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Omelia in occasione della S. Messa nella Giornata mondiale del Malato celebrata nella Basilica di San Paolo Maggiore - Bologna, 11 febbraio 2024


La malattia non è qualcosa di straniero che entra e rovina la nostra vita destinata alla salute e alla forza. La fragilità ne fa parte, sempre: ci ricorda il limite che possiamo superare non da superuomini ma affrontandolo con amore. L’algoritmo dell’egoismo, efficientissimo e persuasivo, illude di bastare a se stessi, fa nutrire l’esibizione, l’affermazione di sé, le apparenze e condiziona la felicità alla forza fisica. In realtà finiamo per essere sempre alla ricerca di conferme e sicurezze. Non va bene quando si nasconde la fragilità come fosse una vergogna, perché è conseguenza di una vita che non ha valore se non è perfetta. La vita non lo è mai, perché perfetto è solo quello che è amato e amiamo la persona non perché non ha limiti.  Quando tutto è piegato all’egoismo l’amore diventa possesso, il prossimo oggetto. L’amore è servire, ricevere e regalare e Dio ci cambia amandoci non per farci come vuole o serve a Lui, ma perché solo così troviamo noi stessi e impariamo ad amare, la nostra vera volontà.
Ci ama fragili, peccatori come siamo. Libera dallo scandalo di essere deboli, dalla ricerca di essere grandi senza gli altri o sopra di loro, dal curare le apparenze senza curare il cuore. La fragilità la sperimentiamo sempre, e ci accompagnerà sempre. Si manifesta a volte improvvisa, impietosa, distruttiva. Altre volte sempre accompagna misteriosamente la vita; in altre è causata dalla cattiveria dell’uomo che invece di aiutare fa il male o ne diventa sciocco complice perché non fa ciò che potrebbe evitarlo. Basta pensare alle conseguenze delle omissioni. Noi abbiamo la tentazione – comprensibile – di cercare una causa al male. In alcuni casi la responsabilità è evidente, come gli uomini che uccidono o fanno il proprio interesse a scapito di quello del prossimo o di quello di tutti.
Il male è un mistero e noi non avremo mai tutte le risposte all’angosciosa domanda del perché. Abbiamo però la risposta che libera dal male: l’amore. Dio è un mistero di amore che si rivela, non resta a distanza, stabilisce una relazione, non si allontana proteggendosi, ma diventa luce che illumina le tenebre. Gesù risponde alla domanda “Dove sta Dio?”, “Perché non mi aiuta?”, amandoci fino alla fine perché non sia più la fine. L’amore non finisce. Questo lo capiamo tutti anche se non tutti vedono nell’amore il volto di Gesù e riconoscono in esso la sua presenza. Gesù non è indifferente, si lascia avvicinare anche se era vietato dalla legge. E quante leggi isolano, pensiamo a quanti muri ingannano perché il male sta in tutte e due le parti del muro, lo portiamo nel nostro cuore! Gesù non si ritrae proteggendosi e rimproverando il lebbroso perché si era avvicinato! Anzi lo tocca annullando ogni distanza, perché l’amore non è virtuale ma concreto. Non ama solo a parole ma con i fatti.
E la compassione è fare fisicamente propria la sofferenza del prossimo: il tuo dolore è il mio dolore, i tuoi occhi sono i miei. Non dimentichiamo che il lebbroso lo è diventato! Forse un giorno vide il suo corpo trasformarsi, una macchiolina, la carne trasformarsi e tradire.  Forse avrà ascoltato il medico dire che c’era qualcosa che non andava e poi la situazione è precipitata. Vuol vedere, sentire, capire la volontà di Gesù. E Gesù la sua volontà ce la affida perché anche noi impariamo a farla. Quella che chiediamo nel Padre Nostro. “Liberami dal dolore, fammi vedere che esisto, che non ti faccio pietà ma che mi ami, che mi tratti con attenzione e riguardo, che mi tiri fuori da questo inferno in cui sono precipitato!”. Ogni uomo che soffre chiede di capire il mondo della sua sofferenza che è fisica e nell’anima. “Lo voglio, sii guarito”. “Voglio che nessuno sia lasciato solo”, perché non è mai buono che l’uomo sia solo. Fa male.
Gesù si contagia con la nostra debolezza e la guarisce con il suo amore. Ci chiediamo: qual è la volontà degli uomini? È troppo incerta, mediocre, distratta, condizionata dagli interessi e dalle convenienze, spesso anche banalmente individualistiche per cui, in realtà, l’uomo risponde: “Lo voglio se mi conviene, se mi interessa, se ci guadagno io, se non mi costa nulla, se non mi fa soffrire perché io debbo stare bene”.  Se nessuno di noi per Dio è mai il suo peccato, nessuno è anche mai solo la sua malattia. È l’amore che Gesù ci mostra che ci libera dalla voglia di scappare dalla debolezza, perché è proprio questa che, con le ferite conseguenti, diventa luogo dove si rivela un amore ancora più grande del male. Proprio dove e quando siamo più fragili capiamo qual è la forza che rende bella la nostra vita. Non vuol dire che tutto è risolto ma che in tutto c’è la risposta e questo guarisce la mia ferita, fa superare il mio limite. Non vergogniamoci e non disprezziamo di essere deboli e di saperne parlare perché, invece, è la grandezza di ognuno.
Ma questa domanda deve incontrarsi con l’amore, che significa tenerezza, gentilezza, compagnia, pazienza, fedeltà, perdono, attesa. Ecco perché il nostro limite diventa una forza e la ferita opportunità di luce. Tutte le persone, anche quelle più segnate da limiti, hanno un immenso valore. Quante volte le persone giudicate insignificanti o inferiori hanno, invece, saputo diventare punti di riferimento o addirittura raggiungere un sorprendente successo? Queste dimostrano che nessuna vita va mai discriminata, violentata o eliminata in ragione di qualsivoglia considerazione. Quante volte il capezzale di malati gravi diviene sorgente di consolazione per chi sta bene nel corpo, ma è disperato interiormente? Quanti disabili portano gioia nelle famiglie e nelle comunità, dove non “basta la salute” per essere felici?
Quanto spesso il bambino non voluto fa della propria vita una benedizione per sé e per gli altri? Un mondo violento e individualista si rivela disumano, lascia soli perché non possiamo contare su nessuno, fa qualcosa solo se conviene. È un mondo che non fa tesoro della sofferenza che pure lo ha investito, che non impara a combattere il male e, così, lo ripete. La parola e il gesto di Gesù (Lui sì mette in pratica la Parola!) rendono evidente la sua volontà che, a volte, capiamo nel gesto anche se non conosciamo la parola. Così la nostra fragile vita è amata, importante, amabile.
Questa è la dignità che cerchiamo e di cui tutti abbiamo diritto, e che l’amore, cioè Dio, ci insegna. Gesù condivide tutto, il contrario dell’indifferenza. La vecchiaia in quanto tale, qualche volta, diventa essa stessa malattia perché la fragilità diviene causa di isolamento. Per questo dobbiamo favorire al massimo l’assistenza a casa, la rete di relazioni, evitando l’anonimato che disorienta e deprime. Nella malattia c’è una grande richiesta di guarigione, di non soffrire e di essere amato per come sono, cioè curato, avere la sicurezza che sempre qualcuno si prenderà cura di me. Questo non dipende solo da convinzioni religiose ma dall’umanesimo. “Il rispetto della vita non va ridotto a una questione confessionale, poiché una civiltà autenticamente umana esige che si guardi ad ogni vita con rispetto”.
Quello che è decisivo è togliere il dolore e, allo stesso tempo, garantire un livello di cura alto, che si prenda sempre cura della tua condizione ed eviti i due rischi: quello di un’ostinazione irragionevole nelle cure (l’accanimento, le cure sproporzionate che producono inutili sofferenze), o la desistenza (lasciare perdere, fare mancare terapie o condizionarle alla convenienza economica). Per tutti occorre sia sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, compresa la sedazione palliativa sempre in associazione con la terapia del dolore.
Gesù vuole che nessuno soffra. Non ama la sofferenza, non scappa e non risolve la sofferenza togliendo la vita ma togliendo il dolore. Perché io sia davvero libero di decidere debbo poter avere queste condizioni. Come possiamo gioire del diritto alla morte? Gioiremo solo per il diritto alla vita, quando questa viene protetta dalla sofferenza da cure adeguate che diano dignità fino alla fine, perché la cura è il vero diritto. “Non è bene che l’uomo sia solo. Curare il malato curando le relazioni” è il titolo di questa Giornata del malato, che lo è tutti i giorni e chiede un amore continuo e fedele, attento e rispettoso. Non si vive da isole e la sofferenza imprigionata dalla solitudine è doppiamente insopportabile. Se è vero che quando si muore si muore soli, perché sono io che muoio, è molto diverso se sono circondato da amore.
Durante il Covid abbiamo visto quanta disperazione causava l’isolamento e la lontananza dai propri cari! Oggi dobbiamo ammettere che il “tempo dell’anzianità e della malattia è spesso vissuto nella solitudine e, talvolta, addirittura nell’abbandono”. L’individualismo ha reso insopportabile la fragilità e ha aumentato la concentrazione su di sé, perché esalta “il rendimento a tutti i costi e coltiva il mito dell’efficienza, indifferente e perfino spietata quando le persone non hanno più le forze necessarie per stare al passo”.
Non si possono ridurre le cure alle sole prestazioni sanitarie, senza che esse siano saggiamente accompagnate da una “alleanza terapeutica” tra medico, paziente e familiare. Non accettiamo per nessuno, tanto più per chi è nella malattia, che non siano curate la relazione di amore con Dio, con gli altri – familiari, amici, operatori sanitari – col creato, con se stessi. Non dobbiamo avere “vergogna del desiderio di vicinanza e di tenerezza!”. L’indifferenza degli altri fa sentire un peso e certifica la mia inutilità, rende quasi inevitabile il ricorso alla morte, perché non ha più senso la vita. Il senso non è detto che lo trovi io, perché a volte lo posso smarrire, ma se gli altri me lo danno, amandomi e proteggendomi, sarà molto più difficile pensare che non c’è altra soluzione che la morte. Quali sono le conseguenze dell’indifferenza, della mancanza di relazioni o di cure adeguate? La vita non è mai inutile, anzi, “la condizione dei malati invita tutti a frenare i ritmi esasperati in cui siamo immersi e a ritrovare noi stessi”. Tutti possiamo curare le ferite della solitudine e dell’isolamento. Dipende anche da ognuno di noi, dalla nostra “compassione” che non è pietismo ma fare nostra la sofferenza dell’altro. “Lo voglio. Sii guarito”.
Con Maria, Madre che non può rassegnarsi e che dona importanza e bellezza a tutti i passaggi della nostra vita, ti ringraziamo Signore perché per Te non saremo mai la nostra lebbra, perché trovi in noi quella bellezza che solo l’amore riconosce e difende. Perché Signore la tua volontà è quella di rivestire il fragilissimo fiore della nostra vita e questo le dà bellezza, dignità, e solo questo non finisce.