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Una citazione   versione testuale

«La difficoltà del rapporto dell'architetto con il committente non è certamente una novità dell'oggi. Nel nostro caso, però, tutto si è enormemente complicato, perché il punto di riferimento della tradizione si è reso meno univoco che nel passato e l'architetto, oggi più che in altre epoche, è proteso ad affermare la sua autonomia e l'originalità della sua opera. L'autocoscienza della Chiesa e del suo rapporto con il mondo si è resa più dinamica, per non dire assai fluida, la sua prassi liturgica non più immobile, la sua soggettività meno concentrata nella persona del vescovo e del parroco e più inclusiva di tutti i membri della comunità. Ne deriva che quando la committenza, anche al suo livello più alto, avesse steso un prontuario delle norme regolanti l'articolazione degli spazi, in ordine alle celebrazioni liturgiche, come ha fatto la Conferenza Episcopale Italiana con la sua Nota del 1993*, l'architetto non potrebbe fare a meno di mettersi ad auscultare lo stato d'animo, la sensibilità e le esigenze dei pastori e dei fedeli, per i quali egli deve approntare un luogo che essi abiteranno come la casa della loro fede. L'edificio della chiesa, inoltre, non ha solamente un potere significante per i fedeli, in ordine alla loro esperienza liturgica. Nel costruirlo, e poi nel fruirne, la comunità cristiana cerca e trova una sua autoidentificazione e vi si esprime in tutta la gamma delle manifestazioni della sua vita interiore e delle sue operosità e quindi lo riconosce e lo utilizza come un luogo e uno strumento del suo rapporto con la città in cui vive. Bisognerà quindi allargare l'auscultazione del committente a una attenta analisi della società dentro la quale la comunità cristiana vive e opera». (pag. 13)

* [Conferenza Episcopale Italiana – Commissione Episcopale per la Liturgia, La progettazione di nuove chiese. Nota pastorale 18 febbraio 1993]
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