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Il contenuto   versione testuale
L'architettura non è solo quel che risulta alla fine della costruzione: è tutto il processo ideativo e il minuzioso intreccio di dialoghi che coinvolge, insieme col progettista, anzitutto i committenti, la comunità destinataria dell'edificio e le tante altre figure, professionali e non, che all'opera partecipano. Ed è un'avventura umana profonda, quando la complessità che vi sta alla radice è ben compresa dagli attori di questo processo. Nella sua “presentazione”, Corrado Marcetti evidenzia in particolare l'attenzione che Michelucci pose nel sollecitare una condivisione del suo progettare. Grazie a questo, le tante chiese da lui concepite, pur diverse tra loro, pur espresse con linguaggio architettonico decisamente contemporaneo – non frutto di mimesi storicistiche – appaiono effettivamente per quel che sono: inconfondibilmente chiese. Questo aspetto sembra cogliere mons. Simone Giusti nel suo contributo introduttivo al volume, in cui ricorda come l'edificio chiesa non sia solo un “contenitore di funzioni”, ma sia «realtà comunicante, un luogo narrante la divinità, un ambiente sacro che abbisogna di forme espressive inerenti e consequenziali al messaggio che l'edificio intende comunicare».
Nel lungo periodo in cui Michelucci principalmente operò, in particolare negli anni Sessanta, si sentiva con forza il tema della chiesa intesa quale “casa degli uomini” e questo ha portato molti a preferire architetture in cui la peculiarità dell'edificio di culto, con la sua intrinseca carica di simbolicità, andava a volte perduta. Nella successione di progetti firmati da Michelucci si nota invece una maturazione che porta a compaginare i due aspetti: quello di chiesa-casa e quello della eccezionalità dell'edificio.
E questo anche se, come ricorda Stefano Sodi nel suo preambolo, «Michelucci ha sempre affermato di non essere un credente». Per cui Giuseppe Battelli parla di «Rappresentazione del sacro in una prospettiva laica».
«Nelle chiese – ha scritto Michelucci in una riflessione del 1987, quando era ormai prossimo alla conclusione del suo cammino terreno – più che il senso del sacro ho cercato di trasmettere il senso della speranza».
Per quanto avesse, già dai primi decenni del XX secolo, costruito piccoli edifici cultuali, è in particolare dagli anni '40 che fiorisce la progettazione di chiese firmate dall'architetto pistoiese.
 
Con incarico del '46 e termine dei lavori nel '53, la sua prima chiesa importante è quella dei Santi Pietro e Gerolamo a Collina di Pontelungo (Pistoia).
 
Un progetto che Michelucci individua come segno di svolta: abituato, suo malgrado, alla retorica magniloquente del fascismo, qui egli la ripudia «per andare a un discorso popolare, elementare, in cui l'intervento dell'architetto sparisse» per rivelarsi invece come traccia di una vita sociale vissuta. Questa chiesa infatti prende le forme della cascina e le rielabora e nobilita, ma certo nei materiali e nella configurazione generale non vi si contrappone.
Il risultato fu deludente, perché la comunità non desiderava una chiesa povera come le sue case: voleva nella chiesa un edificio che si elevasse al di sopra del resto del costruito, per essere sì casa di tutti, ma più nobile di quanto la quotidianità offrisse.
Forse da tale esperienza nasce un ripensamento: fatto sta che il progetto immediatamente successivo, quello della chiesa delle Sante Maria e Tecla in località “La Vergine” a Pistoia riprende alcune tematiche storicamente fondate pur reinterpretandole. Ed è frutto di uno scambio intenso di opinioni con il committente.
 
Nello stesso periodo Michelucci è chiamato dal card. Lercaro a partecipare al Congresso Nazionale di Architettura Sacra, tenutosi a Bologna nel 1955, proprio per dargli la possibilità di mettere a fuoco il tema che gli stava caro: come la chiesa non dovesse essere frutto di imponenza, ma capace di portare bellezza là dove c'è povertà.
Nel papato di Giovanni XXIII Michelucci ravvisò tale importanza che lo ritenne un nuovo inizio per la propria vita, sotto il segno «della giustificazione umana spirituale e corale del mio operare», come ebbe a scrivere.
A quegli anni risale anche l'incontro con don Lorenzo Milani, che invitò proprio Michelucci a redigere la prefazione della sua “Lettera a una professoressa”.
E da questo momento in poi Michelucci accentuerà il suo desiderio di dialogo con le comunità alle quali i suoi progetti sono riservati.
Ovviamente il progettista è fortemente influenzato dai committenti che gli si rivolgono. Significativa è la realizzazione della chiesa di Santa Maria a Larderello, del periodo 1956-58.
 
Qui il committente, la Società Larderello che doveva trasformare un centro industriale destinato allo sfruttamento di soffioni boraciferi in un centro abitato, gli offrì dovizia di mezzi e gli richiese una “architettura fantastica” che si distaccasse dall'atmosfera del preesistente impianto industriale. Ecco che nacque un edificio imponente, seppure leggero grazie alla trama sottile delle pareti traforate. Una chiesa molto apprezzata dalla popolazione proprio per la sua monumentalità. Per lo stesso motivo questo progetto non soddisfò completamente il suo stesso autore, che al proposito si espresse in termini dubitativi, preferendo egli i “luoghi di vita” alle strutture di grande rilevanza formale: come spiega Stefano Sodi nel saggio in cui esamina l'evolversi dei rapporti tra Michelucci e i suoi committenti. Coi quali peraltro ebbe solitamente contatti più fluidi e tranquilli che con le comunità.
Un posto particolare nell'opera michelucciana occupa la chiesa di Longarone, realizzata tra il 1966, anno dell'incarico, e il 1983, anno in cui fu consacrata (i lavori cominciarono nel 1975).
 
Questa chiesa era intesa a sostituire quella antica, distrutta, col resto del villaggio, dall'esondazione del Vajont, avvenuta il 9 ottobre del 1963. Oltre duemila persone soccombettero a causa della massa d'acqua che sommerse la valle: pertanto la nuova chiesa era anche intesa quale memoriale del dramma e l'incarico fu affidato a Michelucci dall'Ises, l'istituto pubblico incaricato della ricostruzione. Il progetto fu avversato dalla comunità locale: questa preferiva infatti un progetto più consono a quanto c'era prima e alle architetture della vallata. Il dibattito fu lungo, interessò a tratti l'opinione pubblica nazionale e molteplici furono i tentativi di sottrarre l'incarico a Michelucci.
Tuttavia la fiducia che in lui riponevano le autorità statali portò, alla fine, alla realizzazione del suo progetto, dal chiaro valore simbolico e di memoriale.
Risalta in questa opera il desiderio di unire la significatività del progetto con il senso della comunità. Vi sono due parti ad anfiteatro, la chiesa stessa e, sopra questa, una terrazza da cui si contempla la porzione di monte da cui precipitò la massa d'acqua. Tale terrazza può fungere da piazza, teatro o da chiesa a cielo aperto. La conformazione avvolgente a spirale dell'edificio ricorda il vorticare dell'acqua. «L'ascesa al Golgota – scrive Alessandro Melissi materializza in uno spazio liturgico sovrapposto all'aula interna, che però non riuscirà a trasmettere ai fedeli la forza espressiva della metafora». Michelucci ravvisava in questo tipo di spazio un luogo di incontro sociale, convinto com'era, come scrive Melis, «che gli uomini possano trovare dentro di sé e nelle relazioni con gli altri le risposte ai problemi, tanto della società, quanto dell'anima».
Forse il motivo principale che portò la committenza pubblica a insistere sul progetto Michelucci, risiede nella fama straordinaria acquisita nei primi anni Sessanta grazie a quello che resta il suo capolavoro assoluto: la chiesa di San Giovani Battista a Campi Bisenzio, la “chiesa dell'autostrada”.
 
L'idea ispiratrice è quella dell'edificio-tenda, che ricorda l'Esodo e dà luogo sia all'interno, sia all'esterno, a un continuo intreccio di movimenti dinamici. In questo modo si trascende la forma e si dà luogo a una «metafora, allo stesso tempo onirica e utopica». Come scrisse Michelucci: «nessun luogo è povero se è abitato da un angelo».
I pilastri si ramificano in strutture arboree mentre le coperture che si distendono quali vele fanno perdere la percezione delle dimensioni: all'interno, quel che era “tenda” diventa anche “foresta”.
Qui la chiesa si rivela come un organismo, composto da diversi aspetti, segnati da diversi materiali (la pietra nelle pareti esterne, il calcestruzzo a vista all'interno, le coperture in rame), perfettamente integrati in una struttura unitaria.
E su questo stesso cammino “organico” si svolgono anche i progetti del santuario della Beata Vergine della Consolazione a Borgo Maggiore in San Marino (1961-67) e della chiesa di San Giovanni Battista di Arzignano.
 
Con figurazioni diverse, esse esprimo i progetti maturi, in cui la forma diventa annuncio coinvolgente, capace di rivestirsi della forza del simbolo.




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