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Introduzione al Consiglio Episcopale Permanente – sessione 18-20 marzo 2024


pre al dialogo anziché una Chiesa che si chiude sentendosi assediata. Ascoltando le voci delle Diocesi si percepisce una debolezza che sembra investire questioni come il posto dei poveri all’interno della Chiesa e la valorizzazione del loro apporto, il dialogo con la cultura, i rapporti ecumenici e interreligiosi, l’interlocuzione con i mondi dell’economia, delle professioni, della politica, ma anche l’apporto della vita consacrata. In alcuni casi non sono nemmeno menzionati, in molti segnalano la difficoltà o la rarità di esperienze significative, o la frustrazione di un desiderio che non riesce a concretizzarsi quanto si vorrebbe, o anche la constatazione del fatto che “si vorrebbe, ma non si sa da che parte cominciare”. È tempo di tradurre l’ascolto in scelte di governo, chiare, lungimiranti, che permettano al nostro Cammino di avere un’incidenza effettiva e una corresponsabilità che permei la Chiesa ai vari livelli. Ne abbiamo l’opportunità. La sinodalità deve significare modi e forme concrete di vita comune, semplici, vere, esigenti e umanissime, personali e comunitarie, perché la Chiesa sia comunità, servizio, relazione, amore per la Parola e per i poveri, luogo di pace e di incontro. La sinodalità deve essere accompagnata dalla freschezza della fraternità, vissuta più che interpretata, offerta più che teorizzata, nella vita e non in laboratorio, capace di rivisitare e animare i nostri ambienti. Fraternità non virtuale, simbolica ma reale, con la fatica di riconoscerci nei fratelli così come essi sono, non come li immaginiamo noi. La nostra è una fraternità sempre segnata dal peccato, ma resa pura perché nella creta viene versato il tesoro del suo amore. Fraternità e sinodalità scorrono insieme.
Il dibattito non fa paura
Si parla e si scrive sulla Chiesa, quella in Italia, il suo futuro, le difficoltà, i problemi. Non nascondo che mi appassiono molto di più alle pagine scritte con tanto amore e dono di sé da ogni cristiano e da ogni comunità che cerca, come può, di essere luce in un mondo troppo buio. Un aspetto toccato, a volte con valutazioni opposte, è la diminuita rilevanza e consistenza della Chiesa. Per qualcuno è prova di scelte sbagliate, per altri effetto di scelte non compiute, per altri ancora constatazione angosciata di scelte da compiere. Il dibattito non ci fa paura. Anzi, abbiamo più volte invitato, anche nel Cammino sinodale, a interrogarsi in maniera larga e consapevole sulla missione della Chiesa oggi in Italia, di fronte al futuro complesso e incerto del nostro mondo. E a farlo nel dialogo, tra tanti cristiani, in maniera popolare come è avvenuto e non nelle polemiche digitali, sterili, polarizzate, di convenienza.
Non si può gestire il presente con una cultura del declino, quasi si trattasse solo di mettere insieme forze diminuite, di ridurre spazi e impegno o di agoniche chiamate al combattimento. Riandare nostalgicamente al passato non è fare storia, perché questa ha una robusta connessione con il senso del futuro. Guardare al passato è una tentazione facile con l’avanzare dell’età, forse facile in un Paese anziano come l’Italia o in una Chiesa dove non poche persone sono avanti negli anni. Sì, guardare continuamente con nostalgia al passato è espressione di una senilità ecclesiale, quella che San Giovanni XXIII descriveva in questi termini: «Voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa» (Discorso, Solenne apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962).
È la tentazione della nostalgia di una presunta età dell’oro, quella prima del Concilio per taluni, dopo il Vaticano II per altri. Ma nella Chiesa non c’è mai una mitica età dell’oro. I credenti non possono guardare al passato e lamentarsi del presente della Chiesa o di quello del Paese. La Chiesa viene da una lunga storia, per certi versi ne è segnata, ma – radicata nel presente – guarda al futuro con speranza. Nella lettera per il Giubileo del 2025, il Papa scrive: «Dobbiamo tenere accesa la fiaccola della speranza che ci è stata donata, e fare di tutto perché ognuno riacquisti la forza e la certezza di guardare al futuro con animo aperto, cuore fiducioso e mente lungimirante. Il prossimo Giubileo potrà favorire molto la ricomposizione di un clima di speranza e di fiducia, come segno di una rinnovata rinascita di cui tutti sentiamo l’urgenza. Per questo ho scelto il motto Pellegrini di speranza» (Lettera a S.E. Mons. Rino Fisichella per il Giubileo 2025, 11 febbraio 2022).
Bisogna ricomporre un clima di fiducia e di speranza nella nostra Chiesa, liberarsi da amarezze e renderle impegno, progetto, esperienza. La Chiesa può e deve essere, vivendo così, un segno di speranza nella società italiana. Questo clima di fiducia dipende da ogni credente e da noi, pastori, insieme, collegialmente, sinodalmente, in comunione piena con il primato di Pietro, da difendere e amare sempre.
Sono illuminanti le parole di Papa Benedetto nell’Enciclica Spe salvi: «La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova» (n. 2). Sì, chi ha speranza vive diversamente! Nella debolezza delle nostre risorse, noi vediamo una forza, come insegna l’apostolo Paolo. La nostra Chiesa in Italia non è invecchiata tanto da non poter generare! Del resto il tema della “sterilità guarita” accompagna non poche pagine della Bibbia. La nostra Chiesa genera e può generare figlie e figli credenti nel Signore. La nostra Chiesa non deve conservare i resti del passato o, al contrario, correre dietro la banalità del pensiero comune (un tempo lo avremmo chiamato conformismo!), ma generare figli e figlie di Dio, con l’umile servizio all’altro e con la costruzione di comunità, di relazione, di interessi comuni. Solo se pieni del suo amore, forti del suo Spirito, lo potremo fare! È quanto Papa Francesco ci ha voluto dire fin dall’inizio del Suo ministero, con l’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, quando ha ricordato che la Parola seminata con generosità cresce con forza: «La Chiesa deve accettare questa libertà inafferrabile della Parola, che è efficace a suo modo, e in forme molto diverse, tali da sfuggire spesso le nostre previsioni e rompere i nostri schemi» (n. 22).
Segnali che preoccupano e interrogano
Se così compreso, il nostro camminare insieme trova riflesso nella società. «La Chiesa “in uscita” – ha affermato Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium – è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano» (n. 24). Per questo, ci sentiamo pienamente coinvolti dalle sorti dei nostri territori.
In tal senso, suscita preoccupazione la tenuta del sistema Paese, in particolare di quelle aree che ormai da tempo fanno i conti con la crisi economica e sociale, con lo spopolamento e con la carenza di servizi. Non venga meno un quadro istituzionale che possa favorire uno sviluppo unitario, secondo i principi di solidarietà, sussidiarietà e coesione sociale. Su questo versante, la nostra attenzione è stata costante e resterà vigile, nella consapevolezza che «il Paese non crescerà, se non insieme», come peraltro già ricordato in passato (Cf. «La Chiesa italiana e le prospettive del Paese», 1981).
Nella stessa misura ci interpellano i segnali che giungono, in modo inedito, dal mondo giovanile. Non dimentichiamo che ha sofferto più di altre generazioni le conseguenze psicologiche e sociali della pandemia e mostra ora diversi sintomi di un disagio esistenziale segnato da un futuro avvolto nell’incertezza e da un presente avaro di punti di riferimento. La Chiesa in Italia avverte questa fatica dei ragazzi e dei giovani e desidera farsi carico della loro attesa di sentirsi ascoltati e capiti nelle istanze, nei sogni e nelle sofferenze che esprimono in forme non sempre lineari ma che vanno accolte come segnali per ritrovare il filo di un dialogo. La loro è una presenza in continuo cambiamento che esprime domande profonde e una ricerca di autenticità e di spiritualità cui occorre offrire una risposta credibile, non vittimista ma vicina, non precaria ma stabile, sapendo andare oltre incomprensioni, pregiudizi e schemi interpretativi non più attuali. Di tutto ciò parleremo in queste giornate, sollecitati da una recente ricerca dell’Istituto Toniolo.
Pensiamo, poi, agli anziani: negli ultimi anni la loro condizione è diventata una vera e propria emergenza. L’Italia è tra i Paesi più longevi al mondo e questo ha diverse conseguenze: l’avanzare dell’età è spesso inversamente proporzionale alla capacità di svolgere le attività quotidiane in autonomia, tanto da rendersi necessario un supporto esterno. Per gli anziani e le loro famiglie questo significa iniziare un iter faticoso e complesso per capire a quali servizi si può accedere e a chi ci si debba rivolgere per ricevere risposte a tanti interrogativi. La pandemia ha portato alla luce la situazione di scarsa assistenza e di solitudine in cui vivono milioni di anziani. Serve un nuovo welfare, che sostenga questa grande fascia della popolazione, soprattutto quella non autosufficiente. In quest’ottica, è necessario continuare a lavorare – società civile, enti ecclesiali e Istituzioni – per concretizzare la riforma delineata con la Legge Delega del marzo 2023 e a non tradire le attese di persone, famiglie e operatori.
Guardiamo, infine, con apprensione alla tematica del fine vita. Ogni sofferente, che sia in condizioni di cronicità o al termine della sua esistenza terrena, deve sempre essere accompagnato da cure, farmacologiche e di prossimità umana, che possano alleviare il suo dolore fisico e interiore. Le cure palliative, disciplinate da una buona legge ma ancora disattesa, devono essere incrementate e rese nella disponibilità di tutti senza alcuna discrezionalità di approccio su base regionale, perché rappresentano un modo concreto per assicurare dignità fino alla fine oltre che un’espressione alta di amore per il prossimo. La piena applicazione della legge sulle disposizioni anticipate di trattamento, inoltre, è ulteriore garanzia di dignità e di alleanza per proteggere la persona nella sua sofferenza e fragilità. 
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Giovanni XXIII, che si ispirava a Giuseppe, di cui portava il nome assieme a quello di Angelo, amava presentarsi come lui: «Ego sum Ioseph, frater vester», dice all’inizio del Suo pontificato. Per dire che il legame della fraternità era il più forte e che andava perseguito mettendo al centro quello che unisce. Parlando del Papa e della fraternità nel notissimo Discorso alla luna, aggiungeva: «La mia persona conta niente, è un fratello che parla a voi, diventato Padre per la volontà di Nostro Signore, ma tutt’insieme: paternità e fraternità e grazia di Dio, tutto, tutto! Continuiamo, dunque, a volerci bene, a volerci bene così, a volerci bene così, guardandoci così nell’incontro, cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte quello – se c’è – qualche cosa che ci può tenere un po’ in difficoltà. Niente: Fratres sumus!» (11 ottobre 1962).
Affidiamo le nostre riflessioni e il lavoro di questi giorni alla protezione della Vergine Maria e del suo sposo, Giuseppe, patrono della Chiesa universale, custode che ci insegna l’essenzialità del servizio, che avremo modo di festeggiare domani. Per loro intercessione invochiamo il dono della pace.