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Convegno Ecumenico sulle "Beatitudini" (6/8 febbraio 2003) Introduzione di S.E. Mons.Chiarinelli

Ufficio Nazionale per l'ecumenismo e il dialogo interreligioso

Le “Beatitudini”: gioia di Dio per l’uomo



UN GRANDE EVENTO

Nei giorni 6-7-8 febbraio 2003 Viterbo ospita il Convegno Ecumenico con a tema “Le Beatitudini”.
E’ un avvenimento di alto profilo.
Questa Chiesa e questa Città di Viterbo nelle loro storie sono già state testimoni di eventi di valore ecumenico. Basti, tra gli altri, ricordare gli sforzi ecumenici di s. Bonaventura in vista del Concilio di Lione (1274), i natali viterbesi del beato Domenico Barberi (1792-1849), il passionista impegnato in Inghilterra sul fronte dei rapporti con l’Anglicanesimo e che accolse nella Chiesa cattolica il Card. J.H. Newmann; l’accoglienza presso la trappa di Vitorchiano, delle spoglie della beata Maria Gabriella Sagheddu (1914-1939), una vita consacrata all’unità dei cristiani. Né vanno dimenticate le complesse relazioni civili e religiose tra la Città di Viterbo e l’imperatore di Costantinopoli Michele Paleologo (1225-1282) al tempo della presenza dei Papi a Viterbo e, soprattutto, di Giovanni XXI e di Gregorio X.
Ma oggi, dopo il Concilio Vaticano II e alla luce delle molteplici acquisizioni maturate sul piano della teologia e su quello della prassi, l’impegno ecumenico si inscrive in più ampi orizzonti, sollecita responsabilità non eludibili e reclama passi decisi. In un mondo che sperimenta sempre più la interdipendenza, la globalizzazione e l’universalità, desta stupore la divisione tra i discepoli di Cristo, unico Maestro e Signore. Proprio la sua ultima preghiera, nel Cenacolo, chiedeva al Padre che i suoi fossero “una cosa sola” (Gv 17,11). “Purtroppo – ha scritto Giovanni Paolo II – le tristi eredità del passato ci seguono ancora oltre la soglia del nuovo millennio” (Novo Millennio Inenunte, 48). Ma il Papa subito aggiunge: “Intanto proseguiamo con fiducia nel cammino, sospirando il momento in cui, con tutti i discepoli di Cristo, senza eccezione, potremo cantare insieme a voce spiegata: Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme (Sl 133,1)”.


UNA TAPPA SIGNIFICATIVA


Il Convegno ecumenico viterbese si colloca decisamente lungo questo cammino: la Commissione Episcopale per l’ecumenismo e il dialogo della CEI, la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, la Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia, convenendo sul tema delle “Beatitudini”, hanno inteso individuare una ulteriore e impegnativa tappa in questo faticoso procedere.
Si tratta, infatti, di ritrovarsi assieme intorno al Libro santo, in religioso ascolto dell’unico Vangelo, nello sforzo intenso e disponibile per l’accoglienza comune del messaggio che il Signore Gesù ci ha consegnato.
E questo messaggio risuona nitido e alto nella sublime pagina del Vangelo secondo Matteo, denominato Discorso della Montagna (Mt 5-7) con all’inizio “Le beatitudini”


“Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:


«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per causa della giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli»” (Mt 5,1-10).


Il testo evangelico va letto nell’orizzonte del Regno di Dio annunciato da Gesù. Le “Beatitudini” ci parlano di Dio, ci raccontano l’esperienza di Gesù, esprimono le note qualificanti dei figli del Regno, della nuova umanità, del trionfo della salvezza nei dinamismi della storia.
Le “Beatitudini” sono il canto della gioia che è Dio, della gioia di Cristo, della gioia dei discepoli del Regno.
Quale gioia?
La felicità annunciata nelle “Beatitudini” è certamente una vera gioia, ma di natura profonda. E’ una gioia fondata sua una fede (la benevola compagnia di Dio) e su una speranza ( la piena accoglienza dei beni del Regno). Questa gioia risulta da un stato di armonia con Dio, con gli altri, con se stessi (K. Stock). E’ tuttavia normale che questa gioia interiore e profonda invada progressivamente le dimensioni della persona e si ripercuota nella psicologia e negli atteggiamenti esteriori di colui che la vive. La felicità delle “Beatitudini”, pertanto, è una realtà profondamente umana perché profondamente teologale.
Ma le “Beatitudini” possono essere una proposta credibile, una esperienza possibile e fattuale?
Annota un biblista: “Il programma delle beatitudini non è quello delle leggi che si impongono immediatamente e interamente. E’ in modo progressivo che entriamo nel loro programma, la cui realizzazione è l’opera, sempre incompiuta, di tutta la vita. Come luci che brillano e guidano nelle tenebre, le beatitudini sono strade di speranza per l’umanità” (M. Dumais).
Lasciarsi interpellare da così affascinante idea e muovere concordi su queste strade di speranza non rappresenta un balzo innanzi nell’accogliere e confessare l’unica Parola che è dono di salvezza?
E’ la intenzionalità profonda del Convegno ecumenico viterbese, nel quale confessioni cristiane diverse si pongono in ascolto, nella fraternità dell’incontro dell’unico Maestro (cfr. Mt 23,8).


UN’OPPORTUNITÀ SINGOLARE


Il Convegno, pertanto, è un dono ed è un compito.
Dono perché nello stare assieme è dato sperimentare la presenza di Cristo Signore (cfr. Mt 18,20). Dono perché l’ascolto religioso della Parola è in grado di promuovere quel misterioso dinamismo che Agostino esprimeva così: “Ascoltando creda, credendo speri, sperando ami” (Catechesi ai principianti, IV, 8). Dono perché nella comunicazione reciproca dei doni spirituali i fratelli si rinfrancano nella fede che hanno un comune (cfr. Rm 1, 13).
Ma è anche compito. Quale compito?
Quello fondamentale è “salire sul monte” con Gesù; è mettersi seduti in cerchio attorno a lui che parla; è ascoltare la parola e impegnarsi a fare la volontà del Padre (cfr. Mt 5, 1-2.21).
Interpretiamo, dunque, come rivolto a noi, l’invito di Isaia che grida: “Venite, saliamo sul monte del Signore” (2,3).
Chi non coltiva nel profondo dell’anima il desiderio di ripetere la scena descritta da Matteo e l’anelito a riascoltare quella “bocca che si apre” e che “insegna” il mistero del Regno, con i suoi segni paradossali (cfr. Mt 1, 1-10)?
Proprio a riguardo della salita di questo monte Gregorio di Nissa scrive con linguaggio suggestivo: “Il Logos divino, chiamando beati quelli che sono ascesi con Lui, spiega quali e quante sano le realtà che si vedono da questa altura; mostra, per esempio con un dito, qui il regno dei cieli, là l’eredità della terra superiore; poi mostra la misericordia, la giustizia, la consolazione, l’avvenuta parentela di tutto il creato con Dio e il frutto delle persecuzioni, che è divenire familiari di Dio; il Logos mostra poi quante altre cose è a loro possibile vedere, indicando con il dito, dall’alto del monte, ciò che è sotto dalla superiore visione, attraverso la speranza” (Commento alle Beatitudini, Orazione I – 1193 M).
Sarà questa ascesa e questa visione a darci il modo di diventare donne e uomini saggi che costruiscono (o ricostruiscono) la casa comune (cfr. Mt 5, 24-25). Sempre consapevoli che Colui che edifica è Lui (cfr. Mt 16, 18) e noi siamo chiamati ad essere pietre vive (cfr. Pt 2,5) plasmate dalla mano – dolce e forte – del Signore della Chiesa, giacché è proprio nella sua destra che egli tiene “le sette stelle” (Ap 1, 16.20).


***


La pagina delle “Beatitudini”, e tutto il Discorso della Montagna, continua ad interpellarci: con rudezza e con soavità, come attesa e come vocazione, come sfida e come paradosso.
Per chi vale il discorso della montagna? Si chiede il noto biblista G. Lohfink (ed. Queriniana, Brescia 1990).
L’interrogativo è provocatorio sia per il singolo discepolo che per la comunità cristiana, come per il contesto socio – culturale del nostro vivere.
Di certo il messaggio di Gesù non può essere confinato nel profondo e nell’intimo della coscienza individuale. Né può essere assunto come manifesto di rivoluzione sociale, in un processo che coinvolge istituzioni e strutture.
Sarà, allora, la magna charta di un sogno sempre perseguito e di una utopia mai realizzata? Sarà un progetto che innerva la storia e ha compimento oltre la storia?
L’articolato programma del Convegno e i diversi approcci al tema varranno a formulare orientamenti e risposte. Ma la stessa celebrazione di questo Convegno è un grande segno e contiene un alto messaggio: in una stagione del mondo così drammatica e a fronte dei tanti conflitti sanguinosi esistenti e di minacce e di incombenti progetti di guerra, le “Beatitudini” ci svelano e ci propongono un mondo “altro” di giustizia, di mitezza, di pace.
E questa interpellanza che viene dalle “Beatitudini” sollecita, senza possibilità di nascondimento, la responsabilità di tutti e di ciascuno, dei cristiani in particolare.
PREGARE E CREDERE


Tra quei “discepoli” ricordati all’inizio del Discorso (5,1) e in mezzo a quelle “folle stupite” richiamati alle fine (7, 28) ci siamo anche noi. Che cosa dire? Che cosa fare?


Quanto al “dire” non c’è che la preghiera.
Grazie, signore, perché hai parlato, così, sul monte,
circondato dal silenzio dei discepoli e dallo stupore delle folle.
Parlaci ancora, Parola del principio,
venuta dal silenzio del Padre
per dirci la buona notizia dell’amore.
Siamo in ascolto del tuo Vangelo
che ci svela il volto del Padre,
ricco di misericordia e grande nell’amore;
che ci annuncia il Regno come un inno alla gioia
e come un cammino di speranza nel tempo;
che ci comunica la forza dello Spirito
come consolazione, memoria e profezia.
Nei nostri cuori induriti,
essa – che è potenza di Dio –
farà entrare
la luce, l’amore, la pace
che tu hai portato.
Il tuo Spirito, primo dono ai credenti,
abitando nel cuore di ognuno,
ci condurrà alla verità tutta intera,
nella sinfonia gioiosa della tua Chiesa.
Signore, noi crediamo al tuo Vangelo.
Signore, noi abbiamo creduto all’amore.


Quanto al “fare” c’è sempre viva la lezione di Gesù.
“Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato” (Gv 6, 29). “Il giusto vivrà mediante la fede” (Rm 1, 17).
Che cosa fare? Credere!
Ma la fede secondo la Bibbia è in sé, originariamente, energia per dare forma alla materia e per cambiare il mondo, come scrive Norbert Lohfink “Dove essa è vivente, proprio per essere tale, far nascere un mondo nuovo. Quando nasce veramente dalla fede, la Chiesa ha proprio la forma del mondo: non serve ad un popolo, è un popolo. Non richiede la giustizia, ma vive la giustizia. Non lotta per la libertà, è luogo di libertà. Il volgersi ad un mondo già esistente, e non ad un mondo cresciuto dalla fede, non è il riferimento al mondo proprio della fede, ma soltanto un riferimento secondario – per quanto necessario ed inevitabile”.
E, allora, popolo delle “Beatitudini”, accogli la gioia che il tuo Signore ti dona e testimonia la tua “vita paradossale” tra le pieghe dell’esistenza e dentro il tessuto della storia.
Così i poveri, gli afflitti, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati a causa della giustizia non solo sapranno che il Regno è venuto, ma faranno esperienza di abitarvi, come a casa propria.


+ Lorenzo Chiarinelli
Vescovo di Viterbo


6 febbraio 2003