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Pastorale d'insieme tra gli immigrati: l'esperienza in atto nella diocesi di Roma (P. Felicolo)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 4/05


pastorale d’insieme tra gli immigrati:

l’esperienza in atto nella diocesi di roma

 

di Pierpaolo Felicolo

 

Il nucleo centrale della Lettera dei Vescovi

La pastorale d’insieme costituisce il nucleo centrale della Lettera alle comunità cristiane Tutte le genti verranno a Te, anche se il discorso viene affrontato espressamente solo nella seconda parte. La stessa prima parte, dedicata a “L’orizzonte missionario delle migrazioni” è tutta propedeutica alla seconda; se infatti le migrazioni, oggi in rapido aumento in Italia, non sono oggetto soltanto del servizio caritativo e promozionale della Chiesa ma pure della sua azione missionaria, tutte le forze vive nella Chiesa devono concorrere in unità di intenti e di programmi perché queste migrazioni costituiscano effettivamente un nuovo areopago di evangelizzazione.

Su questo tema della pastorale d’insieme in immigrazione vorrei dare un modesto apporto non tanto sul piano della riflessione teorica, quanto su quello dell’esperienza personale, che vado maturando in questi anni, da quando in nome del Vicariato mi occupo di immigrazione in diocesi di Roma. Credo che quanto avviene a Roma possa essere emblematico e stimolante anche per altre diocesi d’Italia. Roma infatti, capitale d’Italia, può essere considerata anche capitale dell’immigrazione nel senso che da sempre tiene il primato di presenza immigrata. Per diversi anni anche la Regione Lazio deteneva questo primato, che ora è passato alla Lombardia; Roma invece, città e provincia, continua a mantenere questo primato con 322.824 presenze la provincia e 300.000 (meno qualche centinaio) la città, pari a qualcosa di più del 10% della popolazione presente. Fra gli stranieri poi il numero di cattolici sorpassa abbondantemente le 100.000 unità, anzi le 150.000 se si tiene conto degli irregolari. Si tenga presente che a Roma è straordinario il numero di chiese, di istituti religiosi e missionari, di stranieri titolari di un permesso di soggiorno per motivi religiosi e, pertanto, possibili operatori pastorali in questa parte della vigna del Signore costituita da gente di altra lingua, etnia e cultura. Dentro a questo quadro la pastorale d’insieme può trovare e, spero di non illudermi, sta trovando progressiva realizzazione a diversi livelli.

I cinque livelli di una pastorale unitaria

Il primo livello è ovviamente quello diocesano, perché i singoli cattolici e le rispettive comunità pastorali etniche dicono necessario riferimento alla Chiesa locale. Se infatti va affermato che “nella Chiesa nessuno è straniero”, per la stessa logica nessuno straniero deve sentirsi e vivere estraneo all’unica Chiesa che, per quanto sia cattolica e universale, prende ovunque forma di Chiesa locale o particolare; anche a Roma, diocesi del Papa. è facile affermarlo in teoria, anche con profonda convinzione, non altrettanto è facile attuarlo nella concretezza della vita quotidiana.

La Chiesa di Roma in questi ultimi anni ha fatto grandi passi perché i cattolici provenienti da lontano si sentano a proprio agio, come a casa propria nella Città eterna; non è stato poco provvedere all’apertura di tanti centri pastorali per tante etnie diverse, centri che hanno raggiunto quota 150; non lo si dice per vantare chissà quali benemerenze; infatti, incoraggiati da quanto già si è fatto, si guarda avanti al tanto che rimane ancora da fare, ai centri pastorali che attendono di essere meglio attrezzati di personale e di strutture, ad altri centri che si dovranno erigere e soprattutto alle piccole e grandi cose che possono promuovere il reciproco contatto tra queste comunità etniche e le parrocchie romane, così da sentirsi parte e da agire come parte di una medesima Chiesa. Ma anche gli operatori pastorali delle comunità straniere devono continuamente interrogarsi su quali passi stanno facendo o possono ulteriormente fare per sentirsi sempre più parte di un’unica realtà ecclesiale. E’ comprensibile una certa tendenza a chiudersi e isolarsi in una specie di autosufficienza che può essere confusa con la legittima esigenza di conservare la propria identità; una tendenza che va attentamente controllata per non lasciare spazio a mentalità, sentimenti e prassi che portano lontano da quella comunione, cattolicità e ricerca di unità che si manifesta sia nelle grandi che nelle piccole cose. Sotto questo aspetto non ci si potrebbe rassegnare che il cappellano etnico non partecipi agli incontri del clero diocesano, che non si impegni a conoscere lingua e cultura italiana in modo soddisfacente, che non ci curi di conoscere e tenere rapporto col parroco del luogo, che trascuri di celebrare quelle feste che non sono di precetto nel suo Paese di origine mentre lo sono qui in Italia. La pastorale d’insieme aiuta ad evitare questi inconvenienti e dà al lavoro del cappellano questo ampio respiro, che egli poi trasmette a tutta la sua comunità.

La pastorale d’insieme va poi perseguita fra gli oltre 150 centri pastorali delle più svariate etnie che rappresentano in qualche modo l’intero pianeta; questi, pur essendo tanto diversi tra loro, condividono comuni interessi e sono in grado di dare un comune apporto di visibilità e di costruttiva presenza cristiana nella città. C’è tutto da guadagnare se i cappellani delle diverse comunità etniche periodicamente si incontrano per meglio conoscersi, mettere sul tavolo le comuni problematiche e concordare qualche iniziativa comune. Si pensi, ad esempio, a incontri già effettuati o in programma sulla pastorale della famiglia immigrata, degli studenti universitari, della seconda generazione, del mondo del lavoro, del cammino di catecumenato: sono temi che interessano tutti indistintamente i cattolici, a prescindere dal Paese di origine. Altro esempio di diversa natura, ma non estraneo alle attenzioni della pastorale: l’elezione dei 4 consiglieri aggiunti nel Consiglio comunale; sarebbero malsane le manovre perché questi siano di una determinata appartenenza religiosa, ma altrettanto malsano il disinteresse e la mancanza di accordo perché non manchi un rappresentante della nostra area.

Tale esigenza di comunione e di azione concorde diventa più evidente e pressante tra i vari gruppi o centri pastorali in cui si articola la medesima comunità etnica: pensiamo ai 48 centri per i cattolici filippini o alla ventina di centri latinoamericani sparsi per tutta la città, istituiti per rendere più agevole per loro e più efficace il servizio pastorale: una vera ricchezza e provvidenza, solo però nella misura in cui, rifiutando di sentirsi autonomi e di cedere a forze centrifughe, sanno di far parte di una cappellania centrale che nei confronti dei filippini o dei latinoamericani ha le stesse funzioni e competenze di una parrocchia territoriale verso i propri fedeli.

Pastorale d’insieme finalmente fra i vari organismi e gruppi ecclesiali, italiani, stranieri o misti, che operano in ambito migratorio; e a Roma sono tantissimi: viene spontaneo citare, in primo luogo, oltre alla Migrantes diocesana, la Caritas con le sue  strutture centrali e periferiche in tutta la città, i tanti istituti religiosi e missionari, maschili e femminili, gli innumerevoli centri di ascolto, di consulenza anche legale o medica, di alfabetizzazione e formazione professionale, di accoglienza anche per la notte, di tutela per i minori, per le straniere soggette alla tratta, per i richiedenti asilo. Alcuni di questi organismi e associazioni sono ben noti anche a raggio nazionale e ci dispensiamo dal nominarli anche per il rischio di essere incompleti. A un livello più strettamente culturale e pastorale, che va oltre la prima accoglienza, è attiva una fitta rete di altre associazioni e movimenti di ispirazione cristiana, che puntano sulla promozione della pace, sulla pacifica e costruttiva convivenza fra italiani e stranieri, sul dialogo interreligioso, sull’ecumenismo e sulle varie forme di evangelizzazione che la presenza di tanti immigrati non cattolici o non cristiani rende oggi di grande attualità in tante nostre parrocchie.

Trovo perciò del tutto rispondente alla particolare situazione della diocesi di Roma  quanto dice al n. 5 la citata Lettera alle comunità cristiane: “I campi di azione della pastorale d’insieme nel settore delle migrazioni sono quelli della vita quotidiana delle nostre comunità: annuncio, catecumenato, catechesi, liturgia, carità, pastorale familiare, giovanile, scolastica, vocazionale, missionaria, ecumenica, del lavoro, del tempo libero, della salute, della comunicazione e della cultura”. Tale convergenza però non viene sempre spontanea, non scatta automaticamente, anzi l’esperienza insegna che spesso si è così concentrati e assorbiti dal proprio settore che manca tempo, interesse e fantasia per guardarsi attorno e rendersi conto che il proprio lavoro, come leggiamo ancora nel medesimo numero, “comporta inevitabili e provvidenziali punti di contatto con altri servizi, offrendo opportunità per programmi articolati e integrati”. è una prospettiva esaltante, ma richiede impegno, apertura all’altro, lucida consapevolezza dei propri limiti, tutte componenti di quella “conversione pastorale” che negli ultimi documenti della Chiesa italiana viene espressamente richiamata. Occorre poi che qualcuno si muova per primo e stimoli gli altri a muoversi: la Migrantes diocesana non ha la pretesa di porsi a capofila però è pienamente disposta a fare la sua parte ed aiutare gli altri a fare altrettanto.

Pastorale d’insieme e Festa dei popoli

C’è una recente felice esperienza che incoraggia a proseguire su questa linea: la “Festa dei Popoli” che quest’anno ha preso particolare rilievo perché celebrata nella cattedrale di Roma, S. Giovanni in Laterano e nella piazza antistante. Forse poche volte la Basilica ha potuto evidenziare  in modo così toccante e persuasivo d’essere “mater et caput omnium ecclesiarum”, come il 29 maggio scorso quando si è riempita all’inverosimile per una celebrazione attivamente e festosamente partecipata da una trentina di diverse nazionalità. La felice riuscita della festa è dovuta all’azione convergente del Vicariato di Roma, della Migrantes, dei Missionari scalabriniani, della Caritas, dei Centri pastorali etnici e di qualche centinaio di volontari che hanno sperimentato la bellezza di convergere, nella preparazione e nella gestione della festa, in un lavoro unitario e concorde. Alla fine della giornata un gruppetto di volontari che aiutava a smantellare le strutture della festa canticchiava allegramente: “O come è bello e giocondo lavorare insieme come Fratelli”.

Una festa si apre e si chiude, talora senza lasciare alcuna traccia di sé; non così la Festa dei Popoli. Anzi dopo la festa si legge con maggiore gusto e convinzione, quasi racchiudesse un programma stabile di azione e uno stile di vita, il desiderio espresso dai vescovi nella loro Lettera: “Come Vescovi, desideriamo incoraggiare singoli fedeli e aggregazioni ecclesiali a mettersi a servizio di una effettiva pastorale d’insieme, avviandola là dove non è ancora in atto, consolidandola se già operante” (n. 4). Grazie a Dio, qui a Roma ci sembra di essere sulla buona strada e non ci disarma il pensiero che c’è ancora un lungo tratto da percorrere.