Alberto Burri, oggi é considerato, insieme a Lucio Fontana (quello dei tagli), uno degli artisti italiani più quotati in assoluto, ma furono motivo di scandalo nel dopoguerra le sue opere informali, cioè senza soggetto, e materiche, costruite cioè senza la stesura del colore. Fin dai suoi primi quadri, infatti, Burri si serviva di materiali repellenti (muffe) o già usati (sacchi, tele incatramate) incollandoli e facendo sulla tela delle cuciture, che la rendevano come una pelle ferita e suturata. In realtà dietro questo gesto artistico stava la sua tragica esperienza di medico di guerra, fatto prigioniero a Tunisi e deportato dagli americani nel Texas. L’impressione della guerra come esplosione di un male più nascosto, annidato nel cuore dell'uomo, rimane una cifra essenziale dell’arte di Burri. Egli, infatti, già nel 1946, smise di fare il medico per poter tradurre artisticamente l’assurdità della violenza provocata dagli esseri umani. Dolore e strazio vengono ad un certo punto rappresentati con delle plastiche di cui l’artista provoca col fuoco la combustione, lacerandole e presentandole come carne straziata.
In questa domenica dopo Natale, in cui la Chiesa ci ripropone la lettura del prologo di Giovanni, conviene ricordare la scelta di Dio di non ignorare la sofferenza umana, ma di assumerla facendola diventare sua carne. Quando leggiamo «Il Verbo si fece carne», quella carne (sarx) é il nostro peccato; é l’inclinazione perversa che conduce al male anche quando si vorrebbe il bene, come dice Paolo: «Nelle mie membra vedo un'altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato (Rm 7,23); é il dolore innocente il cui grido si leva straziante da ogni generazione a causa della violenza e dell’ingiustizia.
La plastica rossa, bruciata, di Alberto Burri, nell’opera Rosso plastica del 1964, sembra carne martoriata e sofferente, straziata da un fuoco non casuale, ma generato da una libertà (in questo caso dell’artista, come monito; ma nella storia, invece, provocato dalla libertà dei malvagi).
Il Verbo di Dio si é fatto questa carne ed ha urlato sulla croce tutto il suo dolore, grido universale di ogni luogo e di ogni tempo. «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21).
Nella carne-plastica di Burri il fuoco ha prodotto un vuoto che sembra la smorfia di un urlo (di questo urlo angosciato ed esistenziale il Novecento é pieno: da Munch a Bacon).
Per il cristiano ogni urlo umano é contenuto nel grido di Gesù in croce, che non rimane senza senso, ma trova la sua risposta salvifica nella risurrezione. Perciò quel vuoto é anche squarcio e ferita del costato di Cristo da cui, alla trafittura della lancia, uscirono «sangue ed acqua» (Gv 19,34). Sul Golgota infatti si é compiuta una diversa e dolorosa trasfigurazione della carne Cristo. Se sul Tabor dalla carne di Cristo traspariva la sua luce divina, sul Golgota, invece, traspare la divina tenebra della sua ferita, da cui il sangue e l’acqua (i sacramenti) fanno scaturire per l’umanità una nuova sorgente di salvezza.