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Introduzione al Consiglio Episcopale Permanente – Gorizia, sessione 22-24 settembre 2025


ta paura, tanti pregiudizi, grandi muri anche invisibili ci sono tra noi e tra i nostri popoli, come conseguenze di una storia ferita. Il male si trasmette da una generazione all’altra, da una comunità all’altra. Ma anche il bene si trasmette e sa essere più forte! Per praticarlo, per rimetterlo in circolo, dobbiamo diventare esperti di riconciliazione». Ecco il nostro impegno, qui e ovunque: «Riparare ciò che è infranto, trattare con delicatezza le memorie che sanguinano, avvicinarci gli uni agli altri con pazienza, immedesimarci nella storia e nel dolore altrui, riconoscere che abbiamo gli stessi sogni, le stesse speranze. Non esistono nemici: esistono solo fratelli e sorelle». Significa promuovere la cultura del dialogo autentico: non solo parlare, ma ascoltare; non solo difendere la propria posizione, ma essere disposti a lasciarsi trasformare dall’incontro con l’altro.
Altrimenti il rischio è rimanere intrappolati nella polarizzazione, che non solo fa perdere l’opportunità di vie nuove, ma alimenta ulteriore conflitto: radicalizzazione, chiusura, violenza verbale o fisica, sospensione dell’altro dalla comunità, innalzamento delle barriere emotive e cognitive. La polarizzazione si manifesta quando opinioni, identità e appartenenze diventano muri invalicabili: “noi” contro “loro”, amici contro nemici, verità contro menzogna. Il rischio mortale è che ogni interlocutore venga spogliato della sua umanità. Qui inizia l’odio, che poi rende vittime e artefici, allo stesso tempo, se non si combatte per tutti e in ogni situazione. Assistiamo spesso ad un pericoloso scontro continuo e intransigente, dove diventa impossibile immaginare vie alternative: ogni soluzione si irrigidisce, ogni compromesso diventa tradimento. Rimanere intrappolati in questa logica vuol dire rinunciare alla possibilità di una pace creativa, di innovazione morale, di riconoscimento dell’umanità che pulsa nell’altro. Eppure è proprio fuori da quella logica che può nascere qualcosa di nuovo. Quando altre categorie – la compassione, la cura, la vicinanza – vengono rimesse al centro, cessa la fatalità della divisione. Un semplice gesto umano può spezzare la spirale: il perdono, l’abbraccio, il riconoscimento del dolore altrui.
Per evitare questi rischi serve un’educazione che valorizzi la pluralità, il riconoscimento dell’altro, il dialogo e la buona fede, anche quando ciò può apparire ingenuo. Ogni parrocchia e comunità sia una casa di pace e di non violenza che promuova e raccolga le tante e importanti istanze che salgono dalla società civile. Per i cristiani, l’impegno alla pace non è un’opzione morale fra tante, ma una dimensione costitutiva del Vangelo. Gesù ci ricorda che basta dire pazzo a nostro fratello per essere omicidi! Egli invita ad amare i nemici. Questo impegno si traduce nel promuovere riconciliazione, giustizia, cura dei più vulnerabili, rifiuto di ogni forma di violenza. Essere cristiani significa anche denunciare le guerre e le ingiustizie, sostenere la diplomazia, offrire accoglienza a chi fugge da conflitti. E significa pure lavorare perché in tutto il nostro Paese e in tutte le comunità locali si costruisca un dialogo autentico, una reciprocità che superi le paure radicate. Significa testimoniare che la pace non è assenza di conflitto, ma presenza viva di legami di solidarietà, di cura, di ascolto profondo. Educare alla pace oggi significa formare persone che sappiano uscire dai muri della polarizzazione, che comprendano che il cristianesimo chiede fedeltà al comandamento dell’amore. Persone che riconoscano la pace non come diritto garantito ma come opera quotidiana, fragile, spesso silenziosa, eppure autentica. Se oggi il nostro mondo sembra preferire l’eco dei tamburi di guerra al sussurro della riconciliazione, educare alla pace è un atto di resistenza rivoluzionaria. È piantare semi di umanità in terre apparentemente sterili. È scommettere che un abbraccio possa valere più di mille discorsi, che una mano tesa possa aprire più porte di ogni negoziato. È credere – contro ogni evidenza – che in ogni cuore umano, anche il più indurito, possa ancora risuonare l’eco di quella pace che il mondo non può dare, ma che proprio per questo il mondo non potrà mai togliere. Solo così, forse, in una società lacerata, può rinascere una speranza che non sia più palliativo, ma trasformazione.
La Chiesa, fedele al Vangelo di Cristo, aiuta una rinnovata passione per la vita, che difende dal suo inizio alla fine, trasmette la gioia di donarla, la bellezza della famiglia, il senso di essere comunità, rappresenta un noi attraente e umano. Credo opportuno riaffermare quanto dichiarato in passato, ovvero l’auspicio che «si giunga, a livello nazionale, a interventi che tutelino nel miglior modo possibile la vita, favoriscano l’accompagnamento e la cura nella malattia, sostengano le famiglie nelle situazioni di sofferenza. Ribadiamo, peraltro, che la legge sulle cure palliative non ha trovato ancora completa attuazione: queste devono essere garantite a tutti, in modo efficace e uniforme in ogni Regione, perché rappresentano un modo concreto per alleviare la sofferenza e per assicurare dignità fino alla fine, oltre che un’espressione alta di amore per il prossimo. Sulla vita non ci possono essere polarizzazioni o giochi al ribasso. La dignità non finisce con la malattia o quando viene meno l’efficienza. Non si tratta di accanimento, ma di non smarrire l’umanità» (Nota della Presidenza CEI, 19 febbraio 2025).
L’esperienza del Giubileo dei giovani, che si è svolto a Tor Vergata poco più di un mese fa (Roma, 28 luglio – 3 agosto 2025) è stata l’ennesima prova – se ve ne fosse ancora bisogno – della vitalità dei giovani e del loro desiderio di spiritualità, di interiorità, di comunione e di Chiesa. Se le analisi spesso puntano sulla diminuzione della partecipazione alle celebrazioni, delle vocazioni presbiterali e religiose o dei matrimoni religiosi, dobbiamo anche riconoscere che la sete di esperienze di fede nei giovani non si è estinta. Semmai si tratta da parte nostra di intercettare questi desideri, di accoglierli e di farli incontrare con l’annuncio evangelico. Le recenti canonizzazioni di San Piergiorgio Frassati e di Carlo Acutis, così partecipate dai fedeli, hanno mostrato come esista questa domanda di futuro, di una vita carica di senso e di entusiasmo. Queste due figure di giovani, vissuti in tempi differenti, ci invitano a rivolgere, con i giovani, lo sguardo verso il futuro con speranza. Carlo, così contemporaneo a noi e santo dell’Eucarestia, diceva: «amare il domani e dare il meglio del nostro frutto». Di Piergiorgio, Papa Leone ha detto: «Per lui la fede non è stata una devozione privata: spinto dalla forza del Vangelo e dall’appartenenza alle associazioni ecclesiali, si è impegnato generosamente nella società, ha dato il suo contributo alla vita politica, si è speso con ardore al servizio dei poveri». Le loro sono storie diverse, ma entrambi sono vissute in una comunità di fede: le associazioni ecclesiali per Frassati, per Acutis la famiglia e la parrocchia. Perché c’è bisogno di una rinascita della Chiesa come comunità, che generi santità e speranza per il futuro; comunità che non siano aziende, ma famiglia di coloro che “ascoltano e mettono in pratica la Parola”, annunciando la fede nel Cristo risorto e nella vita eterna.
Certo, noi vediamo i problemi dell’ora presente, quelli delle nostre Chiese, le nostre fragilità. Non indulgiamo, però, in un facile e triste atteggiamento ipercritico, sovente malevolo e distruttivo, che patteggia col l’idolatria indiscussa dell’individualismo, che si “sporca” poco le mani con la costruzione di comunità che richiedono gratuità, impegno e obbedienza. In occasione del Giubileo dei giovani, Papa Leone ha poi detto: «Cari giovani, vogliatevi bene tra di voi! Volersi bene in Cristo. Saper vedere Gesù negli altri. L’amicizia può veramente cambiare il mondo. L’amicizia è una strada verso la pace». A quei giovani venuti da tanti paesi, alcuni dei quali in guerra tra loro, il Papa ha rilanciato una sfida evangelica. Non si tratta di un pio desiderio, ma di una attualizzazione della buona novella. Come si legge nella Lettera agli Efesini, che mediteremo domani nella veglia: «Cristo è la nostra pace: di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne» (Ef 2,14). Mi piacerebbe che le nostre comunità trovassero l’occasione per verificare il loro “tasso di amicizia”, per essere luoghi dove imparare a volersi bene, vivere relazioni con uno stile improntato all’onestà, al disinteresse, alla valorizzazione e al rispetto dell’altro. La grazia che chiediamo in questi ultimi mesi del Giubileo, ma che ci sembra già affiorare dal cammino dei mesi passati, è che la speranza rifiorisca nella Chiesa, che tocchi e apra il cuore, che faccia di noi testimoni della speranza. Credo che, dopo questo Giubileo, con la grazia di questo Anno, siamo chiamati a guardare con uno sguardo missionario il futuro del nostro Paese. In questa società disarticolata c’è da ritessere la fraternità, secondo quelle indicazioni che papa Francesco ci ha offerto nella Fratelli tutti. La Chiesa, radunata attorno all’altare e alla Parola di Dio, è creatrice di fraternità: genera comunità.
Un’ulteriore declinazione di questa “amicizia ecclesiale”, di cui abbiamo goduto in questi anni e che tanto è cresciuta, mi pare di poterla cogliere negli ultimi passi del Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia. Dalla fase dell’ascolto nel 2021 ad oggi abbiamo tessuto trame di amicizia, fatta di confronto leale anche tra opinioni diverse. Come è noto, la seconda Assemblea sinodale (Roma, 31 marzo – 3 aprile 2025) si è chiusa con una mozione unanime, che chiedeva la riscrittura del testo da votare. Da allora tutte le persone coinvolte (delegati e Comitato) hanno lavorato alacremente e con dedizione per riformulare il testo che abbiamo adesso tra le mani. Il prossimo 25 ottobre, questo testo sarà votato dalla terza Assemblea sinodale, per essere poi presentato a noi Vescovi riuniti nell’Assemblea generale di novembre (Assisi, 17 – 20 novembre 2025).
Mi preme rammentare il gesto di grande responsabilità ecclesiale con cui il Consiglio Permanente, riunitosi durante la seconda Assemblea sinodale, ha deciso di rimandare l’Assemblea generale da maggio a novembre 2025. Di fronte alle fatiche incontrate nella seconda Assemblea, abbiamo voluto dare e prenderci tempo per far maturare in modo opportuno un testo che fosse davvero espressione fedele del percorso compiuto. D’altra parte, se il Cammino Sinodale finirà verosimilmente tra un mese, come Vescovi ci attende un impegno delicato che va ben oltre, e riguarda i prossimi anni delle nostre Chiese: accogliere, discernere e concretizzare quanto ci verrà consegnato dall’Assemblea sinodale. Avremo davanti a noi la sfida di individuare le priorità e conseguentemente gli strumenti adatti per tradurre queste priorità, affinché le nostre Chiese diventino sempre più missionarie e comunionali. La sinodalità infatti non finisce, ma deve diventare uno stile e una serie di scelte operative, coinvolgenti, fraterne e profetiche. La sinodalità ha bisogno di tutti, di una collegialità partecipe e lungimirante e di ascoltare sempre il primato di colui che presiede nella comunione.
Nell’omelia del Santo Padre per la commemorazione ecumenica dei nuovi martiri nella Basilica di San Paolo, per l’Esaltazione della Croce (si vede quanti cristiani siano caduti, negli ultimi venticinque anni, perché non cedono a un destino di male, di violenza, di tenebre, mentre offrono la loro vita), Leone abbia chiuso così: «un bambino pakistano, Abish Masih, ucciso in un attentato contro la Chiesa cattolica, aveva scritto sul proprio quaderno: ‘Making the world a better place’, ‘rendere il mondo un posto migliore’. Il sogno di questo bambino (e di tutti i bambini la cui vita va sempre difesa, ndr), ci sproni a testimoniare con coraggio la nostra fede, per essere insieme lievito di un’umanità pacifica e fraterna». Anche in mezzo alle tempeste, di fronte a situazioni apparentemente insolubili, noi crediamo come quel bambino pakistano che si può rendere il mondo migliore con fede e con amore. Non restano, con la loro ingenuità, solo i bambini a sognare e a scrivere sul loro quaderno, ma noi tutti, con fede, non rinunciamo a questo sogno. Vogliamo scriverlo sul quaderno della vita! Il mondo può cambiare in profondità e divenire migliore.
Carissimi Confratelli, da questo osservatorio del tutto unico e privilegiato che è Gorizia, proviamo a guardare le sfide ecclesiali e sociali del nostro tempo come farebbe Gesù. Il Vangelo di Giovanni racconta che ancora a distanza di mesi dalla mietitura invitava già i suoi discepoli con queste parole: «Alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano» (Gv 4,35). Anche per noi è tempo di alzare lo sguardo con speranza. C’è una gioia che accomuna chi semina e chi miete (cfr. Gv 4,36). Forse a noi spetta il compito di seminare e ad altri di mietere. Quello che è essenziale adesso è non ripiegarsi su sé stessi, ma piuttosto cogliere e valorizzare i piccoli segni che preludono a qualcosa di grande, essere portatori di speranza come i giovani che sanno costruire il loro futuro, diventare costruttori umili e tenaci di una pace giusta e di tanta fraternità tra le persone.