evocano uomini e donne che si scontrano nel mondo con gli stessi interrogativi dei Manuš, e le loro analisi danno dei Gypsies del sud est dell’Inghilterra e degli Slovensko Roma del nord dell’Italia un ritratto unitario”.

In secondo luogo Williams chiarisce che non si possono trattare certi temi in modo superficiale. “Non è neanche possibile sperare di sfiorare la superficie delle cose (…). Il fondo delle cose o assolutamente nulla: ecco cosa esigono dall’etnologo i caratteri dell’affermazione manuš”. O si è fuori o si è dentro. E una volta dentro, per poter raccontare a chi sta fuori, bisogna ricercare la pertinenza assoluta tra le cose.

Vegna che ta fago scriver

La seconda monografia, pubblicata nel 1998, è “’Vegna che ta fago scriver’. Etnografia della scolarizzazione in una comunità di Sinti”. Si tratta del primo studio di etnografia scolastica svolto nel nostro Paese, e analizza il rapporto tra i Sinti emiliani e la scuola. L’autrice, la pedagogista ed etnografa brasiliana Ana Maria Gomes, scioglie le apparenti contraddizioni che pongono il peso del successo scolastico della minoranza Sinta sulle spalle dei bambini e delle famiglie Sinte, e quasi per nulla su quelle della scuola italiana.

E la scuola a dover andare dai bambini Sinti, e non viceversa. Ciò non significa ghettizzazione dei Sinti nella scuola, tutt’altro. Significa che una minoranza ha il diritto di cominciare alla pari il percorso di acquisizione degli strumenti necessari a muoversi in modo disinvolto nella società maggioritaria. Ogni bambino che cominciasse un percorso di apprendimento formale impostato su una cultura diversa dalla sua, partirebbe con un ritardo. Questo ritardo è spesso aggravato dal pregiudizio nei confronti del bambino “zingaro o nomade”, a priori identificato come portatore di “handicap” cognitivi. L’handicap tuttavia va cercato nella scuola incapace di insegnare a tutti, e capace invece di giudicare i bambini secondo il loro bagaglio familiare.

Se la scuola intende realmente fare passi avanti nell’intercultura, dovrà procedere con metodo, pianificando, ascoltando ogni soggetto coinvolto, a partire dai bambini e dalle famiglie. Solo in questo modo è possibile creare una scuola che non sia percepita come un pericolo per la propria identità, o un luogo dove sentirsi inferiori.

La lingua degli Shinte rosengre

“La lingua degli Shinte rosengre”, a cura di Michele Barontini e Leonardo Piasere, pubblicato nel 2001, presenta scritti di Sigismondo Caccini. Gli Shinte rosengre erano Sinti che hanno vissuto a cavallo tra il XIX e il XX Secolo tra la Toscana e l’Umbria. Gli scritti del Caccini, mai pubblicati ad eccezione di uno, furono redatti tra il 1894 e il 1911 e sono il risultato di lunghi anni di vita vissuta insieme agli Shinte e di uno studio accurato della loro lingua. La grammatica, il vocabolario, l’etimologia, un frasario e racconti in ròmmanes rappresentano materiale prezioso, dimenticato e riportato alla luce in questo volume.

Come sottolineato da Piasere, nonostante i molti anni passati dal Caccini presso gli Shinte, i suoi testi non parlano quasi mai direttamente degli Shinte, lasciando che siano il vocabolario e i racconti a farne trasparire la cultura. Il non raccontare direttamente gli Shinte sembra essere un atto di fedeltà di un uomo che, come direbbe Williams, si è trovato ad essere “dentro”.

Poesie e racconti

Nel 2002 si apre un altro filone nella Collana di Studi Zingari, con la pubblicazione del libro “Poesie e racconti” di Demir Mustafa, Rom macedone che per molti anni ha vissuto al campo del Poderaccio di Firenze. Le poesie sono piccole finestre sulla vita di persone comuni, fra gioie, tradizione, paura e sguardi diffidenti. In quasi tutte traspare la precarietà della vita al campo e l’impotenza e la frustrazione di ignorare cosa porterà il futuro. La bellezza dei racconti è invece nello stile tipico della narrazione orale, fiabe con salti di tempo e di ritmo che restituiscono scene che prendono realmente forma quando lette ad alta voce.

Altre tracce sul sentiero per Auschwitz

“Altre tracce sul sentiero per Auschwitz - Il genocidio dei Rom sotto il Terzo Reich”, di Luca Bravi, pubblicato nel 2002, affronta il tema storico della persecuzione nazista degli zingari. Si tratta di un tema purtroppo poco affrontato e ancora meno radicato nella memoria dello sterminio. Il libro di Bravi va alla ricerca della logica che generò Auschwitz, trovando i legami che mostrano come la Shoah e il Porrajmos siano i prodotti di quella stessa logica.

La memoria utile a costruire il futuro non può essere parziale, perché non c’è memoria utile senza una completa comprensione dei meccanismi che portano l’uomo a massacrare l’uomo. Nel libro sono riportate le seguenti parole dell’ebrea polacca Miriam Novitich: “Trascurare gli zingari, tacere il loro massacro, costituirebbe una seconda ingiustizia nei loro confronti. Chi vi parla è una donna ebrea che vive per custodire la memoria del suo popolo martirizzato, ma anche per commemorare gli zingari. (…) La memoria del popolo zingaro massacrato deve trovare un posto fra tutti i popoli del mondo”.

Bambini del “campo nomadi”

Nel 2003 esce “Bambini del ‘campo nomadi’- Romà bosniaci a Torino” dell’antropologa torinese Carlotta Saletti Salza. Sarebbe un libro sull’educazione infantile, famigliare e scolastica, e lo è in modo completo. Diciamo “sarebbe” perché Saletti Salza ci parla di un intero mondo di relazioni legato ai Romá bosniaci del campo dell’Arrivore di Torino. Per poter comprendere realmente i “bambini del campo nomadi”, Carlotta ci descrive l’arrivo dei Romá a Torino, la realtà del campo, le relazioni all’interno della comunità, quelle con la Bosnia, le relazioni famigliari, il ruolo dei bambini nella comunità e il rapporto con la scuola dei gagè. Nella lettura ci si accorge che ogni elemento è in realtà fondamentale per comprendere i bambini. Questo libro diventa un altro tassello fondamentale per l’intercultura nella scuola. Ci si chiede però quanti maestri sentano la necessità di affrontare in modo così serio ed approfondito questo tema, ed evitare frustrazioni, scollamenti e disagi a bambini che cercano di mantenersi in equilibrio tra mondi che spesso evitano accuratamente di ascoltarsi.

Un secolo di scuola

Sempre dedicato alla scuola, ma in un contesto completamente diverso, “Un secolo di scuola - I rom di Melfi”, pubblicato nel 2004, è il libro dell’antropologa Stefania Pontrandolfo sul rapporto tra i Rom e la scuola a Melfi, in Basilicata. La comunità Rom di Melfi è di antico insediamento e il primo bambino Rom che ottiene la licenza elementare è nel 1910. Attraverso la ricostruzione archivistica del rapporto tra la comunità rom e la scuola, comprendiamo le strategie attuate dai Rom nel contesto di relazione con la cultura maggioritaria, la società contadina e la scuola. Comprendiamo come i Rom di Melfi si siano rapportati con la scuola, in un secolo di grandi cambiamenti per la scuola italiana, che hanno portato intere categorie prima escluse ad affacciarsi all’alfabetizzazione e in cui la scolarizzazione è diventata poco a poco un reale fatto di massa.

Le difficoltà iniziali dell’autrice di riuscire a districarsi in un rapporto intimo e consolidato tra i Rom melfitani e gli altri melfitani, diventano una delle importanti chiavi di lettura nel testo. La barriera di invisibilità creata dagli stessi non Rom è come la difesa di un membro della famiglia, come si percepisce nella sconclusionata ma comprensibile reazione di un maestro alle domande della Pontrandolfo: “Non tutti i Rom sono zingari! Signorina la devo contraddire! Zingaro è nomade. I nostri saranno pure Rom, come dice lei, ma certamente non sono zingari!”.