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Migrazioni e settimana sociale (S. Zamagni)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 6/04


MIGRAZIONI E SETTIMANA SOCIALE
di Stefano Zamagni
La 44a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, che si è svolta a Bologna nei giorni 7-10 ottobre, ha posto il fuoco dell’attenzione sul grande tema della democrazia e sulle sfide che attendono i cattolici su tale fronte. è bensì vero che parole chiave come immigrati, rifugiati, richiedenti asilo non hanno figurato nei titoli delle sette tavole rotonde attorno alle quali si sono articolati i lavori della Settimana Sociale. Ma da ciò non deve affatto desumersi che la problematica migratoria sia rimasta assente o comunque ai margini delle attenzioni degli oltre millecento partecipanti e dei circa quaranta relatori invitati a trattare dei vari argomenti. Né poteva essere diversamente. Come si potrebbe, infatti, parlare di nuovo modello democratico senza affrontare di petto la nuova questione migratoria? Ma vediamo di precisare.Nel quarto seminario preparatorio della Settimana Sociale, svoltosi a Napoli il 31 gennaio 2004 e dedicato specificamente al tema “Democrazia e governance internazionale”, è stata avanzata la proposta di creare una World Migration Organization (WMO) in grado di inglobare i compiti finora svolti dall’UNHCR e dall’Organizzazione mondiale delle migrazioni. L’argomento principale alla base di tale proposta è che in assenza di un’agenzia o di un’autorità transnazionale incapace di rendere esecutive, cioè di far rispettare, le regole fissate nelle convenzioni e nei trattati internazionali, le politiche migratorie continueranno ad avere il basso profilo che tuttora le caratterizza. Come si ha avuto bisogno di istituzioni finalizzate ad assicurare che la più spinta integrazione dei mercati producesse benefici reali per tutti - e infatti è stata creata l’Organizzazione Mondiale del Commercio - allo stesso modo, e a fortiori, si ha oggi necessità di un’istituzione transnazionale per proteggere i diritti di migranti e rifugiati e per punire il numero crescente di violazioni perpretate nelle forme più impensabili e violente. In secondo luogo, si parla di migranti - sia pure tra le righe - nel Documento Preparatorio della Settimana Sociale laddove si pone in luce come tra le conseguenze di maggior momento della globalizzazione vi è certamente quella che concerne la creazione di un mercato globale del lavoro. Il che ci obbliga a prendere atto di un fatto nuovo: vanno oggi moltiplicandosi soggetti che, pur esercitando un potere anche normativo, sono privi di legittimazione democratica; non hanno cioè un demos cui rendere conto. Si pensi alle imprese transnazionali e alle grandi organizzazioni internazionali. Si tratta di soggetti in grado di muovere ingenti risorse e di imporre regole di condotta, ma che non sono tenute a rispondere ad alcuna assemblea di rappresentanti. In casi sempre più frequenti, accade che le autorità politiche nazionali arretrino di fronte alle autorità tecnocratiche. Non è difficile cogliere i pericoli insiti in processi del genere, primo fra tutti la minaccia che può derivarne alla difesa dei diritti umani fondamentali. E non v’è chi non veda come i primi ad essere minacciati siano proprio i migranti. Occorre allora operare affinché il filtro selettivo imposto dalla competizione globale non annienti i più indifesi e i più poveri: appunto i migranti.Infine, durante l’intenso dibattito delle tre giornate della Settimana Sociale non pochi sono stati gli interventi di coloro che hanno inteso sottolineare come non ci potrà mai essere autentica e piena democrazia fino a quando si continuerà a mantenere nei confronti dei migranti l’attuale atteggiamento. Qual è questo atteggiamento? Quello di marca prettamente economicistica secondo cui le migrazioni vengono viste unicamente come risorsa economica su un duplice fronte: quello dei governi dei paesi poveri e quello dei paesi di destinazione dei flussi. I primi vedono nell’emigrazione il vantaggio delle rimesse e soprattutto la riduzione dei pericoli di disordini sociali collegati ai ben noti fenomeni di privazione e frustrazione. D’altro canto, i paesi di arrivo vedono nell’immigrazione l’occasione propizia per disporre di forze lavoro a basso costo e soprattutto altamente flessibile - secondo la logica “dell’usa e getta”. Una democrazia sostanziale (basata cioè sui valori) e non meramente procedurale non può reggersi a lungo su tali premesse.Si consideri, ad esempio, la proposta recente avanzata da alcuni paesi europei, tra cui l’Italia, di fermare i potenziali migranti nei paesi di origine o di transito mediante la costruzione di “centri di permanenza e di assistenza”. Chiaramente, si tratta di proposta che un paese autenticamente democratico mai potrebbe accettare e ciò per la fondamentale ragione che le persone non sono equiparabili alle merci. Si possono bensì delocalizzare attività produttive, ma non certo le persone! Per non dire poi che soluzioni del genere sarebbero comunque inefficaci e oltremodo costose.In un documento recente (luglio 2004), la Commissione delle Nazioni Unite per le migrazioni internazionali ha stimato che nei prossimi dieci anni poco meno di un miliardo di persone busseranno alle porte dei Paesi avanzati in cerca di lavoro e/o di protezione. è questa una misura sintetica della cosiddetta pressione migratoria, che è definita dal numero di persone che, in assenza di vincoli o di impedimenti vari, sarebbero pronte a lasciare il proprio Paese. Non è questa la sede per discutere dell’accuratezza metodologica di tale stima. Quel che rileva è l’ordine di grandezza - più o meno esatto, non importa -, che dice quanto vacui siano i tentativi di coloro i quali pensano di poter arrestare o anche contenere le tendenze in atto con misure di polizia ovvero con provvedimenti di ordine amministrativo (quote di ammissione; misure di espulsione, ecc.). Di fronte ad una pressione migratoria di tale intensità, l’esito certo di politiche che continuano a concettualizzare il problema migratorio come problema di ordine pubblico ( e perciò gestito dai soli ministri dell’Interno) è quello di ingrassare i profitti (illeciti) del crimine organizzato. Non si dimentichi, infatti, che vi è sostituibilità quasi perfetta tra immigrazione legale ed illegale: più si restringono le condizioni di accesso, tanto più elevato è il flusso degli arrivi clandestini, perché aumenta l’offerta di migrazioni illegali.Il fatto è che sono le condizioni economiche e sociali di un paese (soprattutto reddito pro-capite, tasso di disoccupazione, conflitti civili) i fattori decisivi della propensione ad emigrare. Una propensione che tende ad aumentare nei primi stadi del processo di sviluppo economico, salvo poi diminuire una volta che il paese ha superato una certa soglia critica. In altri termini, la relazione tra la propensione ad emigrare ed il reddito pro-capite è descritta da una curva a forma di U rovesciata. Non è difficile darsene conto. Nei primi stadi del processo di sviluppo, l’aumento del reddito si accompagna sempre ad un aumento delle ineguaglianze tra gruppi sociali e - come noto - tale aumento è un potente fattore di spinta ad emigrare. Non solo, ma agli inizi del processo di sviluppo si registra sempre un mutamento strutturale: l’agricoltura espelle lavoratori che vengono incanalati verso il settore industriale; ma ciò richiede tempo, così che una parte degli espulsi prende la via dell’estero. Possiamo allora comprendere dove trovi fondamento la congettura di R. Jenny, l’attuale direttore della Commissione ONU, di cui sopra si è detto.Se dunque si smettesse di utilizzare (o alimentare) la paura dell’immigrazione come strumento di lotta politica o, peggio ancora, come paravento di atteggiamenti xenofobici, si riuscirebbe tra “uomini di buona volontà” a trovare il consenso necessario per avanzare una politica sostenibile dell’immigrazione, basata su un duplice principio. Per un verso, quello secondo cui le migrazioni devono fare gli interessi sia dei paesi di origine sia dei paesi di arrivo. Per l’altro verso, il principio per il quale, nel caso delle migrazioni, oggetto di scambio sul mercato del lavoro sono servizi che sono incorporati nelle persone. Pretendere di regolare i flussi dei servizi di lavoro senza “vedere” l’uomo che li veicola è vera miopia economistica e grave irresponsabilità politica, un punto questo su cui l’Istruzione ritorna più volte. Il risultato, comunque, è sotto gli occhi di tutti: le attuali politiche migratorie sono, ad un tempo, inefficaci e controproducenti. Sono inefficaci perché si limitano a correggere gli effetti indesiderati delle migrazioni senza intaccarne le cause. Un esempio, per tutti. I grandi progetti di sviluppo finanziati dagli organismi internazionali causano una sistematica espulsione di popolazione rurale dai luoghi in cui i progetti medesimi vengono realizzati (dighe; oleodotti; autostrade; canali). Si tratta dei cosiddetti Project Affected People: per la sola India, si è calcolato che nel 1997 le persone sfollate siano state oltre 21 milioni. Come si fa allora a non tenere conto dell’impatto della realizzazione di questi progetti sulla generazione di flussi migratori? Le attuali politiche migratorie sono anche controproducenti perché aumentano le inquità, già alte. Infatti, le restrizioni di vario tipo fanno sì che solamente coloro che sono in possesso di risorse adeguate o possono procurarsele “vendendo” la propria libertà ai trafficanti di esseri umani possono lasciare il proprio paese.Di tutto ciò si è parlato - spesso nei corridoi, ma anche in plenaria - durante la 44a Settimana Sociale. è urgente che il movimento cattolico italiano, nelle sue plurime espressioni, si riappropri della questione migratoria, sottraendola agli interessi di parte e alle strumentalizzazioni ideologiche.