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Il contenuto   versione testuale
Lo spirito della liturgia. La vita religiosa, ovvero la spiritualità di una comunità va regolata da leggi che diano una forma universalmente chiara ad atteggiamenti e modi espressivi che altrimenti subirebbero influssi eccessivamente condizionanti dalle emozioni del momento, dalle culture diverse secondo i luoghi e cangianti con le evoluzioni impresse dall'incedere della storia. In tale panorama, la liturgia dà una forma ordinata e oggettiva alla vita religiosa dei singoli e delle comunità, entro la più vasta comunità cattolica: senza con questo peraltro sopprimere le varie forme di devozione popolare: “Mettendosi a confronto con la liturgia, ogni altra forma di pietà può sempre riconoscere nel modo più facile le proprie manchevolezze e rimettersi così sicuramente sulla via ordinaria”, che mira ad includere “l'intero contenuto dell'insegnamento divino”. D'altro canto tale disciplina, nel momento in cui si pone come riferimento universale, deve anche accordarsi alle sensibilità particolari, e rendersi accessibile alle capacità di comprensione dei singoli. Di qui l'aspetto “drammatico” (cioè teatrale), volto a facilitare la comunicazione, così che si possano “riguadagnare alla vita ecclesiale gli adulti” i quali esigono una “attiva partecipazione”, tra l'altro attraverso la mediazione della religione attraverso le forme della cultura. “Se si trascurano i valori culturali della vita di preghiera, ecco il pensiero impoverirsi, la lingua imbarbarire, le immagini irrigidirsi, i sentimenti farsi grossolani e monotoni...”. Perché “l'uomo deve ritrovare nella preghiera tutta la sua vita”.
Ora, se il singolo è portato ad abbracciare con le forme espressive liturgiche la totalità della comunità attraverso l'esercizio dell'umiltà, esso è anche portato a intrecciare rapporti con gli altri singoli attraverso la carità, grazie alla quale accetta la diversità nel comune orientamento al Signore. Così si manifesta la comunità liturgica, la quale può sussistere grazie allo stile della liturgia, in quanto questo opera la mediazione tra ciò che è individuale e ciò che è universale; tra ciò che è attuale e ciò che è atemporale, poiché ritrova l'essenza. “Nell'ambito della liturgia la forma religiosa di espressione, si tratti di parole o di gesti, di colori e oggetti, è sempre spogliata, fino a una certa misura, della sua particolarità individuale, intensificata, composta, elevata a una significazione universale”.
Non essendo puro spirito, l'essere umano si esprime attraverso manifestazioni materiali. E tra le due polarità, spirituale e materiale, l'elemento di dialogo (“l'interfaccia” si direbbe nel linguaggio computeristico) è costituito dal simbolo, che “sorge quando qualcosa d'interiore, di spirituale, trova la sua espressione nell'esteriore, nel corporeo”. Il simbolo “possiede contemporaneamente una validità generale non di rado assai ampia, a tutti comprensibile e piena di significato ma insieme, come l'opera d'arte, deve innalzarsi al di sopra del puramente individuale”. Ed ecco il dipanarsi dei tanti gesti, movimenti, atteggiamenti...
Il dispiegarsi di simboli nell'azione liturgica ordinata con levitica minuziosità può generare in alcuni la domanda sullo scopo di di tanta meticolosità. Ma in realtà, così come la ricerca scientifica che è motivata dal puro desiderio di conoscenza e non irregimentata nel pragmatismo, e così come l'espressione artistica in sé libera come un gioco creativo, anche la liturgia “non ha 'scopo' o almeno non può essere ridotta sotto l'angolo visuale della sola finalità pratica. Essa non è un mezzo impiegato per raggiungere un determinato effetto, bensì... fine a sé”. “Non una finalità, bensì un senso: che l'anima stia dinanzi a Dio, si effonda dinanzi a Lui, si inserisca nella Sua vita, nel mondo santo delle realtà, verità, misteri, segni divini e così si assicuri la vera e reale vita sua propria”. Di qui che l'educazione liturgica porti a spogliarsi del modo d'essere “adulto”, permeato di finalità e di motivi utilitari, per ritornare alla semplicità essenziale e “trovare parole e pensieri e gesti per il santo gioco, senza domandarsi a ogni momento: a che scopo e perché?”.
Ma se l'arte cerca di rappresentare nelle opere suggestioni di valore poetico, la liturgia in un certo senso diventa essa stessa opera d'arte. E così essa contiene i valori di verità e bellezza: in questo ordine di importanza, perché la verità precede la bellezza e questa non può sussistere se non v'è prima quella, poiché “verità non significa arida precisione di concetti, bensì adeguato inserimento nell'essere, interiore validità vitale”. In questo si manifesta la serietà della liturgia, che mai deve correre il rischio di invertire la gerarchia dei termini “verità” e “bellezza”, preponendo il secondo al primo e così scivolando dal “quid dell'oggetto considerato al quomodo”, cosa che avviene là dove lo splendore, il fasto, la “forma” prenda il sopravvento sull'essenza. Perché l'anima della bellezza è la verità, e “neppure l'artista nell'atto di creare può cercar la bellezza come tale, quando almeno sotto il nome di bellezza intenda qualcosa di più profondo che una certa grazia delle forme esteriori o un orpello piacevole”. La liturgia non è volta a rivelare la bellezza, bensì a redimere l'umanità dal peccato.
Ne consegue anche una chiara distinzione e una netta distanza rispetto al mondo dell'attività volta allo studio o al lavoro. Poiché la liturgia richiede un distacco dalla vita della concretezza, a differenza dalle forme devozionali che tendono a mantenere un contatto con i problemi della vita corrente. Al proposito, la liturgia vive nel primato del Lógos rispetto all'Éthos, proprio come nel medio evo si attribuiva maggiore importanza alla vita contemplativa rispetto alla vita attiva. Quando nell'età moderna prende il sopravvento la vita attiva, che trova le sue espressioni filosofiche nella volontà di potenza e nel pragmatismo, la gerarchia si inverte e l'Éthos assume preminenza sul  Lógos. Ecco che nella liturgia si ristabilisce l'ordine che riconosce preminenza all'essere rispetto all'agire o al divenire. “Il dogma, il fatto della verità incondizionata che sussiste indipendentemente da ogni giustificazione d'utilizzabilità pratica... è davvero qualcosa di ineffabilmente grande”. Solo nella liturgia si ritrova la calma profonda che deriva dal riconoscere la primazia del Lógos rispetto al dispiegarsi delle azioni quotidiane. E se sembra che la liturgia non si preoccupi degli affanni di tutti i giorni, ovvero della condizione morale degli esseri umani, essa in realtà “sa assai bene provvedervi: chi infatti vive realmente in essa, si assicura la verità, la sanità e la pace nell'intimo dell'essere”.

I santi segni
La liturgia è una realtà che ha a che fare col mistero: acquisisce oggettività sensibile attraverso i santi segni, manifestazioni visibili della grazia divina. Essi sono veicolo per l'educazione alla vita cristiana e “luogo” in cui questa riposa. “Se essi si liberassero dalle forme convenzionali assurgendo nuovamente a simboli genuini: allora sì che ci sarebbe veramente da sperare che essi vengano pure intesi dalla coscienza cristiana quando dispiega o contempla le forme liturgiche”.
La prima preoccupazione dell'A. è di ritrovare la autenticità del segno, ed evidenziare come nel mondo dominato dalle parole, latrici di luoghi comuni reiterati sulle pagine dei giornali, se ne sia perduta la viva realtà. “Siamo consapevoli di quel che facciano quando stringiamo la destra a qualcuno? Ci è chiaro che gli diamo la nostra fiducia, la nostra anima?”. Quello che era segno, con l'uso disattento diventa forma vuota, abitudine priva di contenuto. Lo stesso avviene con i modi di dire di uso corrente, i comportamenti, le mode. Ma “in nessun ambito la profanazione della parola, lo svuotamento dell'agire, la vanificazione del segno è così terribile quanto nella vita religiosa”. L'A. si prefigge, attingendo alla propria esperienza personale, di ritrovare il senso di alcuni segni così che le consuetudini che vi possano essere collegate tornino a vita nuova.
E così elenca: il segno della croce. Quando lo fai, “fallo bene... lento, ampio, dalla fronte al petto, da una spalla all'altra. Senti come ti abbraccia tutto?”. Il segno della consacrazione “nella forza di Cristo, nel nome di Dio uno e trino”.
La mano: dopo il viso, la parte più spirituale del corpo, forte per il lavoro, delicata nella carezza, capace di accogliere l'anima altrui e di esprimere gioia, fiducia, amore più di qualsiasi parola. Nel congiungersi con le dita intrecciate le mani divengono quasi un tabernacolo che custodisce, mentre la loro unione palmo contro palmo esprime umiltà e dedizione... così il linguaggio del corpo può esprimere “a Dio quel che l'anima intende”.
L'inginocchiarsi, lo stare in piedi, l'incedere, il battersi il petto sono tutte azioni nelle quali nel riconoscersi umile dinnanzi a Dio l'essere umano ritrova la dignità che gli consente di partecipare con pienezza al rito.
 
I gradini, il portale, il cero sono simboli di elevazione che culminano nella vivida prontezza della fiamma, dove si ritrova il senso profondo della vita, in quanto consumarsi nella verità e per amore.
 
L'acqua benedetta, la fiamma, la cenere, l'incenso, la luce e il calore sono vie di purificazione e santificazione che consentono di accedere alla verità.
 
L'altare, i lini, il calice, la patena sono espressioni della capacità dell'offerta che proviene dall'intimo dell'essere umano. E di questo nucleo intimo l'altare, nella parte più santa della chiesa, ricoperto dai lini che dicono della purezza ottenuta col sacrificio.
 
La benedizione è quel che evoca la vita in virtù del dono della grazia.
Il santo spazio, radicato nel mistero divino, è ordinato all'azione liturgica: la chiesa è percorsa dall'anelito della luce e rischiarata dalla Parola. Incardinato sulle tre direzioni, due orizzontali e una verticale, il santo spazio si spiega nel volgersi a Cristo, nell'irraggiamento della parola divina, nell'elevazione della preghiera e dell'offerta.
 
Le campane e il tempo santificato riempiono lo spazio all'intorno e dispiegano nella vastità il messaggio divino, scandendo il giorno, che è metafora del tragitto della vita: desta e pronta al mattino, piena e disposta all'eternità nel mezzodì, aperta all'abbraccio confortante del riposo nella fiducia verso l'Onnipotente alla sera.
Nel nome di Dio è la meditazione conclusiva. Se all'inizio si è partiti con la constatazione della perdita di senso delle parole, qui si ritrova tale senso, nella misura in cui l'esperienza viva porta a un nuovo incontro con l'essenza delle cose. E allora, ritrovata la potenza della parola, e conosciuta la verità del segno, ci si può porre di fronte al nome di Dio, “colui che è”, l'essere stesso: “Il nome di Dio è propriamente tutto. Così lo preghiamo che c'insegni a 'non nominare invano il suo nome' bensì a 'santificarlo'... Onoreremo il Nome di Dio, come Dio stesso. E in esso onoreremo anche il santuario dell'anima nostra”.




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