Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nella misericordia - Domeniche - 13 dicembre - III domenica di Avvento 

13 dicembre   versione testuale

III domenica


Alcuni vanno a chiedere a Giovanni il Battista: «Che cosa dobbiamo fare?».
È una domanda etica, che riguarda i comportamenti da assumere nella vita. A questa domanda l’umanità ha dato una risposta che precede sicuramente la venuta di Cristo. Si tratta della regola aurea: fai agli altri quello che vuoi sia fatto a te, non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te. L’applicazione di questa regola che anche Gesù ha formulato con il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso” é l’anima dei dieci comandamenti; essi semplicemente la declinano nei rapporti degli uomini con Dio e degli uomini tra di loro secondo il criterio della giustizia distributiva; la giustizia che invoca Giovanni : «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha» (Lc 3,11).
Ma Gesù non é venuto per insegnare una regola che gli uomini già conoscono; certo! Ha esortato a prenderla sul serio. Tuttavia quando egli spinge questa regola oltre se stessa, creando un comandamento che prima non esisteva: «amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» (Lc 6,27), la domanda che ci sta dietro non é più: «Che cosa dobbiamo fare». Infatti come é possibile mettere in gioco la propria vita spingendola fino all’amore verso i nemici, come si può accettare di metterla in pericolo pur di testimoniarlo? Solo nella serena fiducia che questa vita sia in buone mani, e che, oltre la morte, essa si prolunghi nell’incontro con Dio. Allora la domanda soggiacente diventa un’altra: «Chi siamo, verso dove andiamo, cosa troviamo oltre la breve corsa della nostra vita?». Gesù con la sua morte e la sua risurrezione ha risposto a questa domanda. La Sacra Scrittura conosce un termine per indicare il momento in cui questa risposta viene accolta dal credente; si chiama kairòs, tempo favorevole, tempo di salvezza, ingresso nel tempo di Dio.
Quando questa risposta non viene trovata rimangono due possibilità: o si gioca d’azzardo con la vita in tutte le forme possibili della disperazione (vizi, dipendenze, violenza, autolesionismo, sport estremi) o, nel migliore dei casi, si accetta di vivere con consapevolezza il tempo inteso come chronos, il dio della mitologia greca che divora i suoi figli. Dentro questo tempo inesorabile l’uomo sente di «vivere per la morte» (Heidegger) e dentro questo spazio finito si sforza di esprimere la propria dignità etica.
«Il tempo, come lo viviamo e come noi lo abbiamo concepito, incarna la nostra progressiva scomparsa. Siamo allo stesso tempo vivi e di fronte alla morte», così scriveva nel 1987 l’artista franco-polacco Roman Opalka (riportato dal New York Times del 10 agosto 2011). Erano già passati più di vent’anni da quando Opalka aveva deciso di guardare in faccia, ogni giorno, l’incombere della morte, nello scorrere inesorabile del tempo. Il suo progetto artistico Opalka 1965/1 — ∞, lo ha visto ogni giorno scrivere su una tela la data di esso e su una lastra fotografare il suo volto. Così, giorno dopo giorno, ha, per così dire, sfidato la morte stessa, appropriandosi dell’unica libertà possibile: il flash della sua ultima sera. Eppure, ora che questo artista é morto (il 6 agosto 2011, giorno della Trasfigurazione), un dubbio ci viene. Forse dinanzi all’assurdità della morte una risposta l’ha cercata, o forse l’ha vissuta come un desiderio potente di vedere il giorno successivo al suo ultimo giorno; in quell’oltre infatti sembra collocata la fine del suo progetto artistico e non prima. Forse da artista ha raccolto il desiderio, ancora non sopito nel cuore dell’uomo contemporaneo, che quella sfida possa confluire nell’epilogo inatteso di un piccolo segno, ∞: quello di un tempo infinito.