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Parrocchiani di fatto e parrocchiani di diritto (P. Scaramuzzetti)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 6/04


PARROCCHIANI DI FATTO E PARROCCHIANI DI DIRITTO
di Pinuccia Scaramuzzetti
Come la comunità parrocchiale si rende visibile allo stranieroPer ogni situazione esiste una idealità e una quotidianità e non sempre chi vive il quotidiano conosce i principi che dovrebbero dargli forma e il vissuto precede l’ideale. Così se tante volte ci si sofferma sui documenti della Chiesa, le indicazioni dei Vescovi, non è meno importante l’atteggiamento della gente comune, il suo “fare” che a volte richiederebbe una pausa di riflessione, a volte invece è profetico. Non dico niente di nuovo, basta pensare alla parabola del Samaritano.Vorrei riflettere perciò su ciò che avviene nella parrocchia quando la comunità cristiana entra in relazione con degli stranieri, dei rom, o meglio vorrei, vedendo dal di fuori, capire quale immagine “gli altri” percepiscono di questa comunità cristiana che pure è “altra” per loro. I parrocchiani sono veramente paroikoi, persone che abitano qui come di passaggio, stranieri residenti? Mi riferisco all’articolo di Cristina Simonelli già pubblicato su questa rivista (nr. 1/04). Priscilla e Aquila, vivevano in una casa-chiesa che aveva una sua visibilità e una sua intrinseca accoglienza, condividevano “l’essere di passaggio”, anche con gli altri stranieri, gli xenoi.Qual è oggi il luogo della visibilità della comunità cristiana, il luogo dove i residenti condividono con gli stranieri l’essere di passaggio, vivono la fraternità e mettono in pratica l’accoglienza?Penso alle persone che conosco: rom, stranieri, persone genericamente nel bisogno che trovano questa visibilità nell’edificio chiesa, nelle abitazioni dei sacerdoti, negli uffici parrocchiali. Mi sembra che ciò che crea la differenza non sia l’essere straniero-estraneo o straniero-residente perché la maggior parte dei rom o sinti cristiani sono cittadini italiani che abitano in quella certa zona e quindi da un punto di vista civile sono residenti. Penso a diversi momenti: la carità, la preghiera, la catechesi, l’amministrazione dei sacramenti, la festa, il consiglio pastorale… e mi appare evidente che immigrati e rom vi partecipano in misura molto diversa ed anche sono guardati in modo diverso nei diversi momenti dai parrocchiani “di fatto”, di diritto lo sarebbero anche loro, ma di “fatto” lo sono quelli che frequentano e magari hanno degli incarichi. Come gli “stranieri-estranei”: rom, sinti e altri gestiscono la loro visibilitàAnche lo straniero come il rom gestisce una sua visibilità. I luoghi della carità sono quelli in cui è più visibile, si rende visibile come straniero, come povero. Davanti alla porta della chiesa -spesso si tratta di un rom, più spesso una romni - si rende visibile/invisibile come mendicante, cioè è visibile la mano tesa, invisibile la persona. In alcuni giorni prestabiliti, perché anche nella carità ci vuole ordine, rom, africani, immigrati da diversi paesi, fanno la coda davanti alle porte degli uffici “adibiti alla carità”. Dall’altra parte ci sono i “parrocchiani” che possiedono le chiavi, che decidono cosa dare e a chi: la stabilità, la gestione, sembrano attributi più adeguati a questa categoria di persone che non l’ “essere di passaggio”. Si innesca talvolta anche un triste meccanismo: poiché questa attività non è ritenuta “di concetto”, essa viene affidata a persone che si sentono realizzate nel ricevere un incarico e nel comandare su chi è più debole di loro. Si creano dei conflitti, dei rapporti servili.In modo uguale e contrario la visibilità è cercata durante le feste, le manifestazioni etniche in cui invece ci si mostra ricchi di tradizione, orgogliosi di una appartenenza che si vuol condividere con tutti. Questo vale soprattutto per i cittadini immigrati: per essi è l’occasione di rivivere momenti di una convivialità legata al ricordo del proprio paese, il sogno che sia possibile riviverla qui. Abiti, cucina, musica, danze sono guardati con curiosità ed ammirazione anche da quei cittadini italiani che nella vita quotidiana, nel lavoro, a scuola, vorrebbero una veloce omologazione alle abitudini locali. Questa visibilità “di gruppo” pur manifestandosi spesso in ambienti ecclesiali (vedi le varie feste dei popoli) poche volte ha a che vedere con l’inserimento nella parrocchia di residenza, a meno che non ci sia una partecipazione comune, dei parrocchiani italiani e di quelli stranieri, alla festa.Ci sono delle occasioni in cui anche i rom esprimono se stessi, non si tratta della manifestazione del loro quotidiano, ma di una celebrazione di fronte ai non zingari dell’immagine positiva e ideale del rom. Sono episodi che possono servire per aprire uno spiraglio di accettazione presso i non zingari, ma qualche volta suscitano commenti del genere: “Questi sono i veri zingari… i nostri non sono così… non hanno conservato niente della loro cultura… hanno perso tutto!” dove per “vero zingaro” si intende l’immagine che noi abbiamo in testa e per cultura… chissà, forse i violini…Un rito in cui i rom acquistano visibilità è quello del funerale. è una celebrazione che avvicina e contemporaneamente allontana le due comunità.Non è comprensibile ai non-zingari, stando ai commenti dei passanti che si fermano ad osservare, quella celebrazione di popolo che è il funerale zingaro: le numerosissime corone di fiori, il ricco carro funebre, la musica, il lungo corteo dietro la bara fino al cimitero. è l’omaggio dei vivi a un rom o una romni che se ne va.Il funerale copre nella sua celebrazione un percorso che va dal luogo della morte a quello della sepoltura: la Messa può essere celebrata nell’uno o nell’altro luogo.I parrocchiani di ambedue le località guardano con meraviglia questo evento e se da una parte sentono un rispetto che non avevano mai immaginato prima, dall’altra avvertono una distanza profonda con queste persone che hanno usanze così diverse dalle loro.Presenza/assenza nelle attività parrocchialiDurante le liturgie e le catechesi in parrocchia, i rom sono generalmente assenti, per il loro numero esiguo o eccessivo (nel caso dei campi sosta), per il desiderio di non venir notati certe volte, ma anche per un senso di estraneità, per la conflittualità con gli abitanti, per l’impreparazione: è forse per questo che se decidono di partecipare a una funzione religiosa preferiscono l’anonimato nella folla di un santuario o cercare “i preti dei sinti” con cui si intendono più facilmente. Gli altri parrocchiani non ritengono che sia un loro compito l’andarli a cercare. Nessuno nota la loro mancanza o pensa, quando si tratta di cristiani battezzati, che il loro posto sarebbe lì, insieme agli altri membri della comunità. Forse se una fila di rom o di sinti fosse in chiesa durante una Messa più di uno dei presenti starebbe sulle spine. So di qualche famiglia non zingara o comunità religiosa che si dedica alla catechesi dei bambini dei campi nomadi cercando di coinvolgere la parrocchia. Tutte hanno espresso la difficoltà di stabilire una soddisfacente relazione fra parrocchie e rom/sinti e lo considerano un problema maggiore di quelli incontrati nel loro personale rapporto con i rom. Cresime e prime Comunioni tuttavia vengono celebrati in parrocchia, spesso con gli altri bambini. Quando una famiglia sinta o rom si propone l’integrazione nel territorio, essa cerca una partecipazione più attiva alla vita della parrocchia soprattutto attraverso i bambini. Essi frequentano le lezioni di catechismo e una volta riuniti in un’aula con gli altri, fra i quali magari ce ne sono anche di provenienti da paesi diversi, starà alla fantasia o all’ottusità della catechista usare un linguaggio standard, che si articola secondo schemi fissi, oppure adattarsi alla situazione individuale dei presenti per raggiungere un insegnamento più efficace pur senza marcare eccessivamente la differenza. Anche in questo caso ci si affida alla buona volontà delle persone disponibili e non sempre la buona volontà coincide con la lungimiranza. Certo non è facile né per gli uni né per gli altri superare certi pregiudizi. Di fronte a una scazzottata fra bambini: “Sono sempre loro a cominciare!” dicono gli adulti presenti; “ce l’hanno con i sinti, sono razzisti!” dicono gli altri.Celebrazioni liturgiche e territorioSoprattutto nel caso di rom e sinti che non vivono in casa, l’amministrazione dei Sacramenti, che si riducono in molti casi al Battesimo, non sempre avviene nella chiesa di competenza per territorio. Alcune famiglie preferiscono scegliere come luogo della celebrazione un santuario o una chiesa cui sono sentimentalmente legati, difficilmente comunque viene coinvolta nella preparazione una persona oltre colui che sarà il celebrante. Forse non è così dove il processo di sedentarizzazione è in corso da molto tempo o forse semplicemente accade e io non lo so - perché in questo mondo di mondi che è il mondo zingaro ciò che si esclude può sempre essere possibile -, ma io non ho esperienza di bambini rom battezzati durante un Battesimo comunitario con i gage. Credo che non piaccia ai rom - a meno che non ci sia un legame speciale di amicizia, un percorso significativo come nel caso accennato di una catechesi regolare curata dalla parrocchia -, ma probabilmente non piacerebbe neppure agli altri fedeli. Sia nel caso del Battesimo, ma ancor più nel caso della Messa di funerale, ci si aspetta che i riti siano celebrati con la dovuta solennità e si svolgano in un tempo adeguatamente lungo.Sul “tempo” c’è un’incomprensione di fondo che divide parroci e rom/sinti: i primi ritengono che poiché non si fanno mai vedere in chiesa si annoino e affrettano il più possibile le celebrazioni, i secondi che la fretta tolga valore e rispetto al momento liturgico. Per esempio è accaduto che un giovane padre chiedesse preoccupato se il Battesimo di suo figlio fosse valido, visto che era durato solo dieci minuti, e che un uomo che preparava il funerale del padre andasse a cercare un prete dei sinti perché nel funerale precedente in parrocchia “la bara era entrata e uscita in cinque minuti senza nessun rispetto”. è evidente che si tratta di un modo di dire, ma esprime un sentimento suscitato da un fatto di cui non ci si era data ragione.Né stranieri né ospiti, ma concittadini dei santiCadendo nella stessa generalizzazione e forse nello stesso errore di cui sopra, devo dire che non ho mai sentito che ci siano dei rom che fanno parte del consiglio pastorale, ho sentito invece che più di una volta nel consiglio pastorale si parla di loro, della loro accoglienza o esclusione.Ho davanti agli occhi un documento che un consiglio pastorale ha redatto sul problema dei nomadi sul territorio. Il documento è articolato, elenca proposte sensate all’amministrazione pubblica (lasciamo perdere i “se” e i “ma” che esse possono suscitare), ha avuto il consenso di persone autorevoli. Dal punto di vista ecclesiale, sono due i punti che non mi convincono, ma che penso siano invece condivisi da molti e perciò vale la pena parlarne:- il fatto che bisogni prima di tutto occuparsi della sicurezza dei propri cittadini, come il padre deve prima preoccuparsi della sicurezza dei suoi figli;- il fatto che non è lecito invitare altre persone a convivere su un territorio ignorando il parere di chi li ospita.Non ci sarebbe niente di strano se il discorso non nascesse in ambito ecclesiale. Mi è venuta subito in mente la parabola del figliol prodigo. Non mi pare che la prima preoccupazione del padre sia la tranquillità, il benessere del figlio maggiore. Mi sembra pesante questa estraneità che nega agli altri la qualifica di figlio, anche se non si tratta del rapporto figlio/Padre, ma figlio/città; mi sembra pesante che a sottolinearla siano quelli che insieme a questi sono “concittadini dei santi”.Anche il fatto che un terreno pubblico venga considerato come proprietà privata dai residenti che si considerano “ospitanti” di coloro cui il terreno viene assegnato dal legittimo proprietario, in questo caso l’ente pubblico, non mi sembra corretto.La terra è di tutti, anche quella del nostro paese se non l’abbiamo comprata. La parola “ospiti” riferita ai rom torna spesso nel documento e ripercorrendo la frase di Paolo all’indietro, è facile scivolare da ospiti a stranieri.Ritorniamo qui al discorso iniziale dove i parrocchiani, più che come “stranieri residenti” si presentano come gestori, quasi proprietari, gente che decide della vita degli altri.Dalla chiesa del “campo nomadi” alla chiesa del quartiere...Sarebbe bello poter ripercorrere il metodo comunicativo di Paolo e mettere in relazione le diverse comunità cristiane, comunità cristiane che si riconoscono, che vogliono parlarsi.Bisognerebbe che la comunità cristiana del campo nomadi avesse coscienza di sé, fosse matura e formata, soprattutto cercasse questa relazione, ma soprattutto che la comunità cristiana che si ritrova nella chiesa di quartiere, forse più formata e matura, soffrisse la mancanza di questa relazione.Sarebbe bello anche, e sarebbe più semplice, che gli individui rom/sinti entrassero nella chiesa parrocchiale, venissero salutati come fratelli e si sentissero a casa propria.Puntando lo sguardo sulla parrocchia, ci si potrebbe chiedere: perché vengono battezzate delle persone cui si dice: “ La comunità cristiana ti accoglie…” che invece non si vogliono? Certo la domanda è retorica, non si può rifiutare il Battesimo perché una persona non piace, ma bisogna assumere consapevolezza delle frasi che si pronunciano. Spostando il punto di vista dall’altra parte, perché non entra fra i rom e i sinti nel suo significato profondo il messaggio: “Adesso questo bambino fa parte, è membro a tutti gli effetti della Chiesa”? Di chi è la responsabilità?In un certo accampamento di una certa città, i bambini, al termine della preghiera eucaristica quando si prega per la Chiesa, alla domanda “Cos’è la Chiesa?” erano stati abituati a rispondere: “Tutti i battezzati!”. Mentirei tuttavia se dicessi cha da adulti c’è in loro consapevolezza di questa appartenenza, nutro forti dubbi che sia così. Gli interrogativi perciò restano aperti. Sarebbe assurdo dare una risposta sulla carta e mantenere il dubbio, il conflitto, nella prassi.Quello che mi sembra giusto dire è che sono interrogativi che non devono venir accantonati in un angolo nascosto della nostra memoria, ma devono venire sofferti, sudati, essere un tarlo nella nostra vita.In un certo senso questo articolo è una sintesi, neanche tanto esaustiva, della difficoltà di relazione con la comunità cristiana sedentaria. Qualcuno potrebbe notare che sono le solite cose, ma proprio perché non ci troviamo niente di strano, perché ci siamo “abituati” è tempo che ci rimettiamo in discussione.