convegno di bellaria
tre punti fondamentali di impegno
di Luigi Petris
Altri prima di me hanno rivolto i saluti, con gli auguri di buon lavoro, a tutti voi che partecipate a questo convegno. Saluti e auguri che faccio miei, dispensandomi dal ripeterli, anche se sento forte dentro di me la spinta, direi quasi l’istinto di rivolgermi a ognuno di voi, tanto più che molte delle vostre facce mi sono ben note e mi richiamano momenti e magari lunghi anni di amicizia e di lavoro comune. Un particolare saluto rivolgo ai Vescovi presenti. La vostra presenza è segno della stima che avete per il nostro lavoro tra e con i migranti. Di questo vi siamo sentitamente grati.
Ho partecipato a molti convegni sulle migrazioni. Fra i tanti questo che stiamo celebrando ha un valore e una fisionomia sua del tutto particolare e sono convinto che è valsa la pena rinunciare quest’anno ai consueti incontri nazionali per lasciare spazio a questo incontro europeo. I motivi sono più di uno.
Un convegno speciale
Vorrei enunciare come primo motivo l’omaggio al Santo Padre Giovanni Paolo II appena defunto. Egli ha tanto fatto e tanto ha detto in favore dei migranti e di chi fa servizio apostolico fra di loro. Basti ricordare il Giubileo dei migranti nel giugno del 2000, il pensiero – in occasione dei suoi tanti viaggi apostolici – alla gente che è costretta ad essere lontana dal suo Paese di origine ed in particolare i messaggi per la Giornata Mondiale delle Migrazioni. Quello del 2005, il ventesimo, sembra dare una certa completezza al pensiero del Papa sulle migrazioni e costituirne un compendio aggiornato, per cui la Migrantes ha provveduto a farne, in terza edizione, la pubblicazione integrale che avete in cartella, senza pensare che il ventesimo messaggio fosse l’ultimo della serie.
Altro motivo è quello di farci sentire, anche attraverso questo convegno, voce della Chiesa italiana. Il grande mondo delle migrazioni nella nostra società civile ed anche ecclesiale rischia di essere dimenticato, se non addirittura rimosso, considerato una “minoranza” su cui sovrasta una “società maggioritaria”, di fronte alla quale le minoranze contano ben poco, anzi vengono spesso considerate elementi di disturbo e di peso, talora perfino di pericolo e di inquinamento. Siamo qui per ripetere ancora una volta, con le parole chiare e forti del compianto Giovanni Paolo II, che le migrazioni sono una “urgente sfida alla comunità cristiana, che fa dell’attenzione verso i migranti e i rifugiati una delle sue priorità pastorali” (Messaggio per la GMM del 1998).
Ma il motivo specifico che ci fa trovare assieme in questi giorni è quello di ascoltarci tra noi, riflettere assieme, mettere a confronto le nostre esperienze, comprese le nostre difficoltà, la nostra storia, i nostri diversissimi eppure tanto simili campi di lavoro, per meglio definire il cammino e le prospettive per il futuro. Un convegno, appunto, a raggio europeo “tra memoria e futuro”, che mette insieme l’esperienza di chi da decenni lavora all’estero con gli italiani e di chi adesso è alle prese con gli immigrati che bussano alle porte delle nostre comunità.
(...) Ciò premesso, spendo alcune parole su alcuni punti che ritengo di primaria importanza e urgenza, anche in base alla mia esperienza personale, cominciata con i miei primi anni di sacerdozio, come missionario tra gli emigrati in Germania e quindi a Roma all’interno della Migrantes con possibilità di farmi presente su tutti i fronti della mobilità umana.
Necessità di una pastorale specifica
1. In primo luogo mi sta a cuore riaffermare nei confronti dei migranti cattolici la necessità di una pastorale specifica nel contesto di una pastorale di comunione con la Chiesa locale in cui si opera e di cui si fa parte. Questa pastorale può comportare varie modalità di attuazione, tenendo sempre presente che la Missione con cura d’anime o Cappellania canonicamente istituite già appartengono alla Chiesa locale a pieno titolo, alla pari della parrocchia territoriale. Qui il discorso si fa delicato, ma di fondamentale importanza: tutti accettano, nessuno è contrario alla pastorale specifica; ma quando si tratta di metterla in atto, far sì che questa pastorale non resti lettera vuota ma diventi vita concreta per la nostra gente nella comunità, allora si scoprono le tombe e si vede chi crede e chi parla tanto per riempirsi la bocca, chi crede nell’uomo che ha di fronte, che ha bisogno di una parola specifica, che vuole esprimersi come Dio lo ha fatto, nella sua cultura e nella sua lingua, nella sua tradizione, oppure se vogliamo imporre la nostra cultura che riteniamo superiore.
Integrazione, inserimento ed altri simili termini hanno un loro legittimo valore, ma possono essere anche usati in senso ambiguo o addirittura distorto, quando ad esempio la pastorale etnica e relative strutture pastorali venissero considerate come benevola concessione altrui e non come autentico diritto dei cattolici stranieri o quando una Curia vescovile procedesse di sua sola iniziativa e senza previa consultazione e senza previo sforzo d’intesa a cambiarne sostanzialmente la fisionomia di queste comunità etniche o a dichiararne giunta la fine. Si è più che d’accordo che l’integrazione nella società ecclesiale, come in quella civile, è buona cosa, ma deve essere progressiva e spontanea, può essere favorita e sollecitata, non però imposta. Nei confronti delle comunità etniche, che sono minoranza, spesso si denuncia il rischio della ghettizzazione e ci possono essere obiettive ragioni per farlo. Ma anche nella parrocchia territoriale può essere in agguato lo stesso rischio, quando di fatto si ritenesse l’unica espressione di Chiesa sul territorio: parrocchie che sono vere roccaforti, che non lasciano penetrare le persone se non quasi snaturandole. Il Vangelo dice di togliere prima la trave dal proprio occhio e poi la pagliuzza delle piccole e deboli comunità straniere.
Non si tratta di giungere a un compromesso ma ad una armonizzazione fra le due esigenze, quella legata alla salvaguardia della dignità specifica di queste minoranze di migranti e quella esigita dalla comunione che comporta stretta comunicazione, cordialità di rapporti e schietta collaborazione fra queste due realtà ecclesiali. Punto fermo di riferimento è il primo messaggio del Santo Padre in occasione della Giornata delle Migrazioni, quello del 1986 dedicato al “Diritto dei fedeli migranti alla libera integrazione ecclesiale”, completato, se si vuole, da diversi altri messaggi, e specialmente da quello già ricordato del 2005, su “L’integrazione interculturale”.
Su questo importante aspetto pastorale mi permetto di ricordare un mio testo pubblicato su SM 2/2004 nel quale – tra l’altro – commentando una lettera del Vescovo di Brooklyn, Mons. N. DiMarzio, sostengo che non spetta ad alcuno fissare date e tempi di scadenza per l’integrazione di una persona o di un gruppo etnico. E diritto fondamentale del singolo o del gruppo decidere con libertà il momento della sua integrazione. Impegno dell’operatore pastorale è di far compiere una autentica esperienza cristiana al migrante ed alla comunità che lo accoglie. Questa è innanzitutto una esigenza di fraternità vera e di profonda comunione. Quando uno straniero e un intero gruppo etnico si sentirà accolto, stimato, valorizzato, allora l’integrazione sarà una logica conseguenza, si realizzerà spontaneamente.
Ma non dimentichiamo il monito del Santo Padre: “Nell’ambito dell’immigrazione, ogni tentativo inteso ad accelerare o ritardare l’integrazione o comunque l’inserimento... non può che soffocare o pregiudicare quella auspicabile pluralità di voci, la quale scaturisce dal diritto alla libertà di integrazione che i fedeli migranti hanno in ogni Chiesa particolare…” (Giovanni Paolo II, Messaggio GMM 1986). Queste sono affermazioni non mie, ma del Papa!
Impegno missionario
2. Mi preme sottolineare una seconda nota caratterizzante la pastorale migratoria: la sua natura autenticamente missionaria. Fanno testo su questo punto i classici documenti della S. Sede, a partire dalle chiare e incisive parole del compianto Giovanni Paolo II nella “Redemptoris missio” (cf. n. 37 e 82) fino alla recente Istruzione “Erga migrantes caritas Christi”. La Chiesa italiana nei suoi ultimi interventi non è meno esplicita, come in “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” (2001), dove si dice che con le migrazioni “i cristiani sono chiamati ad affrontare un capitolo sostanzialmente inedito e fondamentale del compito missionario” (n. 58). Inoltre, in riferimento all’ultima nota pastorale della CEI: “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia”, la Migrantes ha fatto ogni sforzo per mettere in evidenza che è soprattutto il fatto migratorio a dare provvidenziale opportunità perché le nostre diocesi e parrocchie mostrino veramente questo volto missionario e passino da una pastorale di conservazione ad una pastorale di evangelizzazione.
Purtroppo, per quanto riguarda la pastorale migratoria che impegna tra gli italiani all’estero, sembra essere venuta meno nelle nostre Chiese questa sua caratteristica di missionarietà. Una decina di anni fa in un Convegno tenuto a Roma sul tema “La missionarietà del clero diocesano” la Migrantes non era stata invitata. Invitati erano soltanto i sacerdoti “Fidei donum”: loro sì erano missionari, noi no!? A programma definito Mons. Alfredo M. Garsia, Presidente della CEMI–Migrantes, è riuscito ad inserirsi con una S. Messa e con un saluto. Questo diffuso modo di sentire è deleterio, perché anche l’impegno pastorale tra gli italiani nel mondo è un compito missionario, missionario vero, puro, duro, nel senso più genuino della parola. Mi permetto di ricordare don Giancarlo, che dall’Africa era venuto tra gli italiani nella metropoli secolarizzata di Birmingham (GB) ed un giorno mi disse: “In Africa, in mezzo ai miei negri, ero sacerdote, re e profeta, qui sono nulla, nulla, nulla”. E mia consuetudine impegnarmi nel Natale e a Pasqua in una delle varie Missioni Cattoliche Italiane. Mi ricordo ancora una volta a Mons (B), il Venerdì Santo, mentre noi celebravamo il ricordo della morte del Signore, alle ore 15, passa la carovana del carnevale con le majorette, le gambe in alto, con i coriandoli, con la musica, ecc. ecc. Finita la liturgia usciamo di chiesa e un calabrese, quasi per scusarsi con me disse: “Ci scusi, padre, qui non siamo in Italia”. “Non si deve scusare, è passato il carnevale del Venerdì Santo, qui è terra di missione”, risposi.
Le nostre comunità all’estero pur deboli e semplici, hanno un profondo senso di religiosità che potrebbe essere uno dei mezzi migliori per mettere in atto quella rievangelizzazione dell’Europa di cui tanto si parla e per cui il Papa ci ha tanto invitato ad impegnarci. Ritengo sia urgente che le nostre Chiese locali recuperino il senso della missionarietà anche per un impegno nella pastorale migratoria tra gli italiani all’estero. Per l’evangelizzazione la nostra gente ha bisogno di essere sostenuta, di essere ricordata del grande dono ricevuto con la fede. Come missionari degli emigrati abbiamo fatto di tutto e (se necessario) ritorneremmo a farlo; ma il primo nostro compito è stato quello di mantenere viva la fede di questa nostra gente. Questo è anche un dovere delle Chiese di partenza! E un dovere! E irresponsabile, mi permetto di dire, eliminare questo dovere dalle Chiese di partenza con l’alibi che non hanno preti. Nessuno pretende la sostituzione di ogni prete che rientra in Italia. Ma sono milioni i nostri italiani all’estero che esigono una presenza sacerdotale. Se i Vescovi e le Chiese locali affermano di amare sul serio questi italiani all’estero, allora inviino dei preti. Se non li inviano dimostrano un amore solo di parole, non confermato dai fatti. Da qui la necessità che in futuro la Migrantes e la CEMI si impegnino perché le nostre Chiese locali recuperino la convinzione che anche impegnandosi nella pastorale migratoria con i nostri all’estero, svolgono un compito prettamente missionario di Chiesa.
Fedeli con la nostra gente
3. “Essere fedeli con la gente affidataci”: è questa una parola rivolta direttamente ai missionari, che quotidianamente si fanno carico diretto di questa “pastorale specifica per, tra e con i migranti”, come troviamo ripetuto anche nella citata Istruzione pontificia (n. 100). I missionari sono dei compagni di viaggio; fuori di ogni retorica diciamo che si fanno migranti con i migranti; oltre che della loro vita cristiana, si fanno carico dei loro problemi e bisogni, della loro dignità e dei loro diritti in ambito sia civile che ecclesiale.
L’efficacia del nostro lavoro di missionari dipende sì dalla Grazia di Dio, ma anche se siamo con la gente, se camminiamo con la gente, se viviamo e sentiamo, gioiamo e soffriamo con la gente! Se siamo solo capi e maestri la nostra parola scivolerà via e non entrerà nel cuore della gente a cui dobbiamo annunciare il messaggio di salvezza. Il messaggio di salvezza passa attraverso questa vicinanza umana quotidiana che unisce ed affratella. C’è una frase di Mosè che fa impressione! Il patriarca, stanco e deluso del suo popolo è tentato di abbandonarlo. Ma Mosè reagisce dicendo: “Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!” (Es 32,32 cfr. pure Es 32,11–14). Penso che questo possa essere anche il nostro motto: come pastori è preferibile quasi non esistere che tradire la propria gente. Oggi in tutta l’Europa tira un vento gelido contro i migranti. Anche la comunità cristiana è tentata di ignorarli, di isolarli. Come missionari e pastori siamo chiamati ad essere fedeli con questa nostra gente per ridare loro la dignità di persone umane.
Chiudo portando un esempio di fedeltà! La Migrantes, come sapete, cura vari settori; uno di questi è quello degli zingari: attualmente abbiamo 13 comunità di preti, suore e laici che vivono con gli zingari in Italia; vivono con loro e basta. Non è che siano lì per fare catechismo, anche se all’occorrenza lo fanno. Stanno, vivono con gli zingari per dire che anche la loro vita vale, che anche loro – i reietti della società – sono figli di Dio! Stimo i Santi sociali del 1600 e del 1800; non ho niente contro le adunate di massa che possono portare delle salutari scosse al mondo ed alla Chiesa. Credo tuttavia che la nostra Chiesa oggi debba recuperare in primo luogo un po’ di interiorità, di spiritualità che fa vivere nascosti, fa essere fedeli alla gente ed a Cristo, nel silenzio. Recuperare il valore di quei Santi che sono stati ricordati dopo la loro morte. Come Charles De Foucauld che aveva scelto di vivere con i tuareg nel deserto, che ha vissuto senza fare grandi cose e che è morto in un modo stupido. Vivere in un campo di zingari, o nel deserto con i tuareg,… Ecco, molti di voi hanno vissuto così, nessuno scriverà la storia della vostra vita, ma avrete testimoniato la fedeltà del Signore rimanendo fedeli alla vostra gente, quella che il Signore vi ha affidato: “Che il Signore mi cancelli dal libro della vita piuttosto che tradire il mio popolo!”. Cosa non facile neanche per noi; abbiamo un colletto, una crocetta, una cravatta firmata, ed è facile che ci distinguiamo, che ci trattino bene, che non soffriamo come loro soffrono. Ma senza vanto sforziamoci di “essere con loro”, sarà questo “sentire con loro” che farà passare il messaggio di Cristo, messaggio di fratellanza universale e di salvezza.
Siamo qui a Bellaria per darci una mano; per ognuno di noi prende attualità, direi incoraggiante attualità, la parola rivolta dal Risorto a Pietro: “Pasci le mie pecore”, ed anche l’altra parola: “Conferma i tuoi fratelli”, convinti che i primi fratelli da confermare sono quelli che condividono le nostre fatiche apostoliche. Non siamo eroi, non lo era nemmeno Pietro; sperimentiamo i nostri limiti e le nostre debolezze, ma è tanta la nostra fiducia nel Risorto e da lui ci sentiamo ripetere, in pieno clima pasquale: “Andate in tutto il mondo”. Un “andare” al plurale, pregno di collegialità e di fraternità, che ci stimola, appunto, a darci gli uni agli altri una mano. Negli auguri pasquali, espressi attraverso Migranti–press a fine marzo, i partecipanti al convegno erano invitati a porsi non la domanda: “Che cosa porterò via da Bellaria?”, ma piuttosto la domanda inversa: “Che cosa voglio io portare ai miei fratelli a Bellaria?”, domanda di sapore più evangelico perché rimanda alla parola di Gesù: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. Auguri dunque ad ognuno di noi di dare in misura generosa, perché saremo ricambiati in misura ancora più abbondante.