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Il contenuto   versione testuale
Si parte dal culto ebraico: Gesù seguiva i riti nella sinagoga e considerava il tempio di Gerusalemme come “la casa di Dio” (Mt 21, 17). E nella sinagoga si riunivano i primi cristiani, per pregare e ascoltare la parola di Dio, e si parla infatti di sinagoghe giudeo-cristiane. Anche dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, la distinzione tra chiesa cristiana e sinagoga era labile. Per conseguenza i luoghi liturgici della chiesa nascono come evoluzione di quelli della sinagoga: in particolare del bema, la piattaforma sopraelevata che consentiva a chi leggeva di farsi udire meglio dai fratelli. Ma nella sinagoga giudeo-cristiana si aggiunge un tipo di ambientazione che era tipica non della ritualità sinagogale, bensì della tradizione casalinga ebraica: il pasto rituale del sabato, la cena pasquale che per i seguaci di Gesù Cristo diventano memoriale dell’Ultima Cena. Così nella sinagoga giudeo-cristiana del Monte Sion, la più antica, si identificano due vani distinti ma comunicanti di cui uno dedicato alla recita delle preghiere rituali e del battesimo, e l’altro alla celebrazione eucaristica.
  
Infatti in questo primo periodo della vita del cristianesimo prese corpo l’abitudine di celebrare la memoria della “Cena nella camera alta” (At 1, 13-14) in ambienti domestici, dove una sala è riservata alle agapi. Nella “casa di Pietro” a Cafarnao, già nei resti risalenti alla seconda metà del I secolo si notano particolare attenzione e cura nella conservazione degli ambienti e nella presenza di iscrizioni, a dimostrazione di una destinazione di particolare importanza.
  
Anche in Roma le celebrazioni eucaristiche si svolgevano nelle case, spesso di personaggi abbienti e pertanto dotate di spazi ampi. In questa prima epoca i cristiani non avvertivano la necessità di costruire luoghi specifici per il culto, tuttavia le case entro cui si celebravano le eucaristie e i battesimi, in forza della stessa ripetizione di questi riti finiscono per acquisire il significato di residenza dedicata al rito.
Intanto, le “forme” della liturgia si vanno via via affinando e ritualizzando insieme col configurarsi dei luoghi a essa preposti. E l’analisi svolta dall’A. richiama passo passo i documenti storici e magisteriali mettendoli a confronto con i ritrovamenti archeologici.
Così, attraverso i molteplici esempi presi in considerazione, si ha un’idea concreta dello svolgersi dei riti, delle vesti liturgiche utilizzate, della configurazione degli spazi e dei luoghi. Se all’origine si tratta di ambienti e arredi legati alla quotidianità, col passare del tempo questi si vanno individualizzando e rivestendo di particolare dignità. Il che vale anche per gli edifici, al punto che il pagano Porfirio, nel periodo tra l’anno 270 e il 280 accusa i cristiani di erigere “edifici molto grandi imitando la mole dei templi, e ivi si radunano a pregare”. In gran parte sequestrate o distrutte all’epoca delle persecuzioni di Diocleziano, le chiese sono restituite ai cristiani dopo il cosiddetto Editto di Costantino e Licinio del 313. Dopo di allora si apre una nuova epoca di grandi costruzioni, con un altare fisso e la cattedra vescovile nello spazio absidale. L’edificio basilicale, che era il luogo pubblico romano, è quello più consueto nelle edificazioni in occidente.
 
Mentre si presentano anche altre tipologie, quale quella a pianta centrale, come S. Stefano Rotondo di Roma.
 
In oriente il “tipo” basilicale si presenta con caratteristiche un poco diverse: sviluppo longitudinale accorciato, maggiore larghezza, assenza del transetto; mentre la chiesa di Santa Sofia in Costantinopoli, con i suoi colonnati, matronei e la corona di aperture alla base della grande cupola, resta come un esempio di ineguagliata magnificenza.
 
La parte conclusiva del volume, “Le architetture della liturgia” si riferisce ai secoli immediatamente successivi alla liberalizzazione del culto (secc. V e VI). E risulta importante, quale momento di origine della tradizione, osservare come si interpretano in quell’epoca – con variazioni macroscopiche a seconda dei luoghi e dei momenti – i luoghi, gli edifici, gli spazi per il culto.
Se i primi altari erano semplici tavole di legno, dal IV-V secolo – scrive Liccardo – la frenetica attività costruttiva e la trasformazione dei templi in chiese cristiane, arricchirono gli edifici di valore semantico: e gli altari divennero la parte più importante della chiesa. Una prima classificazione indica che quegli antichi altari furono di quattro tipi: “a mensa”, “a cofano” (come una cassetta-reliquiario), “a blocco” e “a sarcofago”.
 
All’epoca gli altari erano rivolti verso il popolo? Solo in alcuni casi: «L’usanza del periodo tardoantico – scrive l’A.- non può fornire un indirizzo né per la sistemazione né per l’orientamento versus populum, perché in uno stesso territorio, per esempio nell’area di influenza della liturgia romana, si nota che il celebrante qualche volta gira le spalle ai fedeli, altre volte è loro di fronte...».
Sia riguardo all’altare, sia riguardo agli altri luoghi liturgici, l’A. analizza diversi esempi di epoca tardoantica, che in ogni caso dimostrano una notevole libertà di realizzazione e ovviamente derivano non solo dal loro senso simbolico, ma anche da necessità contingenti. Per esempio, di battisteri si trovano esempi ottagonali (sul modello di quello di S. Stefano in Milano), quadrati, circolari, poligonali e poligonali inscritti in un quadrato, tetraconcavi, triconcavi, ecc. in cui si ravvisa predominante ora l’influsso delle tradizioni architettoniche locali, ora quello simbologico.
E, così come sulle architetture delle chiese, anche sulla realizzazione dei luoghi di culto la decisione del 313 ebbe un notevole influsso, favorendo il passaggio a realizzazioni più solide (dal legno alla pietra) e più ricche di ornamenti. Un particolare significato assume la cattedra vescovile, soprattutto dopo che con la costituzione del 318 Costantino investe i vescovi anche di responsabilità di carattere civile, talché la cattedra non solo è elemento liturgico, ma anche sito da cui si amministra la giustizia civile. E la funzione si riflette sulla forma e sulla consistenza del luogo che la rappresenta.
 
Particolarmente interessante è seguire l’evoluzione del bema che diviene, secondo gli studi archeologici riferiti alle chiese siriane, punto focale del culto, ambiente separato da una balaustra, con pianta a “ferro di cavallo” in cui stavano la cattedra, i seggi dei concelebranti e l’altare: lo spazio presbiteriale che era ben separato da quello del popolo.
Ma ovviamente il bema, in quanto luogo sopraelevato dal quale pronunciare le letture, evolve, nella liturgia dei secoli successivi,  nel luogo dell’ambone.
 
L’esposizione si conclude con una descrizione di come il tema della luce, ricco del proprio significato teologico e simbolico, fosse al centro delle dell’attenzione dei architetti di chiese: sia per quanto riguarda la disposizione delle finestre, sia per quanto riguarda l’elaborazione e la disposizione dei candelieri. «Diversamente dai templi greci e romani – scrive Liccardo - il cui interno si concentrava soltanto nella penombra dell’inaccessibile cella, l’ambiente più lontano e remoto, nelle basiliche e nei battisteri orientali e occidentali, spaziose e regolari aperture riempivano di luce le navate».
Roma. Ricostruzione del progetto originario (a sinistra) e grafico con cupola e volte (a destra) della chiesa di Santo Stefano Rotondo (da Brandenburg 2000)
Roma. Ricostruzione del progetto originario (a sinistra) e grafico con cupola e volte (a destra) della chiesa di Santo Stefano Rotondo (da Brandenburg 2000)



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